4. Il
Parlamento legislatore (e vendicatore) in materia di giustizia costituzionale
(da R.. Bin, C. Bergonzini, La Corte Costituzionale in Parlamento)
Il
Parlamento «diviso», dominato dalla logica della contrapposizione tra
schieramenti, non mostra dunque di aver sviluppato un’attenzione maggiore per
la giurisprudenza costituzionale di quanto emergesse dal comportamento del
Parlamento «consociativo».
Gli accenni alle sentenze della Corte sono in massima parte occasione per
confronto polemico circa l’operato del Governo (o talvolta della magistratura):
e spesso sono conditi da spunti polemici nei confronti della Corte stessa, le
cui decisioni di accoglimento sono guardate con disappunto e preoccupazione per
le conseguenze provocate.
Questa
impressione è confermata dall’esame delle proposte di riforma della disciplina
costituzionale del sindacato di legittimità sulle leggi. Anche su questo
versante il Parlamento «diviso» opera in continuità con il passato. I
parlamentari hanno infatti reagito spesso a sentenze della Corte
particolarmente sgradite con iniziative legislative di riforma costituzionale
degli art. 134 e 135 Cost. Un esempio significativo era occorso nel 1976, a seguito della sent.
226/1976 con cui la Corte aveva legittimato la sezione di
controllo della Corte dei conti a sollevare la questione di legittimità degli
atti con forza di legge sottoposti a registrazione. L’immediata reazione
parlamentare si era concretizzata in tre proposte di revisione costituzionale
di cui una rivolta a introdurre uno specifico divieto a sollevare questione
incidentale in alcuni procedimenti.
Una reazione che era sembrata eccessiva, allora, ma che non è paragonabile con
quanto è avvenuto nella XIII legislatura, quando i parlamentari hanno reagito
con inconsueta durezza contro la sent. 361/1998, con
cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di
alcune norme del codice di procedura penale relativa alla disciplina della
formazione della prova in dibattimento e, in specifico, dell’acquisizione
probatoria di dichiarazioni rese in precedenza da imputati non presenti in
dibattimento, che rifiutino di sottoporsi all’esame o si avvalgano della
facoltà di non rispondere.
Una
questione – come si vede – di elevata tecnicità
giuridica, ma che ha suscitato vibranti proteste del «partito degli avvocati»
che aveva già iniziato a far valere il suo peso in Parlamento. L’esito è stata
la presentazione di numerose iniziative legislative che mal celavano, o non
celavano affatto, intenti punitivi – ma dimostravano altresì la diffusa
inconsapevolezza dei loro promotori rispetto alle logiche del sindacato di
legittimità costituzionale, alla prassi e al ruolo esercitato dalla Corte in quarant’anni di attività.
Per fare
alcuni esempi, si può iniziare dalla proposta di legge costituzionale
presentata da deputati appartenenti ad un gruppo politico che di solito fa
della moderazione il proprio emblema,
ma la cui relazione esordisce denunciando che «il problema degli effetti del
giudicato della Corte costituzionale ha ormai raggiunto, con il sempre più
frequente ricorso alle sentenze cosiddette “interpretative di accoglimento e di
rigetto” dimensioni che non è eccessivo definire degenerative». Quale il
rimedio proposto? Che «nel pronunciarsi sulla incostituzionalità di una legge o
di un atto avente forza di legge la Corte non può discostarsi dai termini e dai
motivi dell'istanza con cui è stata sollevata la questione»; ed inoltre che «la Corte può dichiarare l'illegittimità o la
legittimità costituzionale della disposizione sottoposta al vaglio solo nel suo
insieme e non può procedere alla sua frammentazione in relazione a precetti
desumibili in via interpretativa».
Di tono non diverso le proposte avanzate da altre parti politiche: per esempio,
per la sen. Scopelliti (Forza Italia),
se colpita da dichiarazione di illegittimità, «la norma cessa di avere applicazione
dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione dalla quale non può
derivare altro effetto giuridico», fermo restando che essa «non può avere
l'effetto di introdurre nuove norme o disposizioni». Ma l’obiettivo è condiviso
anche da deputati dell’altra sponda politica, tant’è
che l’on. Soda, assieme ad altri deputati DS,
presenta una proposta di legge costituzionale
dalle analoghe velleità, dato che si vuole porre rimedio all’usurpazione di
poteri legislativi da parte della Corte costituzionale, la quale, «utilizzando
il potere di controllo della legittimità delle leggi votate dal Parlamento, ha
sostituito le proprie scelte di politica del diritto a quelle del legislatore»;
ecco che la tipologia delle sentenze manipolative «non può più sottrarsi ad una
severa e radicale critica: esse ormai eccedono l'ambito della giurisdizione
costituzionale, attuando una funzione sostanzialmente legislativa». Ma come
impedirlo? Non si trova di meglio che proporre di scrivere in Costituzione una
norma che precisi che «le decisioni della Corte costituzionale sono di
accoglimento, di rigetto e di inammissibilità. Le sentenze di accoglimento sono
decisioni di mero accertamento della illegittimità».
