Lezione 28 - L’estensione degli effetti diretti. Dagli effetti diretti alla "Francovich"

 

 

Qualsiasi norma comunitaria può produrre effetti diretti, sia essa derivante dal Trattato (come negli esempi riportati nella lezione precedente), sia prodotta dal diritto derivato. Quanto al diritto derivato, esso è prodotto essenzialmente da regolamenti e direttive. I regolamenti hanno la caratteristica “tipologica” delle diretta applicabilità, le direttive no: esse si rivolgono agli stati, che devono trasporle in norme interne. Talvolta però anche le direttive possono produrre “effetti diretti”.

Gli effetti diretti non sono però una caratteristica di alcune direttive. Per capire il punto possiamo prendere le mosse dalla “dottrina” dell’effetto utile (slide 1- Sent. Van Duyn, C- 41/74, la prima in cui si riconosce esplicitamente che anche le direttive possono generare “effetti diretti”). È un’argomentazione che viene usata dalla Corte di giustizia, secondo la quale la normativa comunitaria non può essere messa in condizione di non operare efficacemente: essa si basa sull’art. 10 Tr. Ce, il quale dispone che “Gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dal presente trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità”. È il principio per cui bisogna assicurare l’efficacia delle norme comunitarie. Nessuno Stato può legittimamente impedire l’applicazione del diritto comunitario, né può trincerarsi dietro alla mancata trasposizione di esso in norme interne – mancata trasposizione di cui esso Stato è responsabile – per impedire che le norme comunitarie producano il loro effetto. La Comunità emana una direttiva, la direttiva ha un termine entro il quale lo Stato deve attuarla. Se, scaduto il termine, lo Stato è inadempiente, ovviamente questo potrebbe comportare l’attivazione di una procedura d’infrazione ex art. 169 (nella vecchia numerazione), ossia potrebbe scattare il procedimento amministrativo di cui ho già parlato. Un procedimento lungo e basato su valutazioni di opportunità politica. Ma possono invece esserci casi in cui la direttiva produce posizioni di vantaggio per i cittadini?

Spesso si mettono in relazione gli effetti diretti con le direttive c.d. dettagliate. Ad esse ho già accennato: erano direttive molto in uso negli anni ‘70 e ’80, che regolavano analiticamente le caratteristiche dei prodotti di cui si voleva garantire una libera circolazione nel mercato interno senza che la concorrenza producesse situazioni di pericolo per i consumatori o per l’ambiente. Ma gli effetti diretti derivavano non dalle norme analitiche sul prodotto, ma da una norma finale che contiene un divieto agli Stati di ostacolare la circolazione di merci conformi ai requisiti prescritti. Questo divieto opera a favore dei produttori, i quali, ottenuto il riconoscimento della qualità o la certificazione in un determinato stato membro, hanno il diritto di diffondere il prodotto in tutto il mercato europeo, compresi gli Stati che non abbiano attuato la direttiva. In quegli Stati si verificava una situazione negativa per i produttori nazionali, che in mancanza di norme interne di attuazione della direttiva possono avere difficoltà ad ottenere le certificazioni necessarie per vendere le loro merci fuori dal paese di appartenenza; ma ciò non consente allo Stato inadempiente di proteggere i propri produttori bloccando l’importazione della merce dagli altri stati membri. Ecco l’effetto diretto: il divieto di ostacolare la circolazione della merce che abbia ottenuto il riconoscimento in uno stato membro opera direttamente, a favore dell’operatore privato, in forza della direttiva e non dell’atto nazionale di attuazione: il giudice (ma la stessa amministrazione) nazionale deve applicare direttamente la norma della direttiva anche in quei paesi che ad essa non hanno dato attuazione.

La direttiva dettagliata non nasce quindi con le stimmate degli effetti diretti, ma è una specifica norma che essa (come qualsiasi altra direttiva) può contenere a produrli, in quanto pone un divieto che può operare anche senza ulteriori norme di attuazione. Questo divieto crea un diritto soggettivo in capo al produttore privato che, ottenute le dovute certificazioni, può commercializzare liberamente la propria merce e può adire il giudice nazionale a difesa di questo diritto contro lo Stato che ne ostacoli l’esercizio. Le direttive sono fatte per obbligare gli Stati ad emanare norme che attuino gli obiettivi prescritti, ma ciò non toglie che alcune singole loro norme possano fondare diritti soggettivi che possono essere fatti valere davanti al giudice.

