LEZIONE 5
Le novità introdotte dalla CECA
© Roberto Bin – Materiali di diritto dell’UE
L'istituzione della CECA (slide CECA1) segna una svolta. La Ceca si distingue perché introduce, accanto al principio di unanimità, che resta riservato per le decisioni più importanti, il principio di maggioranza per la maggior parte delle sue decisioni operative (slide CECA2). Ciò significa che le decisioni possono essere prese votando e imponendole alla volontà delle rappresentanze di uno degli stati membri, nessuno di essi potendo esercitare il diritto di veto. Si infrange così il principio tipico delle organizzazioni internazionali, strettamente interrelato con la loro nascita tramite accordo paritario e volontario tra stati posti tutti sul piano dell’eguaglianza formale. Quando nelle organizzazioni internazionali si introduce la regola del voto a maggioranza, si supera il principio di perfetta di uguaglianza degli stati e si pone immediatamente il problema di affrontare la difficile considerazione del loro peso specifico, ossia di “ponderare” il voto in relazione alla grandezza, alla importanza dello Stato stesso. Infatti, la regola di maggioranza non può fondarsi sul computo dei voti singolarmente espressi dagli stati membri – secondo il principio “un voto a testa” – perché se a tutti gli stati fosse attribuito lo stesso numero di voti, non avremmo affatto superato la profonda disuguaglianza insita nel principio di unanimità. L’unanimità conferisce ad ogni stato il diritto di veto, e rende perciò difficile raggiungere le decisioni, perché esse richiedono lunghi e complessi compromessi; il principio di maggioranza semplice (uno stato, un voto) sblocca il meccanismo di decisione, ma rende particolarmente difficile la legittimazione delle decisioni stesse. È giustificato che una maggioranza di piccoli stati, che assieme rappresentano una frazione minoritaria dell’intera popolazione rappresentata nell’organizzazione, imponga la sua volontà su una minoranza di grandi stati, che rappresentano la maggior parte della popolazione? Come possono i grandi stati giustificare ai propri cittadini il fatto che ad essi venga imposta una decisione assunta da soggetti che rappresentano una minoranza delle popolazioni interessate?
Si deve notare che la
parità di “peso” e di “diritti” tra stati fortemente diversi è, in fondo, una
lesione dello stesso principio di eguaglianza: lo si nota subito se, invece i
guardare ai rapporti tra gli Stati, intesi come soggetti egualmente sovrani
protagonisti del diritti internazionale, si guarda ai soggetti – gli individui
– protagonisti dei singoli ordinamenti interni. Che pochi (cittadini di uno
Stato membro) contino quanto i molti (cittadini di un altro Stato) è una
patente violazione dell’eguaglianza. Ciò che può dirsi “eguale” nella
dimensione 1, risulta profondamente contrario ad eguaglianza man mano che ci si
avvicini al punto di vista della dimensione 2.
Questo
problema ha agitato tutti i sistemi in cui si è cercato di superare il
principio di unanimità dando luogo ad organi di tipo "federale". La
storia americana ne è un ottimo esempio: nel passaggio dalla confederazione alla federazione
americana - quindi dalla dimensione 1 alla dimensione 2 – il momento critico è
stato il problema di come gli Stati dovessero essere rappresentati negli organi
centrali. La costruzione del sistema federale, della costituzione americana
come Stato federale, è stata possibile solo perché gli Stati più popolosi hanno
accettato di essere rappresentati e “contati” nella stessa misura degli stati
più piccoli. È noto infatti nel senato americano, che è l'organo in cui sono
direttamente rappresentati gli stati membri, ogni Stato ha due rappresentanti,
quale sia la sua dimensione. Ma una soluzione di questo tipo, se rapportata
alla realtà europea, produrrebbe conseguenze davvero impossibili da accettare,
ossia che uno Stato dalle dimensioni della Germania, che conta circa 82 milioni
di abitanti, conti al momento delle decisioni quanto il Lussemburgo, che è quasi
200 volte più piccolo e contribuisce in proporzione al bilancio della Comunità.
