Sent. 422/1995 – eguaglianza sostanziale – "Quote rosa"

 

In diritto

 

La questione è fondata.

Sostiene il giudice remittente che il principio di eguaglianza secondo cui "tutti sono uguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali" (art. 3, primo comma) si pone "prima di tutto come regola di irrilevanza giuridica del sesso e delle altre diversità contemplate".

Tale regola, è a sua volta ribadita, in materia di elettorato passivo, dall'art. 51, primo comma: "tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge"; eguaglianza che, secondo il giudice remittente, non può avere significato diverso da quello dell'indifferenza del sesso ai fini considerati.

Detta lettura del dettato costituzionale non può non essere condivisa. Essa corrisponde infatti al significato letterale ed esplicito della formula adottata, ed al suo collegamento con il primo comma dell'art. 3.

Anzi, proprio con riferimento alla formulazione di questa norma, potrebbe apparire superflua la specificazione "dell'uno e dell'altro sesso", essendo di per sè sufficiente l'espressione "tutti i cittadini"; ma è invece comprensibile che i costituenti -- così come già nell'art. 48 avevano ribadito "sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, ..." -- abbiano voluto rafforzare, in riferimento agli uffici pubblici e alle cariche elettive, il precetto esplicito dell'eguaglianza fra i due sessi. Va tenuto conto del contesto storico in cui essi operavano: le leggi vigenti escludevano le donne da buona parte degli uffici pubblici, e l'elettorato attivo e passivo, concesso loro nel 1945 (decreto legislativo luogotenenziale 1o febbraio 1945, n. 23), era stato per la prima volta esercitato in sede politica con la elezione della stessa Assemblea costituente.

Anche dai lavori preparatori e dal raffronto del testo della Carta costituzionale con quello proposto dalla commissione dei settantacinque, si ricava che si volle sottolineare l'eguaglianza fra i due sessi, nel significato prima ricordato, senza possibilità di dubbi: fu aggiunta la menzione delle cariche elettive, e fu soppresso l'inciso "conformemente alle loro attitudini" nel timore che potesse giustificare il mantenimento di esclusioni discriminatrici nei confronti delle donne.

4. -- Posto dunque che l'art. 3, primo comma, e soprattutto l'art. 51, primo comma, garantiscono l'assoluta eguaglianza fra i due sessi nella possibilità di accedere alle cariche pubbliche elettive, nel senso che l'appartenenza all'uno o all'altro sesso non può mai essere assunta come requisito di eleggibilità, ne consegue che altrettanto deve affermarsi per quanto riguarda la "candidabilità". Infatti, la possibilità di essere presentato candidato da coloro ai quali (siano essi organi di partito, o gruppi di elettori) le diverse leggi elettorali, amministrative, regionali o politiche attribuiscono la facoltà di presentare liste di candidati o candidature singole, a seconda dei diversi sistemi elettorali in vigore, non è che la condizione pregiudiziale e necessaria per poter essere eletto, per beneficiare quindi in concreto del diritto di elettorato passivo sancito dal richiamato primo comma dell'art. 51. Viene pertanto a porsi in contrasto con gli invocati parametri costituzionali la norma di legge che impone nella presentazione delle candidature alle cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati.

5. -- Tanto basta per dichiarare la illegittimità costituzionale della norma sottoposta al giudizio di questa Corte, nondimeno alcune ulteriori considerazioni possono chiarire ancor meglio altri aspetti della questione.

Risulta dai lavori preparatori, che la disposizione che impone una riserva di quota in ragione del sesso dei candidati, seppure formulata in modo per così dire "neutro", nei confronti sia degli uomini che delle donne, è stata proposta e votata (dopo ampio e contrastato dibattito) con la dichiarata finalità di assicurare alle donne una riserva di posti nelle liste dei candidati, al fine di favorire le condizioni per un riequilibrio della rappresentanza dei sessi nelle assemblee comunali. Nell'intendimento del legislatore, pertanto, la norma tendeva a configurare una sorta di azione positiva volta a favorire il raggiungimento di una parità non soltanto formale, bensì anche sostanziale, fra i due sessi nell'accesso alle cariche pubbliche elettive; in tal senso essa avrebbe dovuto trarre la sua legittimazione dal secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.

6. -- Non è questa la sede per soffermarsi sul dibattito dottrinale, storico e politico che si è sviluppato intorno ai concetti di eguaglianza formale e di eguaglianza sostanziale, e conseguentemente al nesso che intercorre fra il primo ed il secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.

