SENTENZA
N.306
ANNO
2002
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare RUPERTO Presidente
- Riccardo CHIEPPA Giudice
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di
attribuzione sorto a seguito della deliberazione legislativa statutaria del
Consiglio regionale della Regione Marche adottata, in seconda votazione, il 25
settembre 2001 e recante "Consiglio regionale - Parlamento delle Marche",
promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 2
novembre 2001, depositato in cancelleria il 12 successivo ed iscritto al n. 37
del registro conflitti 2001.
Visto l’atto di costituzione della Regione Marche;
udito nell’udienza pubblica del 7 maggio 2002 il
Giudice relatore Carlo Mezzanotte;
uditi l’avvocato dello Stato Ignazio F. Caramazza
per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Stefano Grassi per la
Regione Marche.
Ritenuto
in fatto
1. — Il Presidente del Consiglio dei
ministri ha proposto ricorso, denominato conflitto di attribuzione, in
riferimento agli articoli 1, 5, 55, 114, 115 (articolo abrogato dall’art. 9,
comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), 121 e 123 della
Costituzione, avverso la deliberazione legislativa statutaria del Consiglio
regionale della Regione Marche adottata, in seconda votazione, il 25 settembre
2001 e recante "Consiglio regionale - Parlamento delle Marche", nella
quale si dispone che in tutti gli atti ufficiali della Regione alla dizione
"Consiglio regionale" venga affiancata quella di "Parlamento
delle Marche" e alla dizione "Consigliere regionale" quella di
"Deputato delle Marche".
L’Avvocatura dello Stato contesta in
primo luogo la possibilità di impiegare il procedimento previsto dall’art. 123
della Costituzione per apportare modifiche parziali allo statuto regionale
approvato con legge statale. L’art. 123 della Costituzione, si argomenta,
attribuisce al legislatore regionale la potestà di approvare e modificare lo
statuto, e da ciò dovrebbe desumersi che sia bensì consentito approvare un
nuovo statuto organico, salva successiva sua modifica, ma non emendare lo
statuto vigente e dare vita, con ciò, ad un testo statutario "misto".
Nel merito, il ricorrente lamenta
che il cambiamento di denominazione dell’organo rappresentativo regionale, sia
pure solo in via aggiuntiva, lederebbe attribuzioni statali costituzionalmente
garantite. La denominazione "Parlamento", secondo l’Avvocatura,
assumerebbe particolare pregnanza nell’ordinamento costituzionale italiano, nel
quale la posizione eminente dell’organo rappresentativo del popolo
rifletterebbe la sovranità popolare che esso rappresenta ed esprime. La
locuzione "Consiglio regionale", con la quale la Costituzione designa
l’organo rappresentativo della Regione e che é stata di recente ribadita dalla
legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 (Disposizioni concernenti
l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia
statutaria delle Regioni), individuerebbe, al contrario, la titolarità di
poteri di autonomia, che, per quanto si vogliano dilatare, non possono mai
assurgere alle dimensioni della sovranità. Secondo la difesa del Presidente del
Consiglio dei ministri la delibera impugnata, intitolando l’organo
rappresentativo regionale con lo stesso appellativo spettante alle Camere ed
attribuendo ai suoi membri la qualifica di "deputato", si
arrogherebbe, in definitiva, la titolarità di un potere sovrano che spetta
soltanto alla Repubblica, una e indivisibile.
2. — Si é costituito, per la Regione
Marche, il Presidente della Giunta regionale e ha chiesto che il ricorso
statale venga rigettato.
In via preliminare la difesa della
Regione nega che l’art. 123 ammetta solo la approvazione di un testo statutario
organico, sul rilievo che ciò significherebbe svalutare l’autonomia statutaria
regionale, la quale, così come potrebbe essere esplicata in pieno con
l’approvazione di uno statuto interamente nuovo, allo stesso modo potrebbe
essere esercitata anche per approvare norme che lo emendino solo parzialmente.
