Roberto Bin

 

Dopo gli Statuti: come adeguare le strutture e le procedure

dei Consigli regionali

 

Relazione al Seminario 

LE ASSEMBLEE LEGISLATIVE E LA VALUTAZIONE DELLE POLITICHE – Come produrre nuova conoscenza sulle politiche pubbliche e aggiungere valore al processo legislativo?

Firenze, Venerdì, 12 novembre 2004

 

 

Per tracciare la mia relazione, mi sono strettamente attenuto agli interrogativi indicati nel programma della giornata. Sono quattro, formulati con molta chiarezza.

Primo interrogativo: “In che misura la logica non-partisan, cui si ispira la valutazione, si può inserire in un’arena altamente politicizzata quale un’assemblea elettiva? Può la politica abituarsi ad utilizzare informazioni ed argomentazioni apolitiche?” Per provare a rispondere a questa domanda non la si può affrontare in astratto, ma bisogna ambientarla nel nostro paese; nel nostro paese temo che la risposta sia piuttosto fredda, per non dire troppo bruscamente già dall’inizio, negativa. Tutto dipende dal livello di cultura istituzionale di cui è dotata la classe politica in attività, per questo non si può essere molto ottimisti: in un paese dove si discute animatamente dell’inclusione del crocifisso tra gli arredi scolastici, ma non si dice una parola sulla scandalosa assenza di un insegnamento dell’educazione civica nelle scuole, la cultura istituzionale è zero e zero è destinata a restare a lungo. C’è poco da fare, forse un giorno le regioni scopriranno di avere poteri legislativi in materia di istruzione e lanceranno un programma serio per l’inserimento dell'educazione civica nelle scuole, ma fino a quel giorno non crescerà una classe politica munita di senso delle istituzioni. Il problema del “senso delle istituzioni” non è tanto un problema, come spesso sembra ridurlo il dibattito sulle clausole valutative, di rapporti tra dati oggettivi, fatti documentati e scelte politiche, è un problema molto più radicale, che coinvolge il senso che i soggetti politici sono disposti a riconoscere agli autovincoli che si danno, intendendo per autovincoli le regole, le procedure fisse, le garanzie istituzionali e così via. Jefferson diceva che ogni generazione ha diritto di farsi la propria costituzione, per non subire i vincoli dettati da una generazione precedente: in Italia invece si sta seriamente – nella misura in cui il termine ci si addica – discutendo una vasta riforma costituzionale destinata a non applicarsi a questa generazione politica, ma la cui concreta applicazione è procrastinata alla generazione successiva. Anche questo è parte di una visione assai povera della politica, premessa e conseguenza di una pessima cultura istituzionale. Non è un problema che si può mettere a carico dei soli politici, ma riguarda l’intera collettività, perché è solo la forza della disapprovazione sociale per la rottura dei vincoli che può persuadere il politico dell’importanza di rispettarli. In Italia, purtroppo, siamo molto lontani da tutto ciò e della propria maleducazione istituzionale ( e non solo) i politici sembrano invece farsene spesso un vanto.

