DA: “Le Regioni”, 2002
Il
nuovo riparto di competenze legislative: un primo, importante chiarimento
(nota a Corte costituzionale 282/2002)
di Roberto Bin
1. Anni di giurisprudenza costituzionale ci hanno insegnato a non confidare troppo nelle argomentazioni che la Corte adduce “a favore” quando pronuncia “contro”. Tuttavia questa sentenza, che pur dichiara l’illegittimità della legge marchigiana che vieta le terapie elettroconvulsivanti, segna alcuni punti di grande interesse a favore dell’autonomia regionale: essendo la prima decisione sull’applicazione del nuovo riparto delle competenze, dopo la riforma del Titolo V, merita una particolare attenzione.
“La legge impugnata – come chiarisce la stessa motivazione - nel suo contenuto dispositivo sostanziale, prevede la obbligatoria "sospensione" - cioè il divieto, sia pure temporaneo - di determinate pratiche terapeutiche in tutto il territorio regionale. Essa non ha come destinatarie le strutture del servizio sanitario regionale, ma si riferisce alla pratica clinica, dovunque e da chiunque svolta”. Il Governo l’ha impugnata, oltre che per un più generale contrasto con i princìpi costituzionali di autonomia professionale e scientifica dei medici e della volontarietà dei trattamenti sanitari, per la violazione di tre specifici limiti individuati nel nuovo Titolo V:
a) violazione della competenza “esclusiva” dello Stato in materia di “ordinamento civile e penale” (art. 117.2, lett. l, Cost.);
b) violazione della competenza “esclusiva” dello Stato in materia di “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (art. 117.2, lett. m, Cost.);
c) violazione dei “princìpi fondamentali” della materia “tutela della salute” che è enumerata tra quelle a competenza “concorrente” (art. 117.3 Cost.).
L’aspetto interessante di questa decisione è che la Corte respinge i primi due rilievi specifici legati all’interpretazione dell’art. 117, mentre accoglie il terzo, ma delineando qualche novità di rilievo per ciò che riguarda le tecniche di individuazione dei “principi”.
2. Di particolare significato è che la Corte rifiuti l’interpretazione sistematica e espansiva delle voci elencate nell’art. 117.2 tra le attribuzioni “esclusive” dello Stato. La linea d’attacco del Governo congiungeva i due limiti dell’ordinamento civile e dei livelli essenziali in modo da stringervi in mezzo ciò che nella “materia” tutela della salute riguarda cure e prassi mediche, e quindi il diritto sostanziale alla salute. Questi profili, sostiene il ricorrente, riguarderebbero la definizione dei diritti fondamentali dei cittadini (logicamente “a monte” della stessa determinazione dei livelli essenziali) e la responsabilità, anche civile, di chi esercita la professione sanitaria: starebbero perciò fuori della competenza regionale, che si dovrebbe arrestare “agli aspetti strumentali, quali l' organizzazione e la gestione di presidi e strutture sanitari e più in generale del "servizio" sanitario”.
Nelle argomentazioni del ricorrente ricompaiono dunque, e non senza un’abile argomentazione di sostegno, la vecchia tecnica del “ritaglio delle materie” e le vecchie forbici dell’”interesse nazionale”, ossia dell’interesse non frazionabile, insuscettibile di disciplina differenziata a livello regionale: “la competenza regionale – come riassume la Corte il punto di vista del Governo - inizierebbe per così dire "a valle" della conformazione dei diritti della personalità e dei diritti patrimoniali dei cittadini”, al di qua cioè della soglia degli interessi “non frazionabili”. Infatti, solo in subordine il ricorso del Governo si appella al limite specifico della potestà concorrente: perché in prima battuta quello che si intende sostenere è invece l’appartenenza piena del segmento in questione della “tutela della salute” alla potestà esclusiva dello Stato.
Per smontare questa linea interpretativa, la Corte sviluppa due ordini di argomentazioni.
In primo luogo confuta l’assunto del ricorrente circa la portata della riserva statale (e del corrispondente “limite” alla potestà legislativa regionale) intestato all’ordinamento civile. Afferma la Corte: non tutto ciò che è posto dalla legislazione come vincolo all’opera dei sanitari, e si riflette perciò sull’accertamento della loro responsabilità, ricade nell’ordinamento civile. Bisogna invece distinguere tra “i principi e i criteri della responsabilità”, che appartengono alla disciplina civilistica, e “le regole concrete di condotta”, che definiscono “i doveri inerenti alle diverse attività”: su questo secondo versante la competenza della legge regionale non può essere esclusa in radice. La Corte non dice nulla di più su come debba essere interpretato il limite dell’”ordinamento civile”, anche se sembra implicitamente mantenere fermo il suo più recente indirizzo interpretativo, di minor chiusura nei confronti delle Regioni[1]; viene perciò respinta l’ipotesi interpretativa avanzata dal Governo, secondo la quale la potestà regionale non potrebbe estendersi al di fuori della mera organizzazione del servizio sanitario.