Nel merito della censura principale,
la Regione Marche osserva come le addizioni lessicali introdotte dalla
deliberazione statutaria oggetto di conflitto intendano esprimere con
immediatezza il rapporto che intercorre tra le assemblee elettive regionali ed
il corpo elettorale. Le Regioni, infatti, sarebbero espressione di comunità
intermedie nelle quali si sviluppa la personalità dell’uomo e concorrerebbero alla
crescita del pluralismo sociale, nella cornice di una Repubblica che é una e
indivisibile, "ma che é tale in quanto risultato, e non mero presupposto,
del pluralismo istituzionale e delle istanze di autonomia che ne caratterizzano
il tessuto democratico". L’intuizione dei Costituenti, secondo la quale la
democraticità del sistema dipenderebbe dalla capacità di promuovere e
sviluppare forti autonomie locali, avrebbe trovato una attuazione coerente
nelle recenti riforme costituzionali improntate ad un potenziamento delle
autonomie regionali. In particolare, per effetto delle leggi costituzionali n.
1 del 1999 e n. 3 del 2001, il ruolo del Consiglio regionale sarebbe stato
fortemente accresciuto, così da giustificare la innovazione statutaria che
intende designarlo con il nomen di Parlamento.
Del resto, continua la Regione,
l’addizione lessicale di cui é questione é stata introdotta con una
deliberazione legislativa statutaria che trova fondamento nell’art. 123, primo
comma, della Costituzione, là dove si conferisce alla Regione la potestà di
determinare, "in armonia con la Costituzione", la propria forma di
governo ed i principî fondamentali di organizzazione e funzionamento. E poichè
l’armonia con gli statuti dovrebbe sussistere rispetto ai principî costituzionali,
così da lasciare spazio ad un’autonoma capacità di interpretazione degli stessi
da parte della Regione, la scelta di affiancare il termine Parlamento a quello
di Consiglio regionale sarebbe perfettamente legittima, perchè essa non
metterebbe in discussione il sistema organizzativo definito dalla Costituzione,
ma semmai ne svilupperebbe i principî ispiratori. Verrebbe in rilievo,
segnatamente, il principio di unità, il quale, secondo la difesa regionale, non
dovrebbe essere inteso in senso statalistico come "esigenza di necessaria
coerenza dell’ordinamento giuridico o come individuazione di un’unica sede in
cui fissare la volontà generale, rispetto alla quale gli altri organi pubblici
abbiano un mero compito di specificazione". Al contrario l’unità e
indivisibilità della Repubblica non imporrebbero l’uniformità, ma sarebbero
dirette a limitare le degenerazioni del pluralismo e ad evitare che esso
trasmodi in separatismo e secessionismo. L’unità andrebbe infatti ricomposta
intorno agli obiettivi posti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione: garantire
la dignità e il pieno sviluppo della persona umana e realizzare il principio di
eguaglianza sostanziale, rimuovendo gli ostacoli che a tale sviluppo si
oppongono. Le denominazioni di Parlamento delle Marche e Deputato delle Marche
sarebbero, insomma, pienamente legittime, in quanto designerebbero, nel
pluralismo delle articolazioni democratiche dell’ordinamento, un soggetto in
grado di perseguire i fini unitari e di solidarietà additati dalla Costituzione
e rappresenterebbero al contempo l’espressione di un concetto di autonomia più
moderno, che non si risolve in un insieme di relazioni funzionali ed organiche,
ma che esprime, in positivo, il modo di organizzarsi sul territorio della
comunità che é rappresentata dal Consiglio regionale. Nel quadro così
delineato, il Consiglio regionale rappresenterebbe il momento di
autodeterminazione della collettività nell’esercizio dei poteri pubblici e
dunque potrebbe legittimamente fregiarsi dell’appellativo di Parlamento.