Questo mi sembra che sia il substrato che manca nel nostro paese: le regole, tutte le regole, di per sé sono bipartisan se permangono nel tempo, ma in questo paese, dove si preferisce riformare la costituzione piuttosto che applicarla, è chiaro che il senso delle regole non c’è. In un paese in cui il governo si sveglia la mattina intonando il canto del "Federalismo” e dopodiché impugna leggi e statuti regionali per ogni possibile motivo in modo da bloccare qualsiasi spiraglio, non dico di rispetto per la diversità istituzionale e politica, ma della stessa autonomia, il senso delle regole non c’è. In un paese in cui il Parlamento non riesce ad affrontare il problema del Senato federale per il semplice fatto che tocca gli interessi dei Senatori, il senso delle istituzioni non c’è. In un paese in cui le procedure parlamentari sono sistematicamente devastate da colpi di maggioranza (e non è solo l’attuale maggioranza ad averne inferti!), il senso delle istituzioni non c’è: E nelle Regioni i cui Consiglieri perdono cinque anni cercando di evadere dalle “strettoie” poste dalla Costituzione per ciò che riguarda la c.d. “forma di governo” (il “simul-simul”, per intenderci), del tutto incuranti della necessità di trovare altrove i presidi utili per un equilibrio tra i poteri, il senso delle istituzioni non c’è. Da noi il problema della politica è visto sotto l’esclusivo profilo della comunicazione. Tutto ciò che avviene nella politica è comunicazione: le riforme costituzionali (e perciò la predisposizione degli autovincoli) sono comunicazione, le leggi sono comunicazione, sono le fiction di cui parlava Alberto Martini poc’anzi. Alla domanda posta dal Consigliere membro della Commissione statuto dell’Emilia Romagna, a cui ha accennato Martini, io - devo confessarlo - avrei dato una risposta brusca e secca, in tinta con il mio carattere: perché è la dimostrazione di ciò che sto sostenendo, l’idea trionfante per cui la politica è gioco autoreferenziale, pura forma comunicativa - ovviamente di una comunicazione unilaterale, che procede dal Consiglio ai cittadini perché questi sappiano quello che in esso si dice. In Consiglio regionale, del resto, si dicono le cose che si vogliono comunicare ai cittadini, e forse al nostro consigliere non viene spesso in mente l’idea che in Consiglio regionale, oltre a dire le cose, si faccia anche qualcosa. Per ciò le leggi (e gli Statuti) escono così come noi purtroppo le conosciamo.

 

Secondo quesito: “Può rafforzare il ruolo del Legislativo, e la sua dialettica con l’Esecutivo, il fatto che l’assemblea promuova in modo autonomo analisi e valutazioni delle politiche? In che modo l’esercizio di questa funzione può contribuire ad un’apertura delle assemblee verso le collettività regionali e consolidare i processi di democratizzazione dei sistemi di governo locale? Questo mi sembra il punto nodale. La risposta non può che essere sì, ma vorrei provare a svolgere un ragionamento un po’ diverso, un po’ deviante, da quello consolidato che emerge sempre dai discorsi sulla valutazione.

Valutare significa conoscere. Non c’è dubbio. Ma conoscere che cosa? La risposta è immediata, si tratta di conoscere i dati, i fatti relativi all’attuazione delle leggi. Io, che sono un giurista, categoria che non piace molto ad Alberto Martini, sono abituato ad uno scetticismo naturale sui dati ed i fatti. Nel mondo di noi giuristi i dati ed i fatti non esistono. Questo ci distingue dagli economisti e dai scienziati scienze sociali, che sono convinti che i fatti esistano e della loro oggettiva proiezione di occupano. Per noi i fatti non esistono perché è impossibile scomporre un “fatto” dall’interesse che lo ricopre. Per noi la sede dell’accertamento dei fatti è il processo, che i giuristi hanno inventato perché le parti espongano il loro punto di vista sui fatti: nessuno pensa seriamente - salvo il Ministro di Giustizia e qualche raro magistrato da lui molto amato, ma i giuristi certamente no - che basti una perizia per accertare i “fatti”. Un’importante sentenza recente della Corte suprema americana è intervenuta proprio per riposizionare e delimitare il ruolo dei periti nel processo, nei grandi e famosi processi per danno ai consumatori, per esempio. Perché i fatti viaggiano sempre nel vagone trainato dagli interessi e non sono mai interamente separabili dalla rappresentazione che ognuno ne dà.

