Roberto Bin
Dopo gli Statuti: come
adeguare le strutture e le procedure
dei
Consigli regionali
Relazione
al Seminario
LE
ASSEMBLEE LEGISLATIVE E
Firenze, Venerdì,
12 novembre 2004
Per tracciare
la mia relazione, mi sono strettamente attenuto agli interrogativi indicati nel
programma della giornata. Sono quattro, formulati con molta chiarezza.
Primo
interrogativo: “In che misura la logica
non-partisan, cui si ispira la valutazione, si può
inserire in un’arena altamente politicizzata quale un’assemblea elettiva? Può
la politica abituarsi ad utilizzare informazioni ed argomentazioni apolitiche?”
Per provare a rispondere a questa domanda non la si
può affrontare in astratto, ma bisogna ambientarla nel nostro paese; nel nostro
paese temo che la risposta sia piuttosto fredda, per non dire troppo bruscamente
già dall’inizio, negativa. Tutto dipende dal livello di cultura istituzionale di
cui è dotata la classe politica in attività, per questo non si può essere molto
ottimisti: in un paese dove si discute animatamente dell’inclusione del crocifisso tra gli arredi scolastici, ma non si dice una
parola sulla scandalosa assenza di un insegnamento dell’educazione civica nelle
scuole, la cultura istituzionale è zero e zero è destinata a restare a lungo.
C’è poco da fare, forse un giorno le regioni scopriranno di avere poteri
legislativi in materia di istruzione e lanceranno un
programma serio per l’inserimento dell'educazione civica nelle scuole, ma fino
a quel giorno non crescerà una classe politica munita di senso delle
istituzioni. Il problema del “senso delle istituzioni” non è tanto un problema,
come spesso sembra ridurlo il dibattito sulle clausole valutative, di rapporti
tra dati oggettivi, fatti documentati e scelte politiche, è un problema molto più radicale, che coinvolge il senso che i soggetti
politici sono disposti a riconoscere agli autovincoli che si danno, intendendo
per autovincoli le regole, le procedure fisse, le garanzie istituzionali e così
via. Jefferson diceva che ogni generazione ha diritto
di farsi la propria costituzione, per non subire i vincoli dettati da una
generazione precedente: in Italia invece si sta seriamente – nella misura in
cui il termine ci si addica – discutendo una vasta riforma costituzionale
destinata a non applicarsi a questa generazione
politica, ma la cui concreta applicazione è procrastinata alla generazione
successiva. Anche questo è parte di una visione assai
povera della politica, premessa e conseguenza di una pessima cultura
istituzionale. Non è un problema che si può mettere a carico dei soli politici,
ma riguarda l’intera collettività, perché è solo la forza della disapprovazione
sociale per la rottura dei vincoli che può persuadere il politico
dell’importanza di rispettarli. In Italia, purtroppo, siamo molto lontani da
tutto ciò e della propria maleducazione istituzionale ( e non solo) i politici
sembrano invece farsene spesso un vanto.
Questo mi
sembra che sia il substrato che manca nel nostro paese: le regole, tutte le regole, di per sé sono bipartisan
se permangono nel tempo, ma in questo paese, dove si preferisce riformare la
costituzione piuttosto che applicarla, è chiaro che il senso delle regole non
c’è. In un paese in cui il governo si sveglia la mattina intonando il canto del
"Federalismo” e dopodiché impugna leggi e statuti regionali per ogni
possibile motivo in modo da bloccare qualsiasi spiraglio, non dico di rispetto
per la diversità istituzionale e politica, ma della stessa autonomia, il senso
delle regole non c’è. In un paese in cui il Parlamento non riesce ad affrontare
il problema del Senato federale per il semplice fatto che tocca gli interessi
dei Senatori, il senso delle istituzioni non c’è. In un paese in cui le
procedure parlamentari sono sistematicamente devastate da colpi di maggioranza
(e non è solo l’attuale maggioranza ad averne inferti!), il senso delle
istituzioni non c’è: E nelle Regioni i cui Consiglieri
perdono cinque anni cercando di evadere dalle “strettoie” poste dalla
Costituzione per ciò che riguarda la c.d. “forma di governo” (il “simul-simul”, per intenderci), del tutto
incuranti della necessità di trovare altrove i presidi utili per un equilibrio
tra i poteri, il senso delle istituzioni non c’è. Da noi il problema della
politica è visto sotto l’esclusivo profilo della comunicazione. Tutto ciò che
avviene nella politica è comunicazione: le riforme costituzionali (e perciò la
predisposizione degli autovincoli) sono comunicazione, le leggi sono comunicazione, sono le fiction di cui parlava Alberto Martini poc’anzi. Alla domanda posta
dal Consigliere membro della Commissione statuto dell’Emilia Romagna, a cui ha
accennato Martini, io - devo confessarlo - avrei dato una risposta brusca e
secca, in tinta con il mio carattere: perché è la dimostrazione di ciò che sto
sostenendo, l’idea trionfante per cui la politica è gioco
autoreferenziale, pura forma comunicativa - ovviamente di una comunicazione
unilaterale, che procede dal Consiglio ai cittadini perché questi sappiano quello
che in esso si dice. In Consiglio regionale, del resto, si dicono le cose che
si vogliono comunicare ai cittadini, e forse al nostro consigliere non viene
spesso in mente l’idea che in Consiglio regionale, oltre a dire le cose, si faccia anche qualcosa.