3. — In prossimità dell’udienza la
Regione Marche ha depositato una memoria illustrativa nella quale, preso atto
della sentenza di questa Corte n. 106 del 2002, con cui é stato vietato al Consiglio
regionale della Regione Liguria l’uso della denominazione
"Parlamento", espone alcune eccezioni di inammissibilità del ricorso
statale. Si osserva al riguardo che il Governo ha proposto ricorso in sede di
conflitto di attribuzione, mentre l’art. 123 della Costituzione prevede quale
forma di controllo dello statuto il promovimento di una questione di
legittimità costituzionale. Inoltre, secondo la difesa della Regione Marche,
l’art. 123, terzo comma, Cost. prevederebbe che il controllo di
costituzionalità sulla legge statutaria avrebbe carattere successivo, in
perfetta coerenza e simmetria con quanto dispone l’art. 127 Cost., con riguardo
alle leggi regionali. Da ciò discenderebbe una ulteriore ragione di
inammissibilità del ricorso governativo, poichè la legge oggetto del giudizio
non é stata ancora promulgata e dunque l’iter formativo non si é ancora
perfezionato.
Ad avviso della Regione Marche non
sarebbe decisivo il rilievo che ad un intervento della Corte successivo al
pronunciamento popolare si opporrebbero gravi ragioni di opportunità. Dovrebbe
infatti considerarsi, da un lato, che il referendum é solo eventuale e
che si sono già date ipotesi di giudizi della Corte su norme che avevano
costituito oggetto di consultazione popolare referendaria; dall’altro, e
soprattutto, che, in un sistema di giustizia costituzionale nel quale la Corte
interviene post eventum, la collocazione infraprocedimentale del
controllo, specie dopo l’abolizione del controllo preventivo sulle leggi regionali,
rappresenta una deroga, che dovrebbe essere esplicitamente prevista e non
dedotta dalla collocazione topografica delle disposizioni costituzionali.
Con riferimento al secondo motivo di
ricorso, con il quale la difesa erariale assume che l’attribuzione al Consiglio
regionale del nomen Parlamento integri una lesione del principio di
sovranità popolare, la Regione riporta alcuni passi della sentenza n. 106 del 2002 dai quali risulterebbe inequivocabilmente
come la sovranità nazionale non abbia la propria sede esclusiva nel Parlamento
nazionale. La difesa della Regione soggiunge che l’art. 123 Cost. attribuisce
alla potestà statutaria regionale la competenza a disciplinare la forma di governo
e ritiene che in tale competenza dovrebbe considerarsi incluso il momento della
individuazione e definizione degli organi regionali, ciò che implicherebbe la
possibilità di attribuire a quelli previsti dalla Costituzione dizioni
lessicali integrative rispetto agli attuali nomina iuris.
In quanto adottata nell’esercizio
della potestà di determinazione della propria forma di governo, la
deliberazione impugnata, argomenta ulteriormente la Regione, dovrebbe essere
scrutinata in relazione al limite della armonia con la Costituzione e tale
limite dovrebbe essere riferito alle scelte di fondo che ispirano la Carta, non
anche all’osservanza puramente formale delle singole disposizioni
costituzionali o alla mera corrispondenza terminologica tra testo costituzionale
e statuto. In questa prospettiva, la delibera oggetto di conflitto, che
adeguerebbe il nomen iuris dell’organo al suo ruolo istituzionale, non
sarebbe orientata contro la Costituzione e quindi risulterebbe in armonia con
essa.
L’atto oggetto del conflitto non
sarebbe neppure lesivo del principio di rappresentanza politica posto dall’art.
67 della Costituzione, poichè valorizzerebbe la funzione di rappresentanza
propria del Consiglio e dunque legittimamente impieghe-rebbe il termine
Parlamento, per la parte in cui esso si riferisce alla sede esclusiva della
rappresentanza politica, non solo nazionale, ma anche territoriale. L’art. 11
della legge costituzionale n. 3 del 2001 (Modifiche al titolo V della parte
seconda della Costituzione), il quale stabilisce che "sino alla revisione
delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione, i regolamenti
della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono prevedere la
partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli
enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali",
secondo la Regione, dovrebbe rendere chiaro che nella nozione
"vivente" di Parlamento, quale risultante dalla rilettura del
principio della rappresentanza politica alla luce della riforma del Titolo V
della Parte II , l’istanza di rappresentanza nazionale convive con quella della
rappresentanza territoriale. La deliberazione impugnata sarebbe perciò
perfettamente legittima, in quanto affiderebbe proprio al profilo autonomistico
della rappresentanza politica che é insito nella nozione di Parlamento il
compito di colmare il divario tra il nomen dell’organo rappresentativo
regionale e la sua funzione politico-istituzionale.