Questo è un aspetto estremamente importante, secondo me, perché ci dice che conoscere significa ricostruire gli interessi, acquisire gli interessi. Non c’è una attività di conoscenza, per un’assemblea politica, che non comporti anche un contraddittorio con le parti sociali. L’obiettivo non è tanto conoscere la realtà quantitativa, numerica, delle cose (il numero è sempre idiota, diceva Flaubert), ma di scoprire che cosa le parti sociali dicono attorno ai fatti ed ai dati. Questo significa in fondo rappresentare, e rappresentare è l’altro senso di marcia del comunicare: non il comunicare un po’ onanistico della politica, attraverso portaborse che trasmetto alla stampa la notizia che il consigliere Taldeitali ha presentato una interpellanza o un progetto di legge – notizia di cui a nessuno importa qualcosa - ma il comunicare “in senso ascendente”, per così dire, che serve a capire che cosa la società vuole dai propri rappresentanti e come ne apprezza l’attività. Per cui valutare è sì conoscere, ma valutare è anche rappresentare.

A me pare che questo lato rimanga sempre un po’ troppo in ombra quando si affronta il tema della valutazione delle leggi. La crisi della rappresentanza è il fattore critico che connota la crisi in cui versano le assemblee rappresentative. La crisi della rappresentanza parlamentare non nasce dall’elezione diretta del Sindaco o del Presidente della Giunta regionale, ma è un fenomeno su cui si è sviluppata una letteratura più estesa forse della stessa letteratura sulla rappresentanza: la crisi del parlamentarismo è un fortunato genere letterario sorto alla fine dell’800, cioè dopo che il parlamentarismo aveva goduto di solo qualche breve decennio di auge. Allora la riflessione non può rimanere legata al contingente: l’introduzione dell’elezione diretta degli esecutivi non è la causa, ma semmai l’effetto della crisi della rappresentanza parlamentare. Riuscire a fare leggi sapendo cosa pensa e vuole la società di quelle leggi e della attuazione delle leggi precedenti è un modo per cercare di uscire dalla crisi.

Questo, secondo me, è il vero problema: su di esso non può esserci una contrapposizione nella politica o tra il politico e il “tecnico”, ma solo la contrapposizione  tra una politica stolta ed una politica fornita della consapevolezza di sé. E purtroppo noi ci troviamo di fronte ad assemblee elettive più propense alla politica stolta che alla politica “politica”, tant’è vero che sono rimaste invischiate per cinque anni nella questione di come difendere competenze che non hanno mai esercitato. Quando mai i Consigli hanno controllato la Giunta? Quando mai i Consigli sono stati un effettivo contropotere rispetto agli esecutivi? Quando mai i Consigli hanno esercitato un potere regolamentare che di fatto era da tempo delegato in forme mascherate alle Giunte? Quando mai i Consigli hanno sviluppato strategie diverse da ciò che le Giunte hanno loro comunicato? La forza dei Consigli è la rappresentanza, oggi la rappresentanza è passata in mano al Presidente della Giunta. Questo è effettivamente un dato importante, ma di fronte ad esso l’atteggiamento da assumere – su ciò ha pienamente ragione il Consigliere Cecchetti - non è quello della nostalgia di un passato che non c’è mai stato: tutti i nostalgici sognano una infanzia che non hanno avuto. La via è quella di riscoprire il senso, la forza, la potenza di una assemblea rappresentativa, che è appunto la rappresentanza.

I Consigli regionali hanno dimostrato invece, in occasione della scrittura degli statuti, di avere paura della rappresentanza, o meglio, dei rappresentati. Quando hanno cercato di aggirare la dura regola del “simul-simul”, pur mantenendo un simulacro di elezione diretta del Presidente (rispetto alla quale tutti o quasi erano contrari), a spingerli è stata proprio la  paura di dover spiegare agli elettori perché mai, decidendo di praticare la strada più che legittima dell’elezione indiretta, li volevano espropriare della scelta del Presidente della Giunta regionale. Quale fosse il rischio che gli elettori reagissero a male parole alla scelta dell’elezione consiliare del Presidente lo hanno dimostrato le vicende del referendum sulla “legge statutaria” svoltosi in Friuli-Venezia Giulia: perciò, temendo un’analoga sollevazione dei loro rappresentati, i rappresentanti si sono rassegnati a “scegliere” di far eleggere direttamente da loro il Presidente. Solo a questo nodo hanno pensato per cinque anni, e ne sarebbero passati anche di più se la Corte costituzionale non avesse bocciato la ricerca di una “terza via” dal parte della Regione Calabria, costringendo tutti i consiglieri regionali ad una scelta netta. Ma, finché le assemblee regionali non capiranno che la politica non può essere la fuga dalla responsabilità nei confronti degli elettori, ogni discorso sulla rappresentanza sarà vacuo ed ogni speranza di rilanciare il ruolo del Consiglio regionale sarà frustrata.