In secondo luogo la Corte nega che i livelli essenziali delle prestazioni siano ricostruibili come “materia”. Si tratta piuttosto, come la dottrina unanime aveva già segnalato[2], di una competenza trasversale che può investire tutte le materie, al fine di fissare “le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle”. Anche questo “limite” viene dunque sottoposto ad un’interpretazione non espansiva, negando che per esso si possa estendere la riserva di legislazione dello Stato sino a comprendere nella considerazione dei “livelli” di prestazione anche la valutazione dell’appropriatezza e degli effetti della pratiche terapeutiche.
3. La Corte accoglie invece il ricorso dello Stato in relazione al terzo motivo di impugnazione, che si appella alla lesione dei “principi fondamentali” nella materia “tutela della salute”.
Infatti, scartata l’ipotesi che l’oggetto della legge impugnata possa essere attratto nelle “materie” di competenza esclusiva dello Stato – e scartata anzi ancor prima l’idea che di “materia” si possa parlare in relazione alla funzione indicata nella lettera m) dell’art. 117.2 – resta acquisito che gli interventi normativi rivolti a disciplinare le pratiche terapeutiche ricadono nella materia “tutela della salute”, sulla quale la legge della Regione “concorre” con i principi fissati dalla legislazione statale.
Importante, anche se in qualche modo scontata per ragioni di buon senso[3], è l’affermazione della Corte circa il rapporto tra la legislazione regionale del “dopo riforma” e la legislazione statale precedente: “(s)pecie nella fase della transizione dal vecchio al nuovo sistema di riparto delle competenze, la legislazione regionale concorrente dovrà svolgersi nel rispetto dei principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore”. Mentre non viene degnata neppure di un accenno l’ipotesi, per vero un po’ avventata, che l’assenza di specifiche leggi cornice possa tradursi in un blocco transitorio della legislazione regionale[4]. Tuttavia non sembra affatto scontato che il principio di continuità dell’ordinamento - che consente, per così dire, l’ultrattività dei principi fondamentali - comporti che restino ferme anche le stesse tecniche di accreditamento dei principi che valevano prima della riforma costituzionale. Il caso in questione mostra qualche significativo elemento di novità. La Corte costituzionale infatti, in questa sentenza, argomenta la sussistenza del “principio fondamentale” in materia di disciplina delle terapie mediche non con riferimento alle specifiche norme poste dalla legislazione dello Stato, bensì dalla loro assenza. Il punto merita attenzione.
Nell’ordinamento giuridico non si trovano norme legislative rivolte a disciplinare l’ammissibilità delle specifiche pratiche terapeutiche in esame. Più esattamente, la legislazione vigente prima della riforma costituzionale prevedeva una riserva allo Stato della normazione di indirizzo e di istruzione tecnica in materia di prevenzione, diagnosi e cura delle malattie. Ma la Corte non intende accedere alla teoria della Versteinerung delle “materie”, cioè della “pietrificazione” del loro significato alla luce di quello che esse significavano al momento dell’entrata in vigore della riforma[5], né intende discutere della possibilità che i limiti della competenza regionale concorrente possano essere individuati in atti che non hanno lo statuto di “princìpi” e il rango di “legge”, come sarebbero gli indirizzi, le istruzioni, i manuali ecc. previsti dalla legislazione vigente. L’argomentazione si svolge sul piano della sola legislazione dello Stato, sulla cui base la Corte ritiene di poter accreditare “in negativo” un principio che consiste nel divieto per il legislatore di stabilire quali siano le pratiche mediche appropriate: “la regola di fondo in questa materia è costituita dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione”. L’autonomia professionale del medico e, sull’altro versante, i diritti fondamentali del malato, di essere curato efficacemente e di non subire pratiche terapeutiche senza il proprio consenso, costituiscono i due principi portanti, che si incrociano in una zona che confina con lo stesso sistema costituzionale.
