Roberto Bin
Se esistesse un salone delle parole, come esiste quello dei libri o delle auto, la parola ‘sussidiarietà’ avrebbe uno stand tra i più frequentati e farebbe morire d’invidia un’altra parola, che ha perso molte delle sue passate enormi fortune: ‘federalismo’. Spesso le due parole sono state usate assieme, come se si integrassero, se non addirittura sovrapponessero. È difficile dire se così sia, dato che si tratta di due termini molto evocativi, ma di assai difficile definizione nel linguaggio tecnico-giuridico: e forse oggi, nell’uso che se ne sta facendo nel linguaggio politico e legislativo, i due termini stanno ormai assumendo addirittura ruoli conflittuali, concorrenziali. Un sintomo di questa mutazione lo offrono i lavori parlamentari sulla riforma della Costituzione, iniziati nel segno del federalismo: ma in questi giorni la Camera ha accantonato il problema di definire o meno l’ordinamento della Repubblica come federale (l’on. D’Onofrio, assurto ormai al ruolo del saggio tra i “padri costituenti”, ha giustamente osservato che conveniva aspettare di scrivere l’intera “forma di stato”, per poi valutare se essa potesse o meno dirsi ‘federale’). Ma su questo ritornerò poi.
Sulla sussidiarietà c’è ormai, non solo una vasta pubblicistica, ma una non trascurabile produzione normativa. La Commissione bicamerale ne ha fatto il perno del sistema delle autonomie; la Camera dei deputati ne ha discusso a lungo, esaminando centinaia di emendamenti sul punto e riformando il testo uscito dalla Bicamerale. Su un piano diverso, la legge 59 (la “Bassanini” I, in gergo) ne ha fatto il principale motivo ispiratore del vasto e lungo processo di devoluzione dei poteri dal centro alla periferia: l’ha indicata come il principio che deve ispirare i decreti legislativi delegati, le conseguenti leggi regionali di conferimento delle funzioni agli enti locali, i successivi decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di trasferimento delle risorse alle regione e agli enti locali e – se saranno necessari – gli ulteriori atti regionali di ulteriore trasferimento delle risorse agli enti locali. Questa è quel che si chiama la “sussidiarietà verticale”, perché accanto ad essa deve operare un processo parallelo di riduzione del peso del “pubblico”, nel suo complesso, a favore della società, ossia la “sussidiarietà orizzontale” di cui ci ha parlato così bene il prof. Pastori.
L’affresco è seducente, ma non troppo promettente. Quando il legislatore scrive un principio in una legge, ci si dovrebbe aspettare che questo principio sia destinato ad operare in termini normativi: certo non nei termini diretti e immediati in cui operano normalmente le regole che creano diritti, doveri, oneri ecc., ma comunque con qualche ricaduta di tipo normativo. Ciò vale anche per i princìpi, spesso generalissimi, enunciati nelle costituzioni, come il principio di eguaglianza, la laicità dello stato o il diritto alla salute. Sono princìpi che trovano ogni giorno applicazione nelle aule giudiziarie. Ma tutto questo non vale per la sussidiarietà, e in particolare per la sussidiarietà “verticale”.
In nessuno dei contesti normativi in cui il principio sussidiarietà è stato inserito, esso è riuscito a trovare modo di essere applicato, sia pure indirettamente, dai giudici. Così è stato sinora in Germania, come ieri ci ha ben illustrato il prof. Götz: nella costituzione tedesca proprio i Länder avevano chiesto ed ottenuto, in fase di revisione del Grundgesetz per l’adeguamento al Trattato di Maastricht, l’inserimento di questo principio come parte di un sostanzioso pacchetto di garanzie del proprio ruolo; ma nessun giudice ha ritenuto che la sussidiarietà possa essere uno strumento giuridico di cui avvalersi. Così è stato sinora nell’Unione europea: qui, in occasione del recente Trattato di Amsterdam, che ha modificato in molti punti il Trattato di Maastricht, si è sentita la necessità di dedicare un lungo protocollo alla spiegazione di che cosa sia il principio di sussidiarietà e come possa operare quale criterio giuridico incidente sulle procedure decisionali, sulla scelta degli strumenti normativi ecc. È interessante questo protocollo perché, nel tentativo di tradurre la sussidiarietà in qualcosa di giuridicamente palpabile, si pratica l’unica via che a me sembra produttiva: quella di definire, non tanto la “sostanza” della sussidiarietà, quanto la sua “forma”, ossia le procedure, gli atti, le competenze ecc. Leggendo questo protocollo mi vengono in mente certi passaggi della giurisprudenza della Corte costituzionale in merito al c.d. “interesse nazionale”: ma di questo parlerà subito dopo Leopoldo Coen.