Per ciò le leggi (e gli Statuti) escono così come noi
purtroppo le conosciamo.
Secondo
quesito: “Può rafforzare il ruolo del
Legislativo, e la sua dialettica con l’Esecutivo, il fatto che l’assemblea
promuova in modo autonomo analisi e valutazioni delle politiche? In che modo
l’esercizio di questa funzione può contribuire ad un’apertura delle assemblee
verso le collettività regionali e consolidare i processi di democratizzazione
dei sistemi di governo locale? Questo mi sembra il punto nodale. La
risposta non può che essere sì, ma vorrei provare a svolgere un ragionamento un
po’ diverso, un po’ deviante, da quello consolidato
che emerge sempre dai discorsi sulla valutazione.
Valutare
significa conoscere. Non c’è dubbio. Ma conoscere che
cosa? La risposta è immediata, si tratta di conoscere i dati, i fatti relativi all’attuazione delle leggi. Io, che sono un
giurista, categoria che non piace molto ad Alberto Martini, sono
abituato ad uno scetticismo naturale sui dati ed i fatti. Nel mondo di noi
giuristi i dati ed i fatti non esistono. Questo ci distingue dagli economisti e
dai scienziati scienze sociali, che sono convinti che
i fatti esistano e della loro oggettiva proiezione di occupano. Per noi i fatti
non esistono perché è impossibile scomporre un “fatto” dall’interesse che lo
ricopre. Per noi la sede dell’accertamento dei fatti è il processo, che i
giuristi hanno inventato perché le parti espongano il loro punto di vista sui
fatti: nessuno pensa seriamente - salvo il Ministro di Giustizia e qualche raro
magistrato da lui molto amato, ma i giuristi certamente no - che basti una
perizia per accertare i “fatti”. Un’importante sentenza recente della Corte
suprema americana è intervenuta proprio per riposizionare e delimitare il ruolo
dei periti nel processo, nei grandi e famosi processi
per danno ai consumatori, per esempio. Perché i fatti
viaggiano sempre nel vagone trainato dagli interessi e non sono mai interamente
separabili dalla rappresentazione che ognuno ne dà.
Questo è un
aspetto estremamente importante, secondo me, perché ci
dice che conoscere significa ricostruire gli interessi, acquisire gli
interessi. Non c’è una attività di conoscenza, per
un’assemblea politica, che non comporti anche un contraddittorio con le parti
sociali. L’obiettivo non è tanto conoscere la realtà quantitativa, numerica,
delle cose (il numero è sempre idiota, diceva Flaubert), ma di scoprire che cosa le parti sociali dicono attorno ai fatti ed ai dati.
Questo significa in fondo rappresentare, e rappresentare è l’altro senso di
marcia del comunicare: non il comunicare un po’ onanistico della politica,
attraverso portaborse che trasmetto alla stampa la notizia che il consigliere
Taldeitali ha presentato una interpellanza o un
progetto di legge – notizia di cui a nessuno importa qualcosa - ma il
comunicare “in senso ascendente”, per così dire, che serve a capire che cosa la
società vuole dai propri rappresentanti e come ne apprezza l’attività. Per cui
valutare è sì conoscere, ma valutare è anche
rappresentare.