Si tenga presente che accettare la pari rappresentanza di realtà completamente
diverse come dimensione demografica significa anche ledere lo stesso principio
di rappresentanza, che si fonda sull’eguaglianza di voto. Nessuno accetterebbe
un sistema in cui si consentisse ad una persona di votare tre, quattro o dieci
volte, mentre le altre persone votano una sola volta; ma proprio questo sarebbe
il risultato che si otterrebbe attribuendo lo stesso peso ad un paese che ha
pochi abitanti ed a un paese ne ha molti, sicché i pochi finirebbero col
contare quanto i molti. Nella costituzione americana lo sbilanciamento che si
realizza nel Senato viene equilibrato dalla Camera dei rappresentanti, i quali
sono eletti direttamente dai cittadini nel pieno rispetto del principio di
eguaglianza del voto: nelle istituzioni comunitarie invece l'Assemblea
parlamentare non ha - o almeno, non aveva in origine - il peso sufficiente nel
processo decisionale da equilibrare il computo dei voti nel vero organo
decisionale, che è il Consiglio dei ministri. Per cui nella comunità europea
diviene di fondamentale importanza equilibrare il voto attribuito agli stati
nel Consiglio dei ministri, rispettando la proporzione con la loro rispettive
dimensione demografica.
Risulta perciò evidente anche un secondo aspetto: uscire dalla regola classica dell’unanimità, che domina la dimensione 1, diviene necessario proprio per le stesse ragioni che inducono a imboccare la strada del voto ponderato. Il principio di unanimità, consegnando ad ogni stato, piccolo o grande che sia, il diritto di veto, crea condizioni di perfetta parità ed eguaglianza di diritti tra entità completamente diverse, che è pur sempre una chiara violazione dell’eguaglianza. L’interesse di un piccolo gruppo di cittadini che trova ascolto da parte del “loro” ministro è in grado di bloccare la volontà delle centinaia di milioni di europei che invece vorrebbero che la decisione in questione venga presa. La differenza è che la regola dell’unanimità fa pesare egualmente la volontà negativa (consente ad ognuno di bloccare la decisione), mentre la regola di maggioranza, con voto eguale e non ponderato, consente ad un certo numero di stati, magari i meno rappresentativi per dimensione (e per contribuzione al bilancio dell’ente!) di imporre la loro volontà positiva agli altri stati. I risultati dell’applicazione del voto di maggioranza non ponderato sarebbero perciò non meno ingiusti dei risultati dell’applicazione del principio di unanimità. La ponderazione del voto appare perciò una strada obbligata, che conduce a differenziare il “peso” degli stati membri negli organi collegiali.
Le innovazioni introdotte
dalla Ceca sono state possibili grazie al fatto che essa aveva obiettivi
limitati. Si trattava di coordinare la produzione e il commercio del carbone e
dell’acciaio, questioni che in larga parte interessavano bacini limitati. Il
ridotto impatto “politico” consentiva sperimentazioni coraggiose, che si
mostrarono interessanti. Oltretutto la comunità aveva iniziato ad operare con
soli 6 stati, anzi si potrebbe anche dire che in realtà erano solo quattro
stati, perché Belgio, Olanda e Lussemburgo avevano costituito già prima della
fine della guerra mondiale, un
meccanismo di integrazione economica e politica (il Benelux) che anticipava per
molti versi lo sviluppo comunitario.
Grazie al fatto di avere
obiettivi così delimitati, la Ceca ha potuto essere organizzata secondo una
prospettiva di integrazione piuttosto accentuata. Il dibattito politico attorno
alla costruzione di forti organizzazioni comunitarie era infatti percorso da
una forte contrapposizione tra coloro che ritenevano auspicabile un’integrazione
politica molto accentuata, secondo un modello “federalista” teso ad una
progressiva riduzione della sovranità degli stati nazionali, e coloro che
invece, proprio in nome del mantenimento della sovranità statale, ritenevano
che l’organizzazione europea dovesse rimanere al livello di una “zona di libero
scambio”, ossia di una debole organizzazione, corrispondente alla schema
classico dell’organizzazione internazionale, e tesa esclusivamente alla
regolazione di alcuni aspetti, per così dire, “tecnici” relativi all’apertura
delle frontiere, eliminazione delle dogane, facilitazione dei pagamenti ecc. La
Ceca non ha elevati ed ambiziosi progetti politici, ma è rivolta alla soluzione
di un problema circoscritto, sia pure centrale nella storia d’Europa: il
governo delle risorse concentrate nelle due aree – i bacini della Ruhr e della
Saar – grandi produttrici di carbone e di acciaio: queste aree erano al centro
di storiche tensioni tra Francia e Germania, concausa dei due conflitti
mondiali.
