4. Il Parlamento legislatore (e vendicatore) in materia di giustizia costituzionale

(da R.. Bin, C. Bergonzini, La Corte Costituzionale in Parlamento)

 

 

Il Parlamento «diviso», dominato dalla logica della contrapposizione tra schieramenti, non mostra dunque di aver sviluppato un’attenzione maggiore per la giurisprudenza costituzionale di quanto emergesse dal comportamento del Parlamento «consociativo»[1]. Gli accenni alle sentenze della Corte sono in massima parte occasione per confronto polemico circa l’operato del Governo (o talvolta della magistratura): e spesso sono conditi da spunti polemici nei confronti della Corte stessa, le cui decisioni di accoglimento sono guardate con disappunto e preoccupazione per le conseguenze provocate.

Questa impressione è confermata dall’esame delle proposte di riforma della disciplina costituzionale del sindacato di legittimità sulle leggi. Anche su questo versante il Parlamento «diviso» opera in continuità con il passato. I parlamentari hanno infatti reagito spesso a sentenze della Corte particolarmente sgradite con iniziative legislative di riforma costituzionale degli art. 134 e 135 Cost. Un esempio significativo era occorso nel 1976, a seguito della sent. 226/1976 con cui la Corte aveva legittimato la sezione di controllo della Corte dei conti a sollevare la questione di legittimità degli atti con forza di legge sottoposti a registrazione. L’immediata reazione parlamentare si era concretizzata in tre proposte di revisione costituzionale di cui una rivolta a introdurre uno specifico divieto a sollevare questione incidentale in alcuni procedimenti[2]. Una reazione che era sembrata eccessiva, allora, ma che non è paragonabile con quanto è avvenuto nella XIII legislatura, quando i parlamentari hanno reagito con inconsueta durezza contro la sent. 361/1998, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di alcune norme del codice di procedura penale relativa alla disciplina della formazione della prova in dibattimento e, in specifico, dell’acquisizione probatoria di dichiarazioni rese in precedenza da imputati non presenti in dibattimento, che rifiutino di sottoporsi all’esame o si avvalgano della facoltà di non rispondere.

Una questione – come si vede – di elevata tecnicità giuridica, ma che ha suscitato vibranti proteste del «partito degli avvocati» che aveva già iniziato a far valere il suo peso in Parlamento. L’esito è stata la presentazione di numerose iniziative legislative che mal celavano, o non celavano affatto, intenti punitivi – ma dimostravano altresì la diffusa inconsapevolezza dei loro promotori rispetto alle logiche del sindacato di legittimità costituzionale, alla prassi e al ruolo esercitato dalla Corte in quarant’anni di attività.

Per fare alcuni esempi, si può iniziare dalla proposta di legge costituzionale presentata da deputati appartenenti ad un gruppo politico che di solito fa della moderazione il proprio emblema[3], ma la cui relazione esordisce denunciando che «il problema degli effetti del giudicato della Corte costituzionale ha ormai raggiunto, con il sempre più frequente ricorso alle sentenze cosiddette “interpretative di accoglimento e di rigetto” dimensioni che non è eccessivo definire degenerative». Quale il rimedio proposto? Che «nel pronunciarsi sulla incostituzionalità di una legge o di un atto avente forza di legge la Corte non può discostarsi dai termini e dai motivi dell'istanza con cui è stata sollevata la questione»; ed inoltre che «la Corte può dichiarare l'illegittimità o la legittimità costituzionale della disposizione sottoposta al vaglio solo nel suo insieme e non può procedere alla sua frammentazione in relazione a precetti desumibili in via interpretativa»[4]. Di tono non diverso le proposte avanzate da altre parti politiche: per esempio, per la sen. Scopelliti (Forza Italia)[5], se colpita da dichiarazione di illegittimità, «la norma cessa di avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione dalla quale non può derivare altro effetto giuridico», fermo restando che essa «non può avere l'effetto di introdurre nuove norme o disposizioni». Ma l’obiettivo è condiviso anche da deputati dell’altra sponda politica, tant’è che l’on. Soda, assieme ad altri deputati DS, presenta una proposta di legge costituzionale[6] dalle analoghe velleità, dato che si vuole porre rimedio all’usurpazione di poteri legislativi da parte della Corte costituzionale, la quale, «utilizzando il potere di controllo della legittimità delle leggi votate dal Parlamento, ha sostituito le proprie scelte di politica del diritto a quelle del legislatore»; ecco che la tipologia delle sentenze manipolative «non può più sottrarsi ad una severa e radicale critica: esse ormai eccedono l'ambito della giurisdizione costituzionale, attuando una funzione sostanzialmente legislativa». Ma come impedirlo? Non si trova di meglio che proporre di scrivere in Costituzione una norma che precisi che «le decisioni della Corte costituzionale sono di accoglimento, di rigetto e di inammissibilità. Le sentenze di accoglimento sono decisioni di mero accertamento della illegittimità».