A me pare che
questo lato rimanga sempre un po’ troppo in ombra quando
si affronta il tema della valutazione delle leggi. La crisi della
rappresentanza è il fattore critico che connota la crisi in cui versano le assemblee
rappresentative. La crisi della rappresentanza parlamentare non nasce
dall’elezione diretta del Sindaco o del Presidente della Giunta regionale, ma è
un fenomeno su cui si è sviluppata una letteratura più estesa forse della
stessa letteratura sulla rappresentanza: la crisi del parlamentarismo è un
fortunato genere letterario sorto alla fine dell’800, cioè
dopo che il parlamentarismo aveva goduto di solo qualche breve decennio di auge.
Allora la riflessione non può rimanere legata al contingente: l’introduzione
dell’elezione diretta degli esecutivi non è la causa, ma semmai l’effetto della
crisi della rappresentanza parlamentare. Riuscire a fare leggi sapendo cosa
pensa e vuole la società di quelle leggi e della attuazione
delle leggi precedenti è un modo per cercare di uscire dalla crisi.
Questo,
secondo me, è il vero problema: su di esso non può
esserci una contrapposizione nella politica o tra il politico e il “tecnico”,
ma solo la contrapposizione tra una
politica stolta ed una politica fornita della consapevolezza di sé. E purtroppo
noi ci troviamo di fronte ad assemblee elettive più propense alla politica stolta
che alla politica “politica”, tant’è vero che sono rimaste
invischiate per cinque anni nella questione di come difendere competenze che
non hanno mai esercitato. Quando mai i Consigli hanno
controllato
I Consigli
regionali hanno dimostrato invece, in occasione della scrittura degli statuti,
di avere paura della rappresentanza, o meglio, dei rappresentati. Quando hanno
cercato di aggirare la dura regola del “simul-simul”, pur mantenendo un
simulacro di elezione diretta del Presidente (rispetto
alla quale tutti o quasi erano contrari), a spingerli è stata proprio la paura di dover spiegare agli elettori perché
mai, decidendo di praticare la strada più che legittima dell’elezione
indiretta, li volevano espropriare della scelta del Presidente della Giunta
regionale. Quale fosse il rischio che gli elettori
reagissero a male parole alla scelta dell’elezione consiliare del Presidente lo
hanno dimostrato le vicende del referendum
sulla “legge statutaria” svoltosi in Friuli-Venezia Giulia: perciò, temendo
un’analoga sollevazione dei loro rappresentati, i rappresentanti si sono
rassegnati a “scegliere” di far eleggere direttamente da loro il Presidente. Solo
a questo nodo hanno pensato per cinque anni, e ne sarebbero passati anche di
più se
Terzo quesito:
“Passando a considerare l’uso di concreti
strumenti legislativi, quali difficoltà può incontrare sul suo cammino
l’approvazione di una “clausola valutativa”? Come si possono
prevenire tali difficoltà?” Qui forse è
necessario l’apporto di uno psicologo più che di un giurista. Ad ogni modo, le difficoltà
di approvare clausole valutative possono risiedere nell’introdurle, nel
formularle o non gestirle? Mi concentrerò per il momento sul primo profilo: le difficoltà
di approvare le clausole valutative si insinuano – è
supponibile – nel rapporto con il politico, che può sospettare che la clausola
valutativa sia un tentativo tecnocratico di restringere gli spazi della
politica, un tentativo della consorteria burocratica dei funzionari consiliari
di limitare la sovrana volontà del rappresentante del popolo. Queste sono
patologie che altri, non il giurista, dovrebbe cercare
di curare, perché se si accetta l’idea che le clausole valutative non sono un
orpello per abbellire le leggi, e neppure una sottile strategia per rafforzare
il potere dei tecnici, ma una delle più convincenti strategie attraverso le
quali i Consigli, come corpi politici e
rappresentativi, possono cercare di
estendere la propria capacità di conoscere la realtà sociale e l’impatto delle loro leggi su di essa, ecco che il problema si
dissolve. Le clausole valutative servono infatti ad
allargare la visione che il Consiglio ed i Consiglieri hanno della realtà
sociale. Io mi sono sempre chiesto come si possa immaginare di svolgere una