Considerato
in diritto
1. ¾ Il Presidente del Consiglio dei ministri ha
proposto ricorso, denominato conflitto di attribuzione, in riferimento agli
articoli 1, 5, 55, 114, 115 (articolo abrogato dall’art. 9, comma 2, della
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), 121 e 123 della Costituzione,
avverso la deliberazione legislativa statutaria del Consiglio regionale della
Regione Marche adottata, in seconda votazione, il 25 settembre 2001 e recante
"Consiglio regionale - Parlamento delle Marche", nella quale si
dispone che, in tutti gli atti ufficiali della Regione alla dizione
"Consiglio regionale" venga affiancata quella di "Parlamento
delle Marche" e alla dizione "Consigliere regionale" quella di
"Deputato delle Marche".
2. ¾ La Regione ha eccepito preliminarmente la
inammissibilità della impugnazione statale, per essere questa formulata in
termini di "ricorso per conflitto di attribuzione", laddove l’art.
123, secondo comma, della Costituzione prevederebbe, quale mezzo di
impugnazione degli statuti regionali, il promovimento di una questione di legittimità
costituzionale.
L’eccezione non può essere accolta.
Giova premettere che questa Corte,
nell’esercizio della facoltà che le compete di interpretare la natura degli
atti introduttivi del giudizio, si é sempre attenuta a criteri contenutistici,
che sono prevalsi, nella sua giurisprudenza, sull’analisi puramente esteriore;
criteri che le hanno consentito di prescindere dalla autoqualificazione
dell’atto e l’hanno spinta a verificare se esso presenti i requisiti necessari
per un valido atto introduttivo, con riguardo sia alla individuazione
dell’oggetto, sia alla attitudine a garantire il pieno svolgimento del diritto
di difesa delle parti (sentenze n. 15 del 2002; n. 363 e n. 137 del 2001; n. 420, n. 321, n. 320, n. 82, n. 58, n. 56, n. 11 e n. 10 del 2000; ordinanze n. 264, n. 150 e n. 61 del 2000). Ebbene, l’intitolazione dell’atto introduttivo del
presente giudizio come ricorso per conflitto di attribuzione non osta ad uno
scrutinio di merito sulla legittimità costituzionale della deliberazione
statutaria adottata dalla Regione Marche, giacchè il ricorso, nonostante
evidenti imprecisioni nominalistiche, deve essere interpretato come diretto a
sollevare questione di legittimità costituzionale di una deliberazione
statutaria introdotta nelle forme del giudizio in via di azione. Quale sia la
funzione e la natura del ricorso risulta in maniera inequivoca dalle stesse
premesse dell’atto in questione, là dove l’Avvocatura dello Stato sottolinea
che quello presentato é "uno dei primi ricorsi proposti ai sensi dell’art.
123, comma secondo, periodo terzo, Cost., come sostituito dalla legge
costituzionale 22 novembre 1999, n. 1" e sente l’esigenza di avvertire che
in questa nuova "tipologia di controversie" deve trovare applicazione
"salvo il diverso termine a ricorrere, l’art. 31, comma secondo, della legge
11 marzo 1953, n. 87", e cioé proprio la disposizione che regola
l’impugnazione statale di leggi regionali.