Il problema è che la sussidiarietà è un criterio di politica legislativa: ossia è un termine del linguaggio politico che serve a definire ciò che il legislatore – cioè il politico – intende o è (politicamente) tenuto a fare. Vale nelle assemblee legislative, non in quelle giudiziarie. Nel linguaggio giuridico esso funziona solo da annuncio: annuncia che il criterio giuridico di assegnazione delle funzioni – quello basato sulla ripartizione preventiva e generale, operata tracciando confini per materie, livelli, territorio, controllati da una guardia confinaria che è pur sempre un giudice, incaricato di risolvere i contenziosi confinari stabilendo, in base alla mappa astratta (cioè normativa) delle competenze se l’oggetto conteso stia da una parte o dall’altra del confine – che appunto questo criterio è superato: e che al suo posto si vuole introdurre un criterio politico di ripartizione, basato su giudizi di opportunità: tendenzialmente le competenze slittano verso il basso, ma questo principio deve essere bilanciato con la considerazione dell’efficienza. La sussidiarietà perciò promette un certo movimento nella disciplina delle competenze, ma per consentire questo movimento deve affievolire le rigidità del sistema di ripartizione delle funzioni, e quindi anche le garanzie giuridiche del ruolo e delle attribuzioni di ogni livello di governo. In termini epocali, si potrebbe dire che la sussidiarietà segna un’inversione di tendenza nelle costituzioni moderne, nel senso di riportare ad una disciplina “flessibile” ciò che era stato proprio il primo nucleo “storico” della costituzione “rigida”: la ripartizione federale delle competenze. Come è proprio delle costituzioni flessibili, la sussidiarietà muta il senso delle garanzie costituzionali: le garanzie non sono più, o non tanto, ancorate in regole giuridiche che tracciano una ripartizione fissa delle attribuzioni, controllabili dal giudice, ma in procedure di codecisione. Le costituzioni flessibili classiche sintetizzavano questa garanzia procedurale nella formula “il Re in Parlamento”; le costituzioni “sussidiarie” di oggi mutano i protagonisti, ma non il concetto: è il consenso dei diversi livelli di governo nell’àmbito del procedimento decisionale la garanzia costituzionale della sussidiarietà. È quanto ci insegnano l’esperienza tedesca e quella comunitaria.
E in Italia? In Italia della sussidiarietà – come si diceva - si stanno occupando contemporaneamente due tavoli diversi: quello della riforma costituzionale e quello dell’attuazione della “legge Bassanini”. Alla luce di quanto si è premesso, ci si dovrebbe attendere che i due tavoli si suddividano i compiti in questo modo: che la riforma costituzionale si preoccupi di scrivere le nuove regole procedurali, cioè le garanzie costituzionali della sussidiarietà intesa come processo decisionale consensuale; mentre, operando sul piano della legislazione ordinaria, l’attuazione della legge Bassanini si preoccupi della immediata ridistribuzione delle funzioni pubbliche (oltre che del loro snellimento e riduzione), ossia compia atti di legislazione ispirati al criterio politico-legislativo della sussidiarietà. Non sembra però che le cose si svolgano così: piuttosto nel senso contrario.
La Camera dei deputati ha impiegato sedute intere a discutere il modo migliore di formulare il principio di sussidiarietà: attività del tutto inutile, a mio modo di vedere, perché la sua attenzione avrebbe dovuto essere concentrata sulle procedure decisionali, e quindi, in primo luogo, sulla Camera di rappresentanza territoriale. Fissata la sede di rappresentanza degli interessi territoriali, disegnato il procedimento legislativo bicamerale, indicate le leggi che devono essere approvate con il procedimento rinforzato, cioè bicamerale, della sussidiarietà, restava da dire soltanto che il principio di sussidiarietà, appunto, doveva essere il criterio guida per il legislatore ordinario: ma non sarebbe neppure stato necessario dirlo, perché ad attuare la sussidiarietà ci avrebbe pensato il procedimento legislativo stesso. Siccome però il nostro nuovo costituente ha accantonato sin dall’inizio qualsiasi proposta che togliesse al Senato il ruolo di Camera politica, per conferirgli un ruolo di rappresentanza territoriale, e si è gingillato nelle più fantasiose ed impudiche esercitazioni di trasformismo istituzionale per far finta di inserire il principio di rappresentanza territoriale in una Camera del tutto asservita alle segreteria dei partiti nazionali, ecco la necessità di aggiungere impudicizia a impudicizia, ridicolo a ridicolo, esibendosi in fantasiosi esercizi di stile (la citazione di Queneau mi sembra appropriata) attorno al concetto di sussidiarietà, per estrinsecarlo in termini più pregnanti. Ma pregni di che? Pregni di quella carica antifederalistica che la parola ‘sussidiarietà’ sta sempre più assumendo nel lessico italiano.