funzione - professionale e retribuita, tra l’altro - in nome dell’interesse
pubblico, avendo di questo una nozione così limitata, ed una visione estremamente ristretta delle politiche pubbliche. Il Consiglio
regionale fa le leggi, è vero: ma della politica pubblica che la legge vuole promuovere
“vede” solo un breve segmento. Inizia ad occuparsene quando
riceve la proposta della Giunta e svolge il suo compito nel procedimento
legislativo, prima in Commissione e poi in Aula, attraverso le tradizionali tre
letture. Dopodiché torna a perdere la visione della politica pubblica, nulla sa
– sa in modo organizzato e non attraverso contatti
sporadici e parziali - di ciò che accade nel mondo reale a seguito della sua legge se non ciò che graziosamente
l’Assessore ha piacere di comunicare di tanto in tanto; salvo poi dover
ritornare ad occuparsene di sghimbescio l’anno dopo, in occasione del
rifinanziamento della legge nell’ambito della sessione di bilancio. Ed ecco che, dopo qualche anno, sarà forse di nuovo
Per rimediare
a questa condizione, bisogna evidentemente agire sulle procedure: ma questo
riguarda il quarto quesito. Va però evitato un grandissimo rischio, che queste procedure
e le clausole valutative diventino una moda, qualcosa da gestire in stile
burocratico, l’occasione per creare l’ennesimo ufficio nell’ambito dei Consigli
regionali, con viva gratitudine da parte dei contribuenti; è necessario evitare
che ogni legge esca munita di una parvenza di clausola valutativa, anche le
leggi che non avranno alcun impatto significativo sulla
società (chi mai accetterebbe del resto di proporre, discutere e approvare
leggi che già in partenza non sono destinate ad avere un impatto abbastanza
importante sulla realtà? Non viviamo forse nel mondo della politica –
comunicazione?). Le clausole valutative diverrebbero un gioco di società che
occupa i tecnici del Consiglio e quelli della Giunta, lasciando perfettamente
indifferenti i politici della Giunta e quelli del Consiglio: anzi, loro adesso
le vorrebbero finalmente, essendo assodato che non servono a nulla se non
all’immagine. Questo è sì un rischio assolutamente serio.
Quarto
quesito: “Attraverso quali meccanismi i
risultati della valutazione, espressamente richiesta in una clausola
valutativa, possono entrare in circolo all’interno del processo legislativo?”
Direi che ci sono alcuni obiettivi da raggiungere. Primo, allentare la diffidenza dei politici che ragionano, come il
Consigliere dell'Emilia Romagna citato prima, sulla base del “primato della
politica”, quasi che questa possa essere indipendente dai processi cognitivi e partecipativi.
Non si tratta soltanto di superare le diffidenze ad inserire le clausole
valutative nel testo delle leggi, ma anche di evitare – come ho appena sottolineato – che le clausole siano inserite soltanto come
abbellimento, senza alcuna convinzione circa la loro utilità politica. Secondo obiettivo, bisogna impedire che la “valutazione” comporti ingenti spese per le strutture: una spesa ingente
avrebbe il doppio effetto di giustificare l’opposizione di quanti hanno a cuore
– almeno a parole – la spesa pubblica e di attrarre invece la golosa attenzione
di chi è in perenne caccia di risorse con cui sfamare il proprio entourage. Terzo obiettivo, diminuire la
dipendenza del Consiglio dalla Giunta regionale. Sono apparentemente obiettivi
inconciliabili, ma forse non è così.
Vorrei
prendere le mosse da questo terzo obiettivo perché, da come sono spesso
formulate le clausole valutative, mi sembra emergere l'idea che debba sempre
gravare sull’esecutivo l’onere di produrre i dati ed i fatti; anche dove sia
prevista una forma di collaborazione con gli uffici del Consiglio, è sempre
dalla Giunta che arriva l'input. Questo ovviamente mi preoccupa un po', perché la
conseguenza è abbastanza scontata. Il Consiglio e i suoi uffici restano alla
mercè dei dati loro presentati e non hanno molte possibilità di uscire dal
ruolo passivo che si vorrebbe superare: salvo non pensare di ispessire
l’apparato amministrativo del Consiglio sino a raggiungere livelli di
competenza paragonabili a quello dell’organizzazione giuntale, prospettiva che,
in quanto contribuente, riterrei diabolica.