Indicazioni diverse non si traggono
dalla deliberazione del Consiglio dei ministri che ha autorizzato la
proposizione del ricorso, la quale contiene la "determinazione di
impugnare dinanzi alla Corte costituzionale la legge della Regione
Marche recante Consiglio regionale-Parlamento delle Marche". Non se ne può
certo desumere che il Governo intendesse autorizzare la proposizione di un
conflitto di attribuzione anzichè di un giudizio in via principale su legge.
Ancor più eloquente, se possibile, é la relazione del dipartimento affari
regionali allegata al verbale della riunione del Consiglio dei ministri ed
espressamente da questo richiamata. In essa, in più punti, si identifica quale
oggetto della sollecitata impugnazione governativa la legge statutaria e così
si conclude: "nei confronti della legge in esame, pertanto, ai sensi
dell’art. 123 della Costituzione, così come modificato dalla novella
costituzionale n. 1 del 1999, viene promossa dal Governo la questione di
legittimità costituzionale entro trenta giorni dalla sua pubblicazione".
Così chiarito che l’atto
introduttivo va inteso come una impugnazione di legge statutaria ai sensi
dell’art. 123, secondo comma, Cost., non può indurre in equivoco l’erronea
autoqualificazione dell’atto, che non vale certo a trasformarlo in ciò che esso
oggettivamente non é. Non resta allora che verificare, ai fini della
ammissibilità del ricorso, se questo presenti i requisiti di legge per la
proposizione delle questioni di legittimità costituzionale in via diretta.
La domanda formulata a questa Corte
di dichiarare la lesività della deliberazione impugnata per violazione delle
norme costituzionali indicate e la non spettanza al Consiglio regionale del
potere di adottarla, con conseguente annullamento degli atti, al di là della
formulazione del petitum, si risolve oggettivamente nella proposizione
di una questione di legittimità costituzionale sulla deliberazione statutaria,
della quale ha tutti i requisiti di forma e di sostanza.
Ai sensi dell’art. 34 della legge 11
marzo 1953, n. 87, i ricorsi che promuovono le questioni di legittimità
costituzionale in via di azione (artt. 31, 32 e 33) devono contenere le stesse
indicazioni prescritte dall’art. 23 della medesima legge per le ordinanze di
rimessione, ovvero: le disposizioni della legge o dell’atto avente forza di
legge dello Stato o di una Regione, viziate da illegittimità costituzionale, e
le disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali che si assumono
violate. Nessuno di tali requisiti difetta nel ricorso oggi all’esame della
Corte. È innanzitutto chiara la identificazione dell’atto che si assume viziato
da illegittimità costituzionale, atto del quale espressamente si chiede, come
generalmente accade in un ricorso in via di azione, l’annullamento. Sono
inoltre precisati i parametri costituzionali che si assumono lesi. Si é
pertanto in presenza di un ricorso governativo contro una legge statutaria.
Va soggiunto che il ricorso é stato
proposto e depositato presso la cancelleria della Corte non nei più ampi
termini previsti dagli artt. 39 e 41 della legge n. 87 per i conflitti di
attribuzione fra Stato e Regioni, ma in quelli stabiliti dall’art. 123, secondo
comma, della Costituzione per il promovimento della questione di legittimità
costituzionale sullo statuto regionale (30 giorni dalla pubblicazione) e
dall’art. 33, ultimo comma, della legge n. 87 del 1953 per il deposito del
ricorso nel giudizio di legittimità costituzionale in via diretta (10 giorni
dall’ultima notificazione).
3. ¾ Pure da respingere é la seconda eccezione di
inammissibilità sollevata dalla Regione e fondata sull’argomento che, ai sensi
dell’art. 123, secondo comma, della Costituzione, l’impugnazione governativa
della legge statutaria non possa essere proposta prima che questa sia stata
promulgata e pubblicata. Questa Corte ha avuto modo di chiarire che il termine
per promuovere il controllo di legittimità costituzionale sugli statuti
regionali "decorre dalla pubblicazione notiziale della delibera statutaria
e non da quella, successiva alla promulgazione, che é condizione per l’entrata
in vigore" (sentenza n. 304 del 2002). Anche sotto questo profilo il ricorso
governativo deve essere pertanto ritenuto ammissibile.