Gli effetti diretti non sono perciò legati a caratteristiche degli atti, ma a quelle delle norme che si possono ricavare dalle loro disposizioni (si richiama qui la fondamentale distinzione tra atto, disposizione e norma già studiata nell’àmbito del corso di diritto costituzionale). La norma è la regola di diritto che viene elaborata cercando di collegare ciò che sta scritto nel testo (la disposizione) allo specifico caso di cui si tratta: dalla disposizione della direttiva che vieta allo stato di ostacolare la circolazione di merci certificate, si può ricavare una norma che riconosce il diritto soggettivo del sig. Rossi, produttore di una merce certificata in Germania, di importarla e venderla in Italia anche se l’Italia non ha ancora attuato la direttiva. Il Sig, Rossi può rivolgersi al giudice italiano facendo valere direttamente questo suo diritto: così la norma può dirsi che operi con effetto diretto.

Qualsiasi atto normativo della Comunità – il Trattato, i trattati internazionali stipulati dalla Comunità, i regolamenti, le direttive ecc. – possono produrre norme con effetto diretto. Se vogliamo comprendere il motivo di ciò, possiamo prendere le mosse da un noto broccardo: ex iniuria ius non oritur (da un atto illecito non può nascere un diritto). Appartiene a quelle massime di giustizia che stanno alla base degli ordinamenti giuridici, il principio – per esempio - per cui l’omicida non può ereditare dalla sua vittima. Da un fatto illecito non si può ricavare un titolo giustificativo che attribuisca una posizione di vantaggio a chi l’ha compiuto. Nessuno Stato può difendersi appellandosi alla mancata attuazione del diritto comunitario a lui imputabile; come ha detto la Corte di giustizia (slide 2Sent. Faccini Dori), “sarebbe infatti inaccettabile che lo Stato al quale il legislatore comunitario prescrive l' adozione di talune norme volte a disciplinare i suoi rapporti ° o quelli degli enti statali ° con i privati e a riconoscere a questi ultimi il godimento di taluni diritti potesse far valere la mancata esecuzione dei suoi obblighi al fine di privare i singoli del godimento di detti diritti”. Il meccanismo dell’effetto diretto è la soluzione per impedire che ciò accada.

L’effetto diretto però sorge unicamente se c’è un soggetto privato che possa vantare un diritto fondato sulla norma comunitaria non attuata. E’ dunque la conseguenza coerente della premessa da cui è partita la Corte di giustizia, ossia che il diritto comunitario (trattati e diritto derivato) può fondare direttamente (quindi anche in assenza di atti interposti da parte degli Stati membri) diritti soggettivi per i singoli. Ma quand’è che ciò può accadere? Quando può sorgere un diritto soggettivo in base ad una norma comunitaria? La risposta è tutta basata sull’interpretazione delle disposizioni comunitarie: è perciò il giudice (il giudice nazionale in prima battuta, la Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale) ad accreditare i diritti e le norme con effetto diretto che li fondano.

Sono solo i divieti, i c.d. “obblighi di non facere”, a far sorgere norme con effetto diretto, o possono essere anche obblighi positivi, “obblighi di facere”? La domanda è davvero difficile, anche perché non sempre è chiaramente divisibile l’ipotesi dell’obbligo di non facere dall’obbligo di facere: si pensi per esempio ad un divieto di discriminazione in base al sesso. Un secondo problema difficile è se gli effetti diretti operino solo in senso “verticale”, nei rapporti tra apparati pubblici e soggetti privati, o anche in senso “orizzontale”, tra soggetti privati. La sent. Faccini Dori sembra chiudere il discorso, negando che gli effetti diretti possano operare se non lungo ml’asse verticale. Ma domani vedremo che queste risposte non sono del tutto pacifiche e “secche”.

Oggi invece vorrei finire la lezione spiegando come il problema degli effetti diretti si sia evoluto assicurando l’effetto utile e la protezione “diretta” dei diritti anche quando mancano i requisiti necessari perché l’effetto diretto si produca. I requisiti richiesti alla norma comunitaria sono che essa sia precisa, completa e incondizionata e in relazione di causa – effetto con il diritto soggettivo vantato dal soggetto privato. È soprattutto il carattere incondizionato a costituire il filtro, perché le direttive per loro natura rinviano ad attività di “adattamento” nell’ordinamento interno la determinazione delle quali è affidata alla discrezionalità degli Stati membri. Ma se lo Stato membro non esercita questa sua attività, è possibile che l’individuo perda ogni grado di tutela del suo diritto soggettivo? Al quesito ha dato risposta la sentenza Francovich (C-6 e 9/90).