Il prof. Götz ci spiegava ieri che in Germania i Länder hanno assunto la sussidiarietà come chiave della difesa del proprio ruolo contro il pericolo che la nascita dell’Unione europea giustificasse un espansione delle funzioni degli organi comunitari e del Bund a loro danno: da qui la richiesta di inserire la sussidiarietà prima nel Trattato di Maastricht, poi nella novella del Grundgesetz. Nel lessico tedesco, quindi, sussidiarietà si coniuga con federalismo: è il Trattato dell’Unione europea, il primo livello, a garantire i Länder, il terzo livello, nei confronti del Bund, secondo livello. In Italia la sussidiarietà presenta la stessa struttura triadica del sandwich, solo che il dibattito è sceso di un piano: la sussidiarietà è stata impiegata dalle rappresentanza nazionali degli enti locali (ANCI, UPI ecc.) per chiedere allo Stato protezione e garanzie contro le Regioni. Sussidiarietà, quindi, nel nostro lessico “vigente” si oppone a federalismo, perché qualsiasi versione di federalismo che si voglia predicare vede comunque le Regioni come soggetto co-protagonista, accanto allo Stato federale. Il percorso che la Camera ha fatto dal federalismo alla sussidiarietà è stato quindi un percorso dall’esaltazione del ruolo delle Regioni all’esaltazione del ruolo dei Comuni e degli altri enti locali. Le tracce di questo percorso sono evidenti e, come sempre, spudorate: si può giustificare in nome della sussidiarietà – di qualsiasi concetto di sussidiarietà che si volesse accettare - il fatto che la Camera abbia riformato l’art. 56 del testo di revisione costituzionale proposto dalla Bicamerale nel senso che solo “le leggi costituzionali, la legge statale o lo statuto regionale” (ma non la legge dell’ente più vicino ai cittadini, cioè la Regione!) possano assegnare ad un ente diverso dal Comune le funzioni amministrative – tutte le funzioni amministrative! – che al Comune spettano? Oppure che sia solo la legge dello Stato ad individuare le aree metropolitane, o – cosa ancora più ridicola – a stabilire la dimensione demografica minima dei Comuni – di tutti i Comuni della nostra lunga Penisola! - al di sotto della quale le funzioni loro attribuite devono essere esercitate mediante forme associative? Nello stesso momento in cui i nostri neo-costituenti invocano la sussidiarietà, la negano nel modo più plateale!
Nel frattempo la legislazione ordinaria ha intrapreso un’opera di devoluzione delle funzioni amministrative che ci è stata presentata come un’anticipazione del federalismo “a costituzione vigente”. Operando con i soli strumenti della legislazione ordinaria, senza attendere la tanto conclamata riforma della Costituzione, si voleva anticipare il “federalismo” (che allora andava ancora di moda) attraverso un radicale trasferimento di funzioni dal centro alla periferia. Gli strumenti di cui il Governo si è dotato sono eccezionali: una delega legislativa, concessagli dal Parlamento con la legge 59/1997, la cui ampiezza non ha precedenti. Il Governo è stato delegato a trasferire alle regioni ordinarie e agli enti locali tutte le funzioni amministrative di cui era titolare, salvo quelle appositamente elencate dalla legge di delega: le funzioni escluse erano soltanto quelle tipiche di uno stato federale. Parallelamente, il Governo è stato delegato a por mano ad una radicale riforma delle strutture ministeriali, in modo da chiudere quegli uffici e quegli enti le cui funzioni venivano trasferite in periferia, conferendo alle regioni e agli enti locali le risorse umane, materiali e finanziarie relative; ed infine è stato delegato a ridisciplinare alcuni settori chiave, quali il commercio, gli ausili all’industria, il lavoro nella amministrazioni pubbliche, l’organizzazione scolastica.