4. ¾ Nel merito, la questione é fondata.
Nella sentenza n. 106 del 2002 questa Corte ha già affermato il divieto,
imposto dalla Costituzione ai Consigli regionali, di fregiarsi del nome
Parlamento, ponendo in risalto come la peculiare forza connotativa della parola
impedisca "ogni sua declinazione intesa a circoscrivere in ambiti
territorialmente più ristretti quella funzione di rappresentanza nazionale che
solo il Parlamento può esprimere e che é ineluttabilmente evocata dall’impiego
del relativo nomen". Non varrebbe a superare la cogenza di tale
divieto, desumibile dagli articoli 55 e 121 della Costituzione, la constatazione
che la delibera oggi in esame, a differenza di quella che costituì oggetto di
scrutinio nella menzionata sentenza n. 106 del 2002, presenti la forma della legge statutaria. Anche
gli statuti regionali, infatti, ai sensi dell’articolo 123, primo comma, della
Costituzione, sono astretti dal limite della armonia con la Costituzione, che,
come questa Corte ha già chiarito (sentenza n. 304 del 2002), lungi dal consentire deroghe alla lettera
delle singole prescrizioni costituzionali, vincola le Regioni a rispettarne
anche lo spirito.
5. ¾ Ugualmente fondata é la questione che ha ad
oggetto la parte della delibera impugnata diretta ad affiancare alla dizione di
consigliere regionale quella di "Deputato delle Marche". In
quest’ambito non vi é vuoto di denominazioni costituzionali, sicchè possa
liberamente procedersi ad applicazioni analogiche. Con riferimento alle Regioni,
solo i membri dell’Assemblea siciliana sono identificati con il nome di
"deputati", ma ciò in forza della legge costituzionale 26 febbraio
1948, n. 2, che ha convertito in legge costituzionale le corrispondenti
disposizioni dello statuto approvato con regio decreto legislativo 15 maggio
1946, n. 455 (3, 5, 6, 7, 8-bis, 9, 11, 12 e 42). Si tratta,
all’evidenza, di disciplina del tutto eccezionale che si spiega per ragioni
storiche anche a causa dell’anteriorità dello statuto rispetto alla
Costituzione repubblicana e che non può essere invocata per ricavarne la
facoltà di utilizzare il nome deputato in sede regionale. Per tutte le Regioni,
infatti, il nomen consigliere, imposto dalla Costituzione (artt. 122,
primo e quarto comma) e dalle corrispondenti norme degli statuti speciali (fra
gli altri, artt. 24, 25, 28 e 43 della legge cost. n. 5 del 1948 - statuto
speciale per il Trentino-Alto Adige; artt. 24 e 25 legge cost. n. 4 del 1948 -
statuto speciale per la Valle d’Aosta; artt. 24 e 25 legge cost. n. 3 del 1948
- statuto speciale per la Sardegna; artt. 13, 14, 15, 16 e 17 legge cost. n. 1
del 1963 - statuto speciale per la Regione Friuli-Venezia Giulia) non é
modificabile nè integrabile con quello di deputato, al quale diverse
disposizioni della Costituzione (artt. 55, 56, 60, 65, 75, terzo comma, 85,
secondo comma, 86, secondo comma, 96 e 126) annettono carattere connotativo, al
punto da identificare per suo tramite una delle due Camere di cui il Parlamento
si compone. Da ciò il duplice divieto, per i Consigli regionali, di attribuire
a sè il nome di Parlamento e di identificare i propri membri con quello, che
possiede non minore forza evocativa, di "deputato".
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale della deliberazione
legislativa statutaria del Consiglio regionale della Regione Marche adottata,
in seconda votazione, il 25 settembre 2001 e recante "Consiglio regionale
- Parlamento delle Marche".
Così deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 2002.
Cesare RUPERTO, Presidente
Carlo MEZZANOTTE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 3
luglio 2002.