Certamente fra le cosiddette azioni positive intese a "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese", vanno comprese quelle misure che, in vario modo, il legislatore ha adottato per promuovere il raggiungimento di una situazione di pari opportunità fra i sessi: ultime tra queste quelle previste dalla legge 10 aprile 1991, n. 125 (Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro) e dalla legge 25 febbraio 1992, n. 215 (Azioni positive per l'imprenditoria femminile). Ma se tali misure legislative, volutamente diseguali, possono certamente essere adottate per eliminare situazioni di inferiorità sociale ed economica, o, più in generale, per compensare e rimuovere le diseguaglianze materiali tra gli individui (quale presupposto del pieno esercizio dei diritti fondamentali), non possono invece incidere direttamente sul contenuto stesso di quei medesimi diritti, rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i cittadini in quanto tali.

In particolare, in tema di diritto all'elettorato passivo, la regola inderogabile stabilita dallo stesso Costituente, con il primo comma dell'art. 51, è quella dell'assoluta parità, sicchè ogni differenziazione in ragione del sesso non può che risultare oggettivamente discriminatoria, diminuendo per taluni cittadini il contenuto concreto di un diritto fondamentale in favore di altri, appartenenti ad un gruppo che si ritiene svantaggiato.

È ancora il caso di aggiungere, come ha già avvertito parte della dottrina nell'ampio dibattito sinora sviluppatosi in tema di "azioni positive", che misure quali quella in esame non appaiono affatto coerenti con le finalità indicate dal secondo comma dell'art.3 della Costituzione, dato che esse non si propongono di "rimuovere" gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi: la ravvisata disparità di condizioni, in breve, non viene rimossa, ma costituisce solo il motivo che legittima una tutela preferenziale in base al sesso. Ma proprio questo, come si è posto in evidenza, è il tipo di risultato espressamente escluso dal già ricordato art. 51 della Costituzione, finendo per creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate.

7. -- Questa Corte nel corso degli anni dal suo insediamento ad oggi, ogni qual volta sono state sottoposte al suo esame questioni suscettibili di pregiudicare il principio di parità fra uomo e donna, ha operato al fine di eliminare ogni forma di discriminazione, giudicando favorevolmente ogni misura intesa a favorire la parità effettiva. Ma, val la pena ripetere, si è sempre trattato di misure non direttamente incidenti sui diritti fondamentali, ma piuttosto volte a promuovere l'eguaglianza dei punti di partenza e a realizzare la pari dignità sociale di tutti i cittadini, secondo i dettami della Carta costituzionale.

C'è ancora da ricordare che misure quali quella in esame si pongono irrimediabilmente in contrasto con i principi che regolano la rappresentanza politica, quali si configurano in un sistema fondato sulla democrazia pluralistica, connotato essenziale e principio supremo della nostra Repubblica.

È opportuno, infine, osservare che misure siffatte, costituzionalmente illegittime in quanto imposte per legge, possono invece essere valutate positivamente ove liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni, anche con apposite previsioni dei rispettivi statuti o regolamenti concernenti la presentazione delle candidature. A risultati validi si può quindi pervenire con un'intensa azione di crescita culturale che porti partiti e forze politiche a riconoscere la necessità improcrastinabile di perseguire l'effettiva presenza paritaria delle donne nella vita pubblica, e nelle cariche rappresentative in particolare. Determinante in tal senso può risultare il diretto impegno dell'elettorato femminile ed i suoi conseguenti comportamenti.

Del resto, mentre la convenzione sui diritti politici delle donne, adottata a New York il 31 marzo 1953, e la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione, adottata anch'essa a New York il 18 dicembre 1979, prevedono per le donne il diritto di votare e di essere elette in condizioni di parità con gli uomini, il Par lamento europeo, con la risoluzione n. 169 del 1988, ha invitato i partiti politici a stabilire quote di riserva per le candidature femminili; è significativo che l'appello sia stato indirizzato ai partiti politici e non ai governi e ai parlamenti nazionali, riconoscendo così, in questo campo, l'impraticabilità della via di soluzioni legislative.

Spetta invece al legislatore individuare interventi di altro tipo, certamente possibili sotto il profilo dello sviluppo della persona umana, per favorire l'effettivo riequilibrio fra i sessi nel conseguimento delle cariche pubbliche elettive, dal momento che molte misure, come si è detto, possono essere in grado di agire sulle differenze di condizioni culturali, economiche e sociali.

Resta comunque escluso che sui principi di eguaglianza contenuti nell'art. 51, primo comma, possano incidere direttamente, modificandone i caratteri essenziali, misure dirette a raggiungere i fini previsti dal secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.