Basterebbe? No, di certo. Le proposte parlamentari volte a sbarrare la strada alle sentenze «interpretative di accoglimento» non solo falliscono l’obiettivo, non essendo per nulla facile formulare una disposizione che vieti alla Corte di individuare la «norma» da colpire: ma se anche potessero avere successo rischierebbero – ragionando dal punto di vista dei promotori – di segnare un autogol. Infatti, se davvero si potesse costringere la Corte costituzionale a dichiarare l’illegittimità soltanto di intere leggi o di singole disposizioni legislative – «la Corte può dichiarare l’illegittimità o la legittimità costituzionale (sic!) della disposizione sottoposta al vaglio solo nel suo insieme e non può procedere alla sua frammentazione in relazione a precetti desumibili in via interpretativa» propone una riforma avanzata nella XIV legislatura da un gruppo di deputati dell’UDC[7] -  l’effetto sarebbe proprio quello di cancellare interi segmenti dell’ordinamento legislativo, senza poter delimitare l’effetto demolitorio a singoli specifici significati normativi derivabili dalla disposizione.

È la più chiara dimostrazione di quanto poco i parlamentari italiani conoscano della giurisprudenza costituzionale: le sentenze c.d. «manipolative» rappresentano proprio lo stratagemma che la Corte ha escogitato per rimediare alla scarsa attenzione che il legislatore presta alle sue decisioni; se il legislatore fosse reattivo e consapevole delle implicazioni del controllo di costituzionalità delle leggi, allora i «moniti» che tante volte la Corte ha rivolto al legislatore nelle sue sentenze non cadrebbero nel vuoto e la Corte potrebbe limitarsi a dichiarazioni di illegittimità «di principio», senza doversi preoccupare di assicurare ai giudici ordinari la produzione di una norma nuova, compatibile con la costituzione, e ricavabile in via di interpretazione della disposizione incostituzionale. Le sentenze manipolative sono la risposta di un giudice costituzionale costretto ad assicurare la supplenza nei confronti di un legislatore inerte, così inerte da non esser stato neppure capace di introdurre – come ha fatto invece il legislatore tedesco – strumenti decisori ulteriori rispetto a quelli previsti nella Costituzione del 1948, che consentano alla Corte di dichiarare la incompatibilità di una disposizione di legge senza che la sentenza produca conseguenze immediate, a cui sarà invece il legislatore a provvedere tempestivamente. Un’inerzia, dunque, che danneggia anzitutto il legislatore stesso.

Le proposte di riforma costituzionale sono invece espressione del malcelato fastidio che i parlamentari italiani nutrono per il ruolo e l’attività della Corte costituzionale. Esse hanno un intento essenzialmente punitivo: lo dimostrano del resto anche altri progetti di legge costituzionale presentati alle Camere. Che dire per esempio, limitando per il momento l’attenzione ancora alla XIII legislatura, delle proposta presentata da Cossiga (già citata) che prevedere di inserire in Costituzione una norma di questo tenore: «i giudici della Corte… possono essere revocati singolarmente per cattiva condotta e parimenti può essere revocata anche l'intera Corte, per grave violazione della Costituzione o grave eccesso di potere, con delibera adottata da ciascuna Camera a maggioranza di quattro quinti dei votanti e con la sanzione del Presidente della Repubblica»? E del divieto di nominare giudici della Corte «coloro che siano iscritti o siano stati iscritti a partiti politici»[8]? E della fantasiosa ipotesi avanzata dal presidente dei senatori della Lega per cui «contro le decisioni della Corte costituzionale è ammessa impugnazione presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, qualora dalle pronunce della Corte costituzionale possano discendere, anche implicitamente, violazioni dei diritti fondamentali del cittadino»[9]? Chi avrebbe avuto il coraggio di comunicare questa bella novità alla Corte di Strasburgo?[10]