Era stato il ministro degli
esteri francese, Robert Schuman, in un suo famoso discorso,
ad individuare nel governo comune di questo settore il seme di una graduale costruzione
dell’unificazione politica dell’Europa. Accordi segreti tra Francia e Germania
avevano già dato la base di questo governo comune: ad essi si aggiunsero i
paesi del Benelux e l’Italia – quest’ultima più interessata a prendere parte al
progetto politico, in cui cercava una affermazione e un riconoscimento
internazionale, che agli aspetti tecnico-economici del progetto stesso. Il
Trattato firmato nel 1951, ed entrato in vigore l’anno seguente – dopo le
ratifiche dei singoli stati – aveva una durata di 50 anni, ed infatti nel 2002
la Ceca è cessata ed è stata “assorbita” dalla Comunità europea. Gli obiettivi
sono definiti dall’art. 2 del Trattato:
“La Comunità europea del
carbone e dell'acciaio ha la missione di contribuire, in armonia con l'economia
generale degli Stati membri e in virtù dell'instaurazione d'un mercato comune
alle condizioni definite all'articolo 4, all'espansione economica,
all'incremento dell'occupazione e al miglioramento del tenore di vita negli
Stati membri.
La Comunità deve attuare la costituzione progressiva di condizioni che assicurino per sé stesse la distribuzione più razionale della produzione al più alto livello di produttività, insieme tutelando la continuità dell'occupazione ed evitando di provocare, nelle economie degli Stati membri, turbamenti fondamentali e persistenti.”
Gli scopi sono di “basso
profilo”, nel senso che sono limitati a creare una zona di libero scambio e un
mercato comune per i prodotti in questione: abolizione dei dazi, costruzione di
una tariffa doganale comune verso l’esterno della Comunità, libera circolazione
delle merci, abolizione delle misure restrittive, eliminazione delle
discriminazioni tra produttori basate sulla nazionalità, divieto per gli stati
di falsare la concorrenza attraverso aiuti alle imprese; ed inoltre – aspetto davvero
molto rilevante – previsione che la Ceca non si finanzi attraverso i
trasferimenti finanziari da parte degli stati membri, ma attraverso il potere
di istituire prelievi fiscali sulla produzione di carbone e acciaio, un potere,
dunque, di prelievo fiscale diretto.
Insomma, una piccola
comunità, di soli sei stati, con solo quattro lingue diverse, piuttosto vicini
come sviluppo economico e situazione sociale, con notevoli affinità politiche, con
scopi molto limitati e finanziata con un prelievi diretto. Essa era organizzata
attraverso quattro istituzioni (slide):
1. L'Alta Autorità:
nominata d'accordo dai Governi degli Stati membri. Non è composta da “rappresentanti”
degli stati, perché i membri, pur designati dagli stati, sono nominati
collegialmente dai Governi e non rispondono del loro comportamento agli stati
di appartenenza.
L’Alta Autorità delibera a
maggioranza assoluta sul livello dei dazi, la fissazione dei prezzi, la
tipologia dei programmi di produzione, i salari, l'ampiezza dei prelievi
fiscali per finanziare gli interventi comuni, le limitazioni quantitative sulle
importazioni ecc.
2. Il Consiglio dei
ministri
- svolge
il compito “di mettere in armonia l'azione dell'Alta Autorità con quella dei
governi responsabili della politica economica generale dei loro paesi.” (art.
26 Tr Ceca)
- delibera
talvolta a maggioranza se gli Stati che producono di più sono d'accordo; in
casi specifici, talvolta all'unanimità. In altri casi ancora decide a
maggioranza assoluta, ma con voto ponderato (ogni Stato dispone di un
“pacchetto” di voti graduato sulla sua importanza)
- emana
in alcuni casi esprime un parere vincolante sulle deliberazioni dell'Alta
Autorità. Si noti che questo è lo strumento formale con cui il CM può imporre
la sua volontà sull’AA.