Forse non
bisogna iniziare dal lato tecnico, ma da quello
politico. Se i “fatti” non sono separabili dagli interessi
che li rappresentano, forse non è tanto sull’apparato dei funzionari consiliari
che si devono puntare i riflettori quanto sul ruolo del politico. Direi che una soluzione abbastanza interessante – una delle
poche innovazioni contenute nei nuovi Statuti regionali, forse fin troppo innovativa
e intelligente per essere credibile - la si può trovare delineata nello Statuto
dell'Emilia Romagna. Lo Statuto dell'Emilia-Romagna, che assieme a quello della
Toscana, è l'unico che manifesta un vero interesse per queste cose, delinea un’ipotesi che, secondo me, potrebbe essere seguita
e rafforzata, cioè quella di personalizzare le leggi legandole al relatore in
aula. Forse sforzo un po’ il testo, vado al di là di
ciò che esso effettivamente preveda, m’immagino sviluppi che non sono affatto
preannunciati: ma sono sviluppi possibili e “virtuosi”. Si sa, le norme degli
Statuti non vanno prese troppo sul serio, perché hanno una debole funzione
normativa: non perché contenute nello Statuto, ma solo perché i nostri politici
– già l’ho detto all’inizio - non hanno affatto la
cultura dello Stato di diritto, non amano per nulla vincolare se stessi a
procedure precise e imporsi obblighi inderogabili. Gli Statuti regionali al
massimo aprono delle possibilità, ma noi dobbiamo ragionare nell’ipotesi che
queste possibilità siano semi destinati ad attecchire
e che vi sia qualcuno che capisca il significato (egoistico, anzitutto) che lo
sviluppo di questa pianta può avere per il rafforzamento del Consiglio
regionale e del ruolo dei politici che lo abitano. E
la forza del Consiglio regionale, come corpo politico, è data proprio dalla
procedura e dal vincolo che essa esercita sugli attori politici.
Ragioniamo
quindi su come potrebbe svilupparsi il seme gettato dallo Statuto
dell’Emilia-Romagna. Se effettivamente il Consiglio regionale, quando riceve la
notizia dell’iniziativa legislativa o il progetto elaborato dalla Giunta (sono
aspetti che vanno attentamente considerati e normati), nomina già il consigliere
relatore (e forse, almeno in certi casi, anche un relatore di minoranza) e
questi inizia a seguire tutto l'arco di formazione del progetto, partecipa alle consultazione, presenta la relazione in Commissione e
poi in Aula, probabilmente riesce ad assicurarsi un apporto po' più consapevole
e meno dipendente da dati unilaterali comunicati dalla Giunta o dall'Assessore;
se poi il consigliere (lui o un altro che gli subentri, la questione non è poi
decisiva) resta incaricato di seguire la valutazione della legge, ed è quindi la
persona chiamata a gestire la clausola valutativa, il Consiglio otterrebbe un
proprio direttore d’orchestra in grado di svolgere quell’attività che, a mio
modo di vedere, è indispensabile nel processo di valutazione, cioè aprire il
Consiglio agli interessi, portare gli interessi organizzati dentro al Consiglio,
fare del Consiglio non l’organo che promuove audizioni a cui nessuno va volentieri,
se non è disoccupato, ma una sponda importante del processo decisionale, a cui
poter riferire il proprio giudizio su come la legge abbia o meno funzionato, sui
risultati che si sono visti, sui correttivi che sarebbero necessari. La legge
non sarebbe più nota con il solo nome dell’Assessore che l’ha voluta, ma anche
il Consiglio potrebbe apporci una firma personale, quella del consigliere che
l’ha seguita e la segue.
Anche il nostro
consigliere emiliano dovrebbe accorgersi che questo significa fare politica, fare
politica sfruttando anche le risorse della valutazione e interpretando a dovere
il proprio ruolo di rappresentante e di legislatore. In questo modo risulterebbe chiaro che la valutazione delle leggi non si
lega esclusivamente all’attività di un funzionario attivo e intelligente, che si
sforza di produrre dati e a fornire supporti conoscitivi, spesso inascoltato;
ma la si lega al politico, offrendogli la possibilità di fare il suo mestiere,
sempre che lo voglia fare, con le conoscenze e gli strumenti che gli sono
indispensabili. Sono fermamente convinto – ma so di
non essere il solo - che la valutazione non possa funzionare se non si persuade
il politico che questo progetto ha un senso, una utilità per il suo mestiere,
per la sua funzione, per i suoi obiettivi. La valutazione deve divenire una
procedura che si fonde con la procedura decisionale
del Consiglio ed espande il ruolo dei servizi tecnici nella stessa misura in
cui espande il ruolo del politico. I due profili sono inseparabili e devono
essere costruiti e disciplinati assieme.