Basterebbe?
No, di certo. Le proposte parlamentari volte a sbarrare la strada alle sentenze
«interpretative di accoglimento» non solo falliscono l’obiettivo, non essendo
per nulla facile formulare una disposizione che vieti alla Corte di individuare
la «norma» da colpire: ma se anche potessero avere successo rischierebbero –
ragionando dal punto di vista dei promotori – di segnare un autogol. Infatti,
se davvero si potesse costringere la Corte costituzionale a dichiarare
l’illegittimità soltanto di intere leggi o di singole disposizioni legislative
– «la Corte può dichiarare l’illegittimità o la legittimità
costituzionale (sic!) della disposizione sottoposta al vaglio solo nel suo
insieme e non può procedere alla sua frammentazione in relazione a precetti
desumibili in via interpretativa» propone una riforma avanzata nella XIV legislatura
da un gruppo di deputati dell’UDC
- l’effetto sarebbe proprio quello di
cancellare interi segmenti dell’ordinamento legislativo, senza poter delimitare
l’effetto demolitorio a singoli specifici significati
normativi derivabili dalla disposizione.
È la più
chiara dimostrazione di quanto poco i parlamentari italiani conoscano della
giurisprudenza costituzionale: le sentenze c.d. «manipolative» rappresentano
proprio lo stratagemma che la Corte ha escogitato per rimediare alla scarsa
attenzione che il legislatore presta alle sue decisioni; se il legislatore
fosse reattivo e consapevole delle implicazioni del controllo di
costituzionalità delle leggi, allora i «moniti» che tante volte la Corte ha rivolto al legislatore nelle sue
sentenze non cadrebbero nel vuoto e la Corte potrebbe limitarsi a dichiarazioni di
illegittimità «di principio», senza doversi preoccupare di assicurare ai
giudici ordinari la produzione di una norma nuova, compatibile con la
costituzione, e ricavabile in via di interpretazione della disposizione
incostituzionale. Le sentenze manipolative sono la risposta di un giudice
costituzionale costretto ad assicurare la supplenza nei confronti di un
legislatore inerte, così inerte da non esser stato neppure capace di introdurre
– come ha fatto invece il legislatore tedesco – strumenti decisori ulteriori
rispetto a quelli previsti nella Costituzione del 1948, che consentano alla
Corte di dichiarare la incompatibilità di una disposizione di legge senza che
la sentenza produca conseguenze immediate, a cui sarà invece il legislatore a
provvedere tempestivamente. Un’inerzia, dunque, che danneggia anzitutto il
legislatore stesso.
Le
proposte di riforma costituzionale sono invece espressione del malcelato
fastidio che i parlamentari italiani nutrono per il ruolo e l’attività della
Corte costituzionale. Esse hanno un intento essenzialmente punitivo: lo
dimostrano del resto anche altri progetti di legge costituzionale presentati
alle Camere. Che dire per esempio, limitando per il momento l’attenzione ancora
alla XIII legislatura, delle proposta presentata da Cossiga
(già citata) che prevedere di inserire in Costituzione una norma di questo
tenore: «i giudici della Corte… possono essere revocati singolarmente per
cattiva condotta e parimenti può essere revocata anche l'intera Corte, per
grave violazione della Costituzione o grave eccesso di potere, con delibera
adottata da ciascuna Camera a maggioranza di quattro quinti dei votanti e con
la sanzione del Presidente della Repubblica»? E del divieto di nominare giudici
della Corte «coloro che siano iscritti o siano stati iscritti a partiti
politici»?
E della fantasiosa ipotesi avanzata dal presidente dei senatori della Lega per
cui «contro le decisioni della Corte costituzionale è ammessa impugnazione
presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, qualora dalle pronunce
della Corte costituzionale possano discendere, anche implicitamente, violazioni
dei diritti fondamentali del cittadino»?