Come si ricava dall’argomentazione della Corte, infatti, i principi “della materia” non trovano la loro radice nella legislazione statale, ma nella stessa Costituzione. Essi perciò, a ben vedere, non costituiscono un limite specifico alla legge impugnata in quanto, appunto, legge regionale, ma in quanto legge ordinaria: il che significa che essi sono visti come un limite per qualsiasi intervento legislativo, regionale o statale che sia. Al legislatore ordinario è comunque precluso di disciplinare le pratiche terapeutiche con interventi dettati da “pura discrezionalità politica”, privi cioè del necessario fondamento istruttorio di carattere tecnico-scientifico. È contro questo principio, di rango costituzionale, che incautamente si scontra la legge marchigiana. Essa viene dichiarata illegittima, dunque, non perché fuoriesce dalle competenze regionali, ma perché fuoriesce dall’àmbito consentito alle scelte del legislatore “politico”, ingerendosi in valutazioni che sono riservate alla scienza medica.
4. Finalmente dunque – verrebbe da dire – una legge regionale viene presa sul serio, cioè trattata come una “vera” fonte primaria, in diretto contatto con la Costituzione, e non come un atto “sotto tutela”, il cui rapporto con la costituzione debba essere sempre e comunque mediato dall’interposizione della legislazione statale. Se così fosse, sarebbe certo un segnale assai positivo di discontinuità con la giurisprudenza costituzionale precedente alla riforma. Un segnale che doppierebbe un’altra affermazione “programmatica” molto importante, contenuta nella motivazione della sentenza, all’esordio della parte “in diritto”: “(l)a risposta al quesito, se la legge impugnata rispetti i limiti della competenza regionale, ovvero ecceda dai medesimi, deve oggi muovere - nel quadro del nuovo sistema di riparto della potestà legislativa risultante dalla riforma del Titolo V, parte II, della Costituzione realizzata con la legge costituzionale n. 3 del 2001 - non tanto dalla ricerca di uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento regionale, quanto, al contrario, dalla indagine sulla esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza statale. Questa affermazione, collocata all’inizio di una sentenza che inaugura la giurisprudenza sui limiti della legislazione regionale nel nuovo confuso assetto costituzionale, acquista un valore programmatico che non può essere sottovalutato o trattato come un semplice obiter dictum. Prelude ad una sorta di inversione dell’onere della prova che, in qualche modo, rispecchia sul piano del giudizio quello che, sul piano delle competenze, è l’inversione del criterio di enumerazione delle competenze. Sarà lo Stato, e non la Regione, a dover dimostrare la sua competenza, o affermando che l’oggetto in questione è sottratto alla regola residuale della competenza generale delle Regioni, per ricadere invece tra quelle “esclusive” elencate nell’art. 117.2 Cost., o dimostrando che la questione ricade nelle materie “concorrenti”, e che inoltre sussiste un principio specifico della legislazione statale capace di limitare l’autonomia regionale.
È indubbiamente un’affermazione di grande significato per il futuro dell’autonomia legislativa regionale, anche se è contenuta in una sentenza che condanna una legge regionale, per altro indifendibile. Forse però non basta questa rondine a far primavera.
[1] Su cui cfr. E.LAMARQUE, Osservazioni preliminari sulla materia “ordinamento civile”, di esclusiva competenza statale, in questa Rivista 2001, 1343 ss.
[2] Cfr. per tutti G.FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in questa Rivista, 2001, 1247 ss., 1252 s.; A.RUGGERI, La riforma costituzionale del Titolo V e i problemi della sua attuazione, con specifico riguardo alle dinamiche della normazione ed al piano dei controlli, in Quaderni regionali 2001, 565 ss., 593 (Relazione al Seminario dell’A.I.C. Il nuovo Titolo V della parte II della Costituzione, Bologna 14 gennaio 2002); S. MANGIAMELI, La riforma del regionalismo italiano, Torino 2002, 135.
[3] Sebbene non dalla dottrina: vedi, per la tesi opposta, L. ELIA, Introduzione, 14 e M. OLIVETTI, Le funzioni legislative regionali, 95 in Regioni ed enti locali nel nuovo titolo V, Torino, 2001; S.MANGIAMELI¸ op.cit., 139 s.
[4] E’ la tesi “scelbiana” accennata, ma per vero in termini dubitativi, da A. Baldassarre nell’audizione davanti alla Commissione affari istituzionali del Senato il 24 ottobre 2001, e ripresa, ma con solo riferimento alle materie “nuove” di competenza regionale da L. ANTONINI, Sono ancora legittime le normative statali cedevoli?, in http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/dibattiti/riforma/antonini.html
[5] Cfr. S. MANGIAMELI, op.cit., 122-125. La Corte infatti esamina i princìpi derivabili dalle norme vigenti “indipendentemente dall’attualità del riparto di funzioni che esse realizzavano nel quadro dell’assetto costituzionale dei rapporti fra Stato e Regioni precedente alla legge costituzionale n. 3 del 2001”.