Chiusa, con
poca gloria, la stagione degli Statuti, direi che si
potrebbe mettere mano a strumenti meno carichi di evocazioni simboliche, quale la
legge sulla normazione, che è prevista dallo Statuto della Toscana, i regolarmente
consiliari, le leggi sulla programmazione e la contabilità. Sarebbe bene che
questi atti dicessero qualcosa in merito alla formazione delle schede tecniche
e delle relazioni ai progetti di legge, perché già là si possono introdurre le
premesse della valutazione, obbligando il presentatore, e in primo luogo
Ovviamente non
tutte le leggi devono e possono essere corredate da una clausola di
valutazione. Se la valutazione implica effettivamente una
qualche acquisizione ed elaborazione dei dati, vi deve essere una copertura
della spesa che deve essere prevista nella legge. A mi
avviso, bene sarebbe che la copertura sia disposta dalla stessa legge, come
parte (che forse potrebbe essere fissata, in un’eventuale disciplina generale,
in termini di percentuale dello stanziamento complessivo) della spesa
autorizzata dalla legge stessa: è insomma un costo della legge, che non deve
diventare un costo del Consiglio imputato al suo bilancio. Si sa come sia difficile destinate le risorse del bilancio del
Consiglio a scopi istituzionali, sottraendoli ai meccanismi spartitori. In
Consigli regionali che sono vergognosamente colpevoli di non aver saputo
resistere alla pressione devastante dei “gruppi monocellulari”, ed anzi
escogitano tutti i meccanismi per promuoverli e sostenerli, l’attività istituzionale di valutazione va protetta
e collegata alla singola legge che di essa sia degna.
Potrebbe essere utile – nel senso di innescare un interesse “virtuoso” del
politico – prevedere che lo stanziamento per la valutazione sia amministrato
dal o dai relatori della legge, suddividendo la spesa tra le attività
preparatorie della legge e quelle di valutazione degli effetti. Ecco che forse
il politico scoprirebbe un nuovo interesse per la valutazione!
Purtroppo in
Italia non abbiamo una cultura seria della copertura finanziaria: è parte
dell’incultura istituzionale diffusa, che non ci fa apprezzare gli autovincoli.
Le conseguenze sono a tutti note e si chiamano debito
pubblico, Quando qualche anno fa il parlamento britannico approvò lo Human Rights
Act, cioè la legge che disciplinava l’applicazione nel Regno unito della
Convenzione sui diritti dell’uomo, provvide a fare ciò che nessun legislatore
italiano avrebbe mai pensato di fare: coprire le spese che sarebbero state
necessarie per preparare giudici ed uffici all’applicazione delle legge stessa.
Si è mai vista una legge italiana che si pone questi problemi? E' mai successo
che quando il nostro legislatore introduce una nuova norma penale si sia posto
il problema di quanto costi la gestione processuale della sua applicazione? No,
ma poi non si vergogna di lamentarsi che la giustizia non funziona, quando per
caso sfiora lui o i suoi adepti.