 

Terzo quesito: “Passando a considerare l’uso di concreti strumenti legislativi, quali difficoltà può incontrare sul suo cammino l’approvazione di una “clausola valutativa”? Come si possono prevenire tali difficoltà?” Qui forse è necessario l’apporto di uno psicologo più che di un giurista. Ad ogni modo, le difficoltà di approvare clausole valutative possono risiedere nell’introdurle, nel formularle o non gestirle? Mi concentrerò per il momento sul primo profilo: le difficoltà di approvare le clausole valutative si insinuano – è supponibile – nel rapporto con il politico, che può sospettare che la clausola valutativa sia un tentativo tecnocratico di restringere gli spazi della politica, un tentativo della consorteria burocratica dei funzionari consiliari di limitare la sovrana volontà del rappresentante del popolo. Queste sono patologie che altri, non il giurista, dovrebbe cercare di curare, perché se si accetta l’idea che le clausole valutative non sono un orpello per abbellire le leggi, e neppure una sottile strategia per rafforzare il potere dei tecnici, ma una delle più convincenti strategie attraverso le quali i Consigli, come corpi politici e rappresentativi, possono cercare di estendere la propria capacità di conoscere la realtà sociale e l’impatto delle loro  leggi su di essa, ecco che il problema si dissolve. Le clausole valutative servono infatti ad allargare la visione che il Consiglio ed i Consiglieri hanno della realtà sociale. Io mi sono sempre chiesto come si possa immaginare di svolgere una funzione - professionale e retribuita, tra l’altro - in nome dell’interesse pubblico, avendo di questo una nozione così limitata, ed una visione estremamente ristretta delle politiche pubbliche. Il Consiglio regionale fa le leggi, è vero: ma della politica pubblica che la legge vuole promuovere “vede” solo un breve segmento. Inizia ad occuparsene quando riceve la proposta della Giunta e svolge il suo compito nel procedimento legislativo, prima in Commissione e poi in Aula, attraverso le tradizionali tre letture. Dopodiché torna a perdere la visione della politica pubblica, nulla sa – sa in modo organizzato e non attraverso contatti sporadici e parziali - di ciò che accade nel mondo reale a seguito della sua legge se non ciò che graziosamente l’Assessore ha piacere di comunicare di tanto in tanto; salvo poi dover ritornare ad occuparsene di sghimbescio l’anno dopo, in occasione del rifinanziamento della legge nell’ambito della sessione di bilancio. Ed ecco che, dopo qualche anno, sarà forse di nuovo la Giunta, con l’eventuale progetto di modifica della legge, a ripresentare questo strano astro nello spicchio di cielo che il Consiglio può osservare, ma giusto per un attimo. Si può onestamente pensare di svolgere il proprio ruolo come politico – professionale e retribuito, lo ripeto - in un Consiglio regionale che gode di una visione così limitata delle cose?