La storia è questa: il sig. Francovich non riesce ad ottenere lo stipendio arretrato che gli deve corrispondere la ditta veneta di cui è dipendente. Di fronte al giudice italiano, egli si appella alla direttiva 80/987, che è diretta a garantire ai lavoratori dipendenti un minimo comunitario di tutela in caso di insolvenza del datore di lavoro, fatte salve le norme più favorevoli esistenti negli Stati membri: a tal fine, la direttiva stabilisce, in particolare, garanzie specifiche per il pagamento dei crediti relativi alla retribuzione (analogo procedimento è seguito dalla sig.a Bonifici e da un gruppo di colleghi dipendenti da un’altra ditta che aveva dichiarato fallimento). I giudici nazionali si rivolgono alla Corte di giustizia con una pregiudiziale d’interpretazione, chiedendo che essa dica se la direttiva esprima una norma ad effetto diretto su cui i ricorrenti possano fondare la tutela del proprio diritto contro lo Stato che non aveva attuato nei termini prescritti la direttiva stessa. “Secondo una giurisprudenza costante – risponde la Corte - lo Stato membro che non ha adottato entro i termini i provvedimenti di attuazione imposti da una direttiva non può opporre ai singoli l' inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa. Perciò, in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, tali disposizioni possono essere richiamate, in mancanza di provvedimenti d' attuazione adottati entro i termini, per opporsi a qualsiasi disposizione di diritto interno non conforme alla direttiva, ovvero in quanto siano atte a definire diritti che i singoli possono fare valere nei confronti dello Stato”. Le norme della direttiva “sono sufficientemente precise e incondizionate per consentire al giudice nazionale di stabilire se un soggetto possa essere o no considerato beneficiario della direttiva”, ma è lasciata un’ampia discrezionalità quanto all' organizzazione, al funzionamento e al finanziamento degli organismi di garanzia che devono intervenire. La direttiva non è dunque “incondizionata”, perciò non le si possono ricollegare “effetti diretti”.

Tuttavia, aggiunge la Corte (slide 3), “va constatato che sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro.

La possibilità di risarcimento a carico dello Stato membro è particolarmente indispensabile qualora, come nella fattispecie, la piena efficacia delle norme comunitarie sia subordinata alla condizione di un' azione da parte dello Stato e, di conseguenza, i singoli, in mancanza di tale azione, non possano far valere dinanzi ai giudici nazionali i diritti loro riconosciuti dal diritto comunitario. Ne consegue che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato.

Ecco di nuovo l’argomento dell’”effetto utile": infatti “l' obbligo degli Stati membri di risarcire tali danni trova il suo fondamento anche nell' art. 5 del Trattato, in forza del quale gli Stati membri sono tenuti ad adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l' esecuzione degli obblighi ad essi derivanti dal diritto comunitario. Orbene, tra questi obblighi si trova quello di eliminare le conseguenze illecite di una violazione del diritto comunitarioDa tutto quanto precede risulta che il diritto comunitario impone il principio secondo cui gli Stati membri sono tenuti a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili.

Naturalmente devono essere determinate le condizioni al cui verificarsi si può configurare un’ipotesi dei responsabilità extracontrattuale dello Stato inadempiente nei confronti dei privati. Le condizioni individuate dalla Corte (slide 4) sono tre:

a)                       che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l' attribuzione di diritti a favore dei singoli

b)                      che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva

c)                      che sussista un nesso di causalità tra la violazione dell' obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi

 
Quando ricorrono tali condizioni sono sufficienti, sorge un diritto dei singoli ad ottenere un risarcimento, il cui fondamento sta nella norma comunitaria, ma la cui disciplina è posta dalle norme nazionali. Ma le condizioni, formali e sostanziali, stabilite dalle diverse legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni per violazioni di “diritti comunitari” non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento. I diritti “comunitari” devono avere lo stesso trattamento dei diritti “nazionali”.