Allora la previsione
della copertura finanziaria delle clausole valutative da inserire nelle
rarissime leggi che lo meritano, che sono destinate ad avere un impatto apprezzabile
sulla società - impatto che in qualche modo (che il regolamento del Consiglio
regionale dovrebbe avere disciplinato) è già prefigurato e reso quantificabile
dalla relazione alla legge – è una componente
fondamentale del metodo della valutazione. Perché di metodo
deve trattarsi, non di un ufficio, di una struttura burocratica, in perenne
bilico tra chi la vorrebbe allargare perché altrimenti sarebbe continuamente in
difetto rispetto ai compiti e chi la vorrebbe sopprimere perché per definizione
incapace di affrontare con sufficiente competenza gli infiniti oggetti che la
legislazione regionale può trovarsi ad affrontare. Sono convinto che la
valutazione delle leggi non deve comportare istituzione di uffici
appositi, ma soprattutto capacità dei politici e dei funzionari di modellare le
procedure di valutazione di caso in caso, secondo le caratteristiche della
politica pubblica da monitorare, acquisendo le competenze laddove esse
esistano: mai appaltando la valutazione all’esterno del Consiglio regionale,
mai neppure chiudendola all’interno delle strutture burocratiche di esso; e
comunque mai facendone un fatto puramente tecnico, scisso dai compiti della
rappresentanza politica. Ciò non significa che il Consiglio regionale non debba potenziare le proprie strutture tecniche, anzi:
servono persone che sappiano analizzare i bilanci, valutare la fattibilità dei
programmi, svolgere attività di monitoraggio ecc. Sperando che i Consigli – e
gli uomini che li abitano – capiscano che servono tecnici capaci e non
portaborse fedeli, queste strutture vanno costruite soprattutto come
interfaccia tra l’istituzione e le professionalità che di volta in volta devono
essere acquisite sul mercato. Credo infatti che la
valutazione sia un elemento progettuale, non un’attività prefigurabile una
volta per tutte. Per questo è bene che sia la singola legge a sbozzare il
progetto di sua valutazione e a quantificarne il costo: le strutture tecniche
del Consiglio di questo devono occuparsi, di costruire un progetto valido e di
controllare che esso sia correttamente svolto utilizzando le risorse messe a
disposizione per acquisire le competenze specifiche necessarie; e, prima
ancora, di mettere a punto una metodologia che
inserisca la valutazione come un elemento esatto e necessario del procedimento
decisionale.
C'è una
postilla all'ultima domanda: "Quali
nuove regole sono necessarie per tutelare la circolazione di tali risultati?".
Questo ultimo quesito mi ha fatto sobbalzare, perché non capisco cosa ci sia da
tutelare nei risultati della valutazione: ero rimasto alla Regione come casa di
vetro! Così me l’hanno raccontata trent’anni fa, quando ho iniziato ad
occuparmi delle Regioni, e così è detto e ripetuto dai nuovi Statuti. Abbiamo
scherzato? Se non sono trasparenti, vuol dire che le
pareti del palazzo sono sporche: allora le norme da introdurre devono
riguardare la pulizia dei vetri, non la tutela e la limitazione della
circolazione dei dati. Quali dati dovrebbero essere riservati? Ci sono informazioni
relative all'attuazione di una legge che non devono
essere diffuse? Se ci sono, bisogna comunicarle urgentemente
alla Procura della Repubblica. Tutto all’opposto, ai risultati del procedimento
di valutazione deve essere data la dovuta pubblicità,
anche se sono negativi. Perché di una cosa i signori
consiglieri devono essere consapevoli, che se una legge regionale ha fallito i
suoi obiettivi gli unici a non saperlo sono proprio loro. Rendere pubblici i dati della valutazione significa fare
finalmente una comunicazione politica seria, onesta: e ai cittadini forse sarà
di consolazione sapere che anche i consiglieri regionali sono consapevoli dei
risultati di quello che fanno! La riservatezza sull’azione fa forse il gioco
dell’esecutivo, mai quello del Consiglio: la pubblicità è
proprio l’arma più appuntita di cui disponga un’assemblea
rappresentativa. Per favore, dunque, quest’ultima domanda stralciamola!
Brevissima
conclusione di poche parole. La stagione degli statuti a me sembra destinata a
chiudersi con un bilancio piuttosto deludente. Ma non è finita, perché adesso
c'è la fase delicatissima dei regolamenti consiliari e delle leggi di attuazione. In questa fase si può fare
ancora molto, anzi, si può fare tutto. Certo che se gli statuti avessero
posto qualche elemento di autovincolo, avessero imposto
ai regolamenti di disciplinare determinate procedure o avessero direttamente
condizionato l’ammissibilità dei disegni di legge o delle leggi di
rifinanziamento alla presentazione di determinate documentazioni, il compito
sarebbe oggi diverso e la scrittura delle norme nuove sarebbe meno difficile:
ma capisco che gli statuti sono considerati troppo aerei per occuparsi di
queste piccole cose. I regolamenti consiliari e le leggi sulla normazione diventano però un’occasione che non si può più sprecare.
Grazie.