Per rimediare a questa condizione, bisogna evidentemente agire sulle procedure: ma questo riguarda il quarto quesito. Va però evitato un grandissimo rischio, che queste procedure e le clausole valutative diventino una moda, qualcosa da gestire in stile burocratico, l’occasione per creare l’ennesimo ufficio nell’ambito dei Consigli regionali, con viva gratitudine da parte dei contribuenti; è necessario evitare che ogni legge esca munita di una parvenza di clausola valutativa, anche le leggi che non avranno alcun impatto significativo sulla società (chi mai accetterebbe del resto di proporre, discutere e approvare leggi che già in partenza non sono destinate ad avere un impatto abbastanza importante sulla realtà? Non viviamo forse nel mondo della politica – comunicazione?). Le clausole valutative diverrebbero un gioco di società che occupa i tecnici del Consiglio e quelli della Giunta, lasciando perfettamente indifferenti i politici della Giunta e quelli del Consiglio: anzi, loro adesso le vorrebbero finalmente, essendo assodato che non servono a nulla se non all’immagine. Questo è sì un rischio assolutamente serio.

 

Quarto quesito: “Attraverso quali meccanismi i risultati della valutazione, espressamente richiesta in una clausola valutativa, possono entrare in circolo all’interno del processo legislativo?Direi che ci sono alcuni obiettivi da raggiungere. Primo, allentare la diffidenza dei politici che ragionano, come il Consigliere dell'Emilia Romagna citato prima, sulla base del “primato della politica”, quasi che questa possa essere indipendente dai processi cognitivi e partecipativi. Non si tratta soltanto di superare le diffidenze ad inserire le clausole valutative nel testo delle leggi, ma anche di evitare – come ho appena sottolineato – che le clausole siano inserite soltanto come abbellimento, senza alcuna convinzione circa la loro utilità politica. Secondo obiettivo, bisogna impedire che la “valutazione” comporti ingenti spese per le strutture: una spesa ingente avrebbe il doppio effetto di giustificare l’opposizione di quanti hanno a cuore – almeno a parole – la spesa pubblica e di attrarre invece la golosa attenzione di chi è in perenne caccia di risorse con cui sfamare il proprio entourage. Terzo obiettivo, diminuire la dipendenza del Consiglio dalla Giunta regionale. Sono apparentemente obiettivi inconciliabili, ma forse non è così.

Vorrei prendere le mosse da questo terzo obiettivo perché, da come sono spesso formulate le clausole valutative, mi sembra emergere l'idea che debba sempre gravare sull’esecutivo l’onere di produrre i dati ed i fatti; anche dove sia prevista una forma di collaborazione con gli uffici del Consiglio, è sempre dalla Giunta che arriva l'input. Questo ovviamente mi preoccupa un po', perché la conseguenza è abbastanza scontata. Il Consiglio e i suoi uffici restano alla mercè dei dati loro presentati e non hanno molte possibilità di uscire dal ruolo passivo che si vorrebbe superare: salvo non pensare di ispessire l’apparato amministrativo del Consiglio sino a raggiungere livelli di competenza paragonabili a quello dell’organizzazione giuntale, prospettiva che, in quanto contribuente, riterrei diabolica.

Forse non bisogna iniziare dal lato tecnico, ma da quello politico. Se i “fatti” non sono separabili dagli interessi che li rappresentano, forse non è tanto sull’apparato dei funzionari consiliari che si devono puntare i riflettori quanto sul ruolo del politico. Direi che una soluzione abbastanza interessante – una delle poche innovazioni contenute nei nuovi Statuti regionali, forse fin troppo innovativa e intelligente per essere credibile - la si può trovare delineata nello Statuto dell'Emilia Romagna. Lo Statuto dell'Emilia-Romagna, che assieme a quello della Toscana, è l'unico che manifesta un vero interesse per queste cose, delinea un’ipotesi che, secondo me, potrebbe essere seguita e rafforzata, cioè quella di personalizzare le leggi legandole al relatore in aula. Forse sforzo un po’ il testo, vado al di là di ciò che esso effettivamente preveda, m’immagino sviluppi che non sono affatto preannunciati: ma sono sviluppi possibili e “virtuosi”. Si sa, le norme degli Statuti non vanno prese troppo sul serio, perché hanno una debole funzione normativa: non perché contenute nello Statuto, ma solo perché i nostri politici – già l’ho detto all’inizio - non hanno affatto la cultura dello Stato di diritto, non amano per nulla vincolare se stessi a procedure precise e imporsi obblighi inderogabili. Gli Statuti regionali al massimo aprono delle possibilità, ma noi dobbiamo ragionare nell’ipotesi che queste possibilità siano semi destinati ad attecchire e che vi sia qualcuno che capisca il significato (egoistico, anzitutto) che lo sviluppo di questa pianta può avere per il rafforzamento del Consiglio regionale e del ruolo dei politici che lo abitano. E la forza del Consiglio regionale, come corpo politico, è data proprio dalla procedura e dal vincolo che essa esercita sugli attori politici.