La sussidiarietà è stata assunta quale criterio di guida per la distribuzione delle funzioni amministrative tra i diversi livelli di governo, con una duplice funzione “normativa”: è uno dei “princìpi e criteri direttivi” che devono guidare il Governo nell’attuazione della delega legislativa, ed è uno dei “princìpi fondamentali della materia” che devono guidare le regioni nella legislazione d’attuazione. Un ruolo molto acconcio alla sussidiarietà: un principio di difficile operatività giuridica, ma utile come programma politico che il legislatore delegante detta a quello delegato, il legislatore statale a quello regionale. Ma se noi oggi, a distanza di 14 mesi dalla legge di delega, ormai emanati in forza di essa più di venti decreti legislativi, dovessimo trarre un primo bilancio in termini di sussidiarietà, ci troveremmo in un certo imbarazzo.
Nel complesso non si può che dare una valutazione positiva. In particolare, il decreto 112 – che conta ben 164 articoli – rappresenta un trasferimento di funzioni che non ha precedenti, almeno per dimensioni quantitative. Non è possibile entrare qui nei particolari: merita soffermarsi piuttosto su alcune caratteristiche, ovviamente non tutte positive.
Il metodo, anzitutto. Il Ministro Bassanini è riuscito a condurre un’operazione su cui pochi sarebbero stati disposti a scommettere: governare l’attuazione della 59 attuandola – a parte le anticipazioni di cui si è detto – con un unico decreto delegato. L’obiettivo era importante, perché se l’attuazione fosse stata “appaltata” alle singole strutture ministeriali, le resistenze degli apparati burocratici ad un massiccio trasferimento delle “loro” attribuzioni sarebbero state insuperabili. Molti tavoli di lavoro si erano costituiti, settore per settore, tra funzionari ministeriali e “colleghi” regionali: il risultato che si delineava era una preoccupante polverizzazione della delega e la perdita di una più lungimirante guida politica. Questo pericolo è stato sventato dall’accorta tattica seguita dal Ministro che, quando ormai il termine della delega stava per scadere, è uscito con una bozza di decreto unico, predisposta da équipe di studiosi appositamente istituite: essa, e non i lavori lungamente condotti nei “tavoli tecnici”, è divenuta la base della discussione, dentro il Governo e tra il Governo e le regioni. Alcuni prezzi sono stati indubbiamente pagati: vi sono settori, come lo spettacolo e i beni culturali, ma anche l’ambiente, in cui il trasferimento è praticamente inesistente. A questo risultato, certo non soddisfacente, si è giunti anche perché è stata disattesa una fase fondamentale del percorso tracciato dalla legge 59. Essa prevedeva che in alcuni settori particolarmente delicati - protezione civile, difesa del suolo, tutela dell'ambiente e della salute, lo spettacolo, la ricerca, l’energia - i “compiti di rilievo nazionale” fossero individuati prima della predisposizione degli schemi di decreti legislativi, attraverso un’intesa da raggiungersi in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano (quella riformata con il decreto 281/1997): questa fase è stata “saltata” e le regioni, per non bloccare l’intero processo di attuazione della delega, hanno accettato di discutere lo schema di decreto senza prima concordare le funzioni che dovevano restare in capo allo Stato.