Chi avrebbe avuto il coraggio di comunicare questa bella novità alla Corte di
Strasburgo?
Persino
la proposta di introdurre la dissenting opinion è stata avanzata con palese intento punitivo. Così,
nel progetto presentato dai deputati DS, l’introduzione di questa nuova regola
è motivata dall’esigenza di eliminare il «consociativismo
delle motivazioni» che consente di «sfuggire a qualsiasi responsabilità di
motivazione», perché «l’inappellabilità delle singole sentenze della Corte
costituzionale non può infatti significare separatezza,
oscurità, stigmatizzazione del dissenso del corpo
sociale». È fuori discussione che in un sistema costituzionale maturo è bene
che le motivazioni delle sentenze costituzionali siano chiare e trasparenti, e
indubbiamente l’introduzione delle dissenting
e della concurring opinion favoriscono la redazione di motivazioni più lineari.
Ma un paese in cui i parlamentari (e i ministri) si mostrano incapaci di
comprendere e accettare il ruolo della Corte costituzionale può considerarsi un
paese maturo?
Cfr. G. D’orazio,
Prime osservazioni sull’esercizio della funzione
legislativa «consequenziale» alle decisioni della Corte costituzionale,
in Arch. Giur. 1967, pp. 92 ss.; F. Modugno, Corte
costituzionale e potere legislativo, in Corte
costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, Bologna
1982, pp. 19 ss., 54 -97; G. Zagrebelsky, La Corte costituzionale e il legislatore,
ivi, pp. 103 ss., 133-148; L.
Pegoraro,
La Corte e il Parlamento, Padova 1987, pp. 117 ss.;
A. Ruggeri, Le attività «consequenziali»
nei rapporti fra la Corte
costituzionale e il legislatore, Milano 1988; N. Assini, Il seguito
(legislativo) delle sentenze della Corte
costituzionale in Parlamento, in Scritti sulla Giustizia
costituzionale in onore di V.Crisafulli,
I, Padova 1985, pp. 21 ss.
La proposta era a firma di Branca e altri. Le altre due proposte di legge
costituzionale erano una tesa a precisare il carattere «esecutivo» delle
attività di controllo della Corte dei conti (a firma di Ferri e altri
parlamentari socialisti), e l’altra (a firma di alcuni deputati comunisti) ad
escludere la registrazione degli atti con forza di legge, soluzione poi accolta
dalla legge (ordinaria) 400/1988 (art. 16).
Mi riferisco alla proposta C- 6291,
presentata da tre deputati dell’UDC (Lucchese, Peretti, Baccini).
Più interessante è l’ultimo comma dell’art. 137 bis che si vorrebbe introdurre
in Costituzione: esso affronta il problema della c.d. «copertura finanziaria»
delle sentenze costituzionali, disponendo che «qualora la decisione della Corte
comporti gravi conseguenze, dirette o indirette, per il bilancio dello Stato o
delle regioni, la Corte,
acquisito il parere obbligatorio ma non vincolante della Corte dei conti,
decide se limitare nel tempo l'efficacia retroattiva della sentenza». Allo
stesso problema vorrebbe porre rimedio la proposta S-2042, sottoscritta da
diversi senatori (primo firmatario Lavagnini), che
vorrebbe introdurre una nuova disposizione costituzionale di questo tenore: «Nei
casi in cui la dichiarazione della Corte comporti nuove o maggiori spese, il
Presidente della Repubblica può, su proposta del Ministro interessato e previa
deliberazione del Consiglio dei ministri, prorogare l'efficacia della norma per
un periodo non superiore a 365 giorni. Le Camere possono regolare con legge i
rapporti giuridici sorti sulla base della norma dichiarata illegittima». Una
proposta forse non molto utile, ma sicuramente meno originale di quella
presentata dall’ex Presidente della Repubblica Cossiga
(S-1933): «La decisione della Corte che implichi conseguenze, dirette o
indirette, per il bilancio dello Stato o delle Regioni, al di fuori di
specifiche previsioni di essi, e che come tale sia certificata dal Presidente
della Repubblica su richiesta del Governo della Repubblica o dei Consigli
regionali, non ha effetto finanziario se non venga convalidata con legge dello
Stato o della Regione». Sentenze convalidate per legge: interessante!
C-653, primo firmatario Lucchese.
C-5390, a firma
di Cova, Pecorella e Gazzilli.
S-3622, presentato dal sen. Gasparini.
C-5416, primo firmatario Soda.
In questo senso anche S-1996, a
firma del sen. Passigli.