Ragioniamo quindi su come potrebbe svilupparsi il seme gettato dallo Statuto dell’Emilia-Romagna. Se effettivamente il Consiglio regionale, quando riceve la notizia dell’iniziativa legislativa o il progetto elaborato dalla Giunta (sono aspetti che vanno attentamente considerati e normati), nomina già il consigliere relatore (e forse, almeno in certi casi, anche un relatore di minoranza) e questi inizia a seguire tutto l'arco di formazione del progetto, partecipa alle consultazione, presenta la relazione in Commissione e poi in Aula, probabilmente riesce ad assicurarsi un apporto po' più consapevole e meno dipendente da dati unilaterali comunicati dalla Giunta o dall'Assessore; se poi il consigliere (lui o un altro che gli subentri, la questione non è poi decisiva) resta incaricato di seguire la valutazione della legge, ed è quindi la persona chiamata a gestire la clausola valutativa, il Consiglio otterrebbe un proprio direttore d’orchestra in grado di svolgere quell’attività che, a mio modo di vedere, è indispensabile nel processo di valutazione, cioè aprire il Consiglio agli interessi, portare gli interessi organizzati dentro al Consiglio, fare del Consiglio non l’organo che promuove audizioni a cui nessuno va volentieri, se non è disoccupato, ma una sponda importante del processo decisionale, a cui poter riferire il proprio giudizio su come la legge abbia o meno funzionato, sui risultati che si sono visti, sui correttivi che sarebbero necessari. La legge non sarebbe più nota con il solo nome dell’Assessore che l’ha voluta, ma anche il Consiglio potrebbe apporci una firma personale, quella del consigliere che l’ha seguita e la segue.

Anche il nostro consigliere emiliano dovrebbe accorgersi che questo significa fare politica, fare politica sfruttando anche le risorse della valutazione e interpretando a dovere il proprio ruolo di rappresentante e di legislatore. In questo modo risulterebbe chiaro che la valutazione delle leggi non si lega esclusivamente all’attività di un funzionario attivo e intelligente, che si sforza di produrre dati e a fornire supporti conoscitivi, spesso inascoltato; ma la si lega al politico, offrendogli la possibilità di fare il suo mestiere, sempre che lo voglia fare, con le conoscenze e gli strumenti che gli sono indispensabili. Sono fermamente convinto – ma so di non essere il solo - che la valutazione non possa funzionare se non si persuade il politico che questo progetto ha un senso, una utilità per il suo mestiere, per la sua funzione, per i suoi obiettivi. La valutazione deve divenire una procedura che si fonde con la procedura decisionale del Consiglio ed espande il ruolo dei servizi tecnici nella stessa misura in cui espande il ruolo del politico. I due profili sono inseparabili e devono essere costruiti e disciplinati assieme.

Chiusa, con poca gloria, la stagione degli Statuti, direi che si potrebbe mettere mano a strumenti meno carichi di evocazioni simboliche, quale la legge sulla normazione, che è prevista dallo Statuto della Toscana, i regolarmente consiliari, le leggi sulla programmazione e la contabilità. Sarebbe bene che questi atti dicessero qualcosa in merito alla formazione delle schede tecniche e delle relazioni ai progetti di legge, perché già là si possono introdurre le premesse della valutazione, obbligando il presentatore, e in primo luogo la Giunta, ad indicare quali siano gli obiettivi specifici perseguiti dalla legge, i tempi per la realizzazione e i risultati verificabili nelle varie fasi si attuazione; quali siano stati i soggetti consultati, le attività istruttorie compiute, i parametri di valutazione dei risultati che verranno prodotti, il piano delle verifiche periodiche. Se lo Statuto avesse stabilito che nessun rifinanziamento di spese pluriennali può essere consentito senza questa procedura, il Consiglio regionale subirebbe sì un vincolo procedurale, ma esso servirebbe a valorizzarne il ruolo, non a comprimere  la “sovranità” della politica.