Persino la proposta di introdurre la dissenting opinion è stata avanzata con palese intento punitivo. Così, nel progetto presentato dai deputati DS, l’introduzione di questa nuova regola è motivata dall’esigenza di eliminare il «consociativismo delle motivazioni» che consente di «sfuggire a qualsiasi responsabilità di motivazione», perché «l’inappellabilità delle singole sentenze della Corte costituzionale non può infatti significare separatezza, oscurità, stigmatizzazione del dissenso del corpo sociale». È fuori discussione che in un sistema costituzionale maturo è bene che le motivazioni delle sentenze costituzionali siano chiare e trasparenti, e indubbiamente l’introduzione delle dissenting e della concurring opinion favoriscono la redazione di motivazioni più lineari[11]. Ma un paese in cui i parlamentari (e i ministri) si mostrano incapaci di comprendere e accettare il ruolo della Corte costituzionale può considerarsi un paese maturo?

 



[1] Cfr. G. D’orazio, Prime osservazioni sull’esercizio della funzione legislativa «consequenziale» alle decisioni della Corte costituzionale, in Arch. Giur. 1967, pp. 92 ss.; F. Modugno, Corte costituzionale e potere legislativo, in Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, Bologna 1982, pp. 19 ss., 54 -97; G. Zagrebelsky, La  Corte  costituzionale e il legislatore, ivi, pp. 103 ss., 133-148; L. Pegoraro, La Corte e il Parlamento, Padova 1987, pp. 117 ss.; A. Ruggeri, Le attività «consequenziali» nei rapporti fra la Corte costituzionale e il legislatore, Milano 1988; N. Assini, Il seguito (legislativo) delle sentenze  della Corte costituzionale in Parlamento, in Scritti sulla Giustizia costituzionale in onore di V.Crisafulli, I,  Padova 1985, pp. 21 ss.

[2] La proposta era a firma di Branca e altri. Le altre due proposte di legge costituzionale erano una tesa a precisare il carattere «esecutivo» delle attività di controllo della Corte dei conti (a firma di Ferri e altri parlamentari socialisti), e l’altra (a firma di alcuni deputati comunisti) ad escludere la registrazione degli atti con forza di legge, soluzione poi accolta dalla legge (ordinaria) 400/1988 (art. 16).

[3] Mi riferisco alla proposta C- 6291, presentata da tre deputati dell’UDC (Lucchese, Peretti, Baccini).

[4] Più interessante è l’ultimo comma dell’art. 137 bis che si vorrebbe introdurre in Costituzione: esso affronta il problema della c.d. «copertura finanziaria» delle sentenze costituzionali, disponendo che «qualora la decisione della Corte comporti gravi conseguenze, dirette o indirette, per il bilancio dello Stato o delle regioni, la Corte, acquisito il parere obbligatorio ma non vincolante della Corte dei conti, decide se limitare nel tempo l'efficacia retroattiva della sentenza». Allo stesso problema vorrebbe porre rimedio la proposta S-2042, sottoscritta da diversi senatori (primo firmatario Lavagnini), che vorrebbe introdurre una nuova disposizione costituzionale di questo tenore: «Nei casi in cui la dichiarazione della Corte comporti nuove o maggiori spese, il Presidente della Repubblica può, su proposta del Ministro interessato e previa deliberazione del Consiglio dei ministri, prorogare l'efficacia della norma per un periodo non superiore a 365 giorni. Le Camere possono regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base della norma dichiarata illegittima». Una proposta forse non molto utile, ma sicuramente meno originale di quella presentata dall’ex Presidente della Repubblica Cossiga (S-1933): «La decisione della Corte che implichi conseguenze, dirette o indirette, per il bilancio dello Stato o delle Regioni, al di fuori di specifiche previsioni di essi, e che come tale sia certificata dal Presidente della Repubblica su richiesta del Governo della Repubblica o dei Consigli regionali, non ha effetto finanziario se non venga convalidata con legge dello Stato o della Regione». Sentenze convalidate per legge: interessante!

[5] S-3677.

[6] C-5371.

[7] C-653, primo firmatario Lucchese.

[8] C-5390, a firma di Cova, Pecorella e Gazzilli.

[9] S-3622, presentato dal sen. Gasparini.

[10] C-5416, primo firmatario Soda.

[11] In questo senso anche S-1996, a firma del sen. Passigli.