Ovviamente non tutte le leggi devono e possono essere corredate da una clausola di valutazione. Se la valutazione implica effettivamente una qualche acquisizione ed elaborazione dei dati, vi deve essere una copertura della spesa che deve essere prevista nella legge. A mi avviso, bene sarebbe che la copertura sia disposta dalla stessa legge, come parte (che forse potrebbe essere fissata, in un’eventuale disciplina generale, in termini di percentuale dello stanziamento complessivo) della spesa autorizzata dalla legge stessa: è insomma un costo della legge, che non deve diventare un costo del Consiglio imputato al suo bilancio. Si sa come sia difficile destinate le risorse del bilancio del Consiglio a scopi istituzionali, sottraendoli ai meccanismi spartitori. In Consigli regionali che sono vergognosamente colpevoli di non aver saputo resistere alla pressione devastante dei “gruppi monocellulari”, ed anzi escogitano tutti i meccanismi per promuoverli e sostenerli, l’attività istituzionale di valutazione va protetta e collegata alla singola legge che di essa sia degna. Potrebbe essere utile – nel senso di innescare un interesse “virtuoso” del politico – prevedere che lo stanziamento per la valutazione sia amministrato dal o dai relatori della legge, suddividendo la spesa tra le attività preparatorie della legge e quelle di valutazione degli effetti. Ecco che forse il politico scoprirebbe un nuovo interesse per la valutazione!

Purtroppo in Italia non abbiamo una cultura seria della copertura finanziaria: è parte dell’incultura istituzionale diffusa, che non ci fa apprezzare gli autovincoli. Le conseguenze sono a tutti note e si chiamano debito pubblico, Quando qualche anno fa il parlamento britannico approvò lo Human Rights Act, cioè la legge che disciplinava l’applicazione nel Regno unito della Convenzione sui diritti dell’uomo, provvide a fare ciò che nessun legislatore italiano avrebbe mai pensato di fare: coprire le spese che sarebbero state necessarie per preparare giudici ed uffici all’applicazione delle legge stessa. Si è mai vista una legge italiana che si pone questi problemi? E' mai successo che quando il nostro legislatore introduce una nuova norma penale si sia posto il problema di quanto costi la gestione processuale della sua applicazione? No, ma poi non si vergogna di lamentarsi che la giustizia non funziona, quando per caso sfiora lui o i suoi adepti.

Allora la previsione della copertura finanziaria delle clausole valutative da inserire nelle rarissime leggi che lo meritano, che sono destinate ad avere un impatto apprezzabile sulla società - impatto che in qualche modo (che il regolamento del Consiglio regionale dovrebbe avere disciplinato) è già prefigurato e reso quantificabile dalla relazione alla legge – è una componente fondamentale del metodo della valutazione. Perché di metodo deve trattarsi, non di un ufficio, di una struttura burocratica, in perenne bilico tra chi la vorrebbe allargare perché altrimenti sarebbe continuamente in difetto rispetto ai compiti e chi la vorrebbe sopprimere perché per definizione incapace di affrontare con sufficiente competenza gli infiniti oggetti che la legislazione regionale può trovarsi ad affrontare. Sono convinto che la valutazione delle leggi non deve comportare istituzione di uffici appositi, ma soprattutto capacità dei politici e dei funzionari di modellare le procedure di valutazione di caso in caso, secondo le caratteristiche della politica pubblica da monitorare, acquisendo le competenze laddove esse esistano: mai appaltando la valutazione all’esterno del Consiglio regionale, mai neppure chiudendola all’interno delle strutture burocratiche di esso; e comunque mai facendone un fatto puramente tecnico, scisso dai compiti della rappresentanza politica. Ciò non significa che il Consiglio regionale non debba potenziare le proprie strutture tecniche, anzi: servono persone che sappiano analizzare i bilanci, valutare la fattibilità dei programmi, svolgere attività di monitoraggio ecc. Sperando che i Consigli – e gli uomini che li abitano – capiscano che servono tecnici capaci e non portaborse fedeli, queste strutture vanno costruite soprattutto come interfaccia tra l’istituzione e le professionalità che di volta in volta devono essere acquisite sul mercato. Credo infatti che la valutazione sia un elemento progettuale, non un’attività prefigurabile una volta per tutte. Per questo è bene che sia la singola legge a sbozzare il progetto di sua valutazione e a quantificarne il costo: le strutture tecniche del Consiglio di questo devono occuparsi, di costruire un progetto valido e di controllare che esso sia correttamente svolto utilizzando le risorse messe a disposizione per acquisire le competenze specifiche necessarie; e, prima ancora, di mettere a punto una metodologia che inserisca la valutazione come un elemento esatto e necessario del procedimento decisionale.

 

C'è una postilla all'ultima domanda: "Quali nuove regole sono necessarie per tutelare la circolazione di tali risultati?". Questo ultimo quesito mi ha fatto sobbalzare, perché non capisco cosa ci sia da tutelare nei risultati della valutazione: ero rimasto alla Regione come casa di vetro! Così me l’hanno raccontata trent’anni fa, quando ho iniziato ad occuparmi delle Regioni, e così è detto e ripetuto dai nuovi Statuti. Abbiamo scherzato? Se non sono trasparenti, vuol dire che le pareti del palazzo sono sporche: allora le norme da introdurre devono riguardare la pulizia dei vetri, non la tutela e la limitazione della circolazione dei dati. Quali dati dovrebbero essere riservati? Ci sono informazioni relative all'attuazione di una legge che non devono essere diffuse? Se ci sono, bisogna comunicarle urgentemente alla Procura della Repubblica. Tutto all’opposto, ai risultati del procedimento di valutazione deve essere data la dovuta pubblicità, anche se sono negativi. Perché di una cosa i signori consiglieri devono essere consapevoli, che se una legge regionale ha fallito i suoi obiettivi gli unici a non saperlo sono proprio loro. Rendere pubblici i dati della valutazione significa fare finalmente una comunicazione politica seria, onesta: e ai cittadini forse sarà di consolazione sapere che anche i consiglieri regionali sono consapevoli dei risultati di quello che fanno! La riservatezza sull’azione fa forse il gioco dell’esecutivo, mai quello del Consiglio: la pubblicità è proprio l’arma più appuntita di cui disponga un’assemblea rappresentativa. Per favore, dunque, quest’ultima domanda stralciamola!

 

Brevissima conclusione di poche parole. La stagione degli statuti a me sembra destinata a chiudersi con un bilancio piuttosto deludente. Ma non è finita, perché adesso c'è la fase delicatissima dei regolamenti consiliari e delle leggi di attuazione. In questa fase si può fare ancora molto, anzi, si può fare tutto. Certo che se gli statuti avessero posto qualche elemento di autovincolo, avessero imposto ai regolamenti di disciplinare determinate procedure o avessero direttamente condizionato l’ammissibilità dei disegni di legge o delle leggi di rifinanziamento alla presentazione di determinate documentazioni, il compito sarebbe oggi diverso e la scrittura delle norme nuove sarebbe meno difficile: ma capisco che gli statuti sono considerati troppo aerei per occuparsi di queste piccole cose. I regolamenti consiliari e le leggi sulla normazione diventano però un’occasione che non si può più sprecare. Grazie.