Apprezzabile, proprio sotto il profilo della sussidiarietà, è la “processualità” disegnata dalla legge 59. Uno dei suoi aspetti più interessanti è che la legge di delega disegna la sua attuazione come un processo di cui l’emanazione dei decreti delegati è solo la prima fase. Essa deve essere seguita dalle leggi regionali di conferimento agli enti locali delle funzioni di non esclusivo interesse regionale, e dall’emanazione di una serie di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri rivolti al trasferimento delle risorse umane, materiali e finanziarie rese “libere” dal trasferimento delle funzioni; questi ultimi devono essere a loro volta seguiti da regolamenti governativi di riordino delle strutture amministrative centrali, ormai “alleggerite”; infine disposizioni correttive e integrativa possono essere emanate dal Governo per riassestare il sistema. Il processo ha propri meccanismi di controllo e di garanzia: tutti gli atti dello Stato (salvo i regolamenti di riordino delle strutture ministeriali) sono sottoposti al parere della Conferenza “unificata”: ed è stato segno di notevole saggezza del legislatore far iniziare l’intero processo proprio con la riforma (decreto delegato 281/1977) degli organismi di raccordo tra lo Stato e il sistema delle autonomie (le Conferenze Stato-regioni e Stato-città, e quella, appunto, “unificata” che le somma). Il decreto 112 contiene anzi una norma tanto innovativa da rischiare di essere velleitaria: siccome i d.P.C.M. che riguardano le risorse assumono un ruolo decisivo nel "processo", è riconosciuto alle regioni quasi una specie di potere sostitutivo nei confronti del Governo, nel caso che questi ne ritardi l'emanazione; sono le stesse regioni a proporre lo schema di provvedimento su cui la Conferenza si deve pronunciare! Ma a loro volta le regioni possono essere “sostituite” dal Governo, tramite un decreto delegato, se non emanano nei termini previsti le loro leggi di trasferimento delle funzioni agli enti locali (che non si tratta di uno spauracchio inoffensivo lo ha dimostrato – provocatoriamente, al dire il vero – il decreto legislativo 60/1998 che ha “sostituito” le regioni colpevoli di non aver attuato il decreto delegato in materia di agricoltura, del tutto privo di reali contenuti in termini di conferimento di funzioni alle regioni stesse!).
Come si vede, l’annunciata anticipazione del federalismo a costituzione vigente si è trasformata in un lungo processo costruito anche attorno a innovative garanzie e controlli procedurali: il legislatore ordinario sta cioè disegnando alcune delle “istituzioni della sussidiarietà” che non erano, almeno non erano tutte, nel programma della delega, ma servono a regolare l’esercizio “consensuale” della delega, cioè a garantire la sussidiarietà come processo decisionale cooperativo: ossia, il legislatore ordinario sta facendo, non avendolo in programma, proprio quello che il legislatore costituzionale doveva avere in programma, ma ha rinunciato a fare. Ma, ahimé, non è la stessa cosa, ed ora vedremo perché.
I tempi del “processo” disegnato dalla legge 59 sono stati tatticamente mutati dal legislatore delegato. L’aspetto più negativo è che il decreto delegato 112 non ha assolto ad uno dei suoi compiti fondamentali: cioè sopprimere, trasformare o accorpare le strutture centrali e periferiche interessate dal conferimento di funzioni, ed indicare i criteri di ripartizione tra le regioni, e tra queste e gli enti locali, dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative. È a tutti chiaro che su questo punto si gioca gran parte della partita: la storia patria ci insegna che mai un trasferimento di funzioni sarà effettivo se non si sradicano le strutture burocratiche che le detenevano, perché se no, giorno dopo giorno, le stesse funzioni saranno ricuperate dal centro. Ma il Ministro Bassanini – ben sapendo quanto difficile, se non disperato, sia il tentativo di smantellare le burocrazie ministeriali - ha dovuto piegarsi alla tattica degli Orazi, e non affrontare tutti i nemici in un sol colpo: per cui queste decisioni sono rinviate ai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. Questi si gonfiano di contenuti, dunque, e ciò spiega perché le regioni abbiamo richiesto (e ottenuto) le garanzie di cui si è appena detto.
Ma la tattica ha i suoi limiti. Quando l’ultimo degli Orazi, dopo la lunga ed estenuante corsa, si volse ed affrontò i Curiazi uno ad uno, ebbe la feroce prudenza di ucciderli. Lo stesso non potrà fare il Ministro Bassanini, a causa della costituzione vigente. Nulla pone il complesso sistema di atti normativi, che si sta varando, a riparo della futura legislazione: in ogni collegato alla finanziaria, in ogni leggina di settore, decine di tentativi di ricupero delle perdute attribuzioni saranno perpetrati dalle burocrazie ministeriali. La nostra costituzione non consente di differenziare le fonti normative al fine di mettere le leggi importanti al riparo dall’erosione continua da parte della “legislazione spazzatura”. Su questo duro scoglio rischiano di naufragare tutte le grandi operazioni di delegificazione, semplificazione amministrativa e decentramento delle funzioni: è ancora la storia patria ad insegnarcelo. Qui sì una riforma costituzionale servirebbe: un procedimento legislativo differenziato, cui partecipino le regioni e i governi locali (ecco che ritorna la centralità della questione della seconda Camera!), e attraverso il quale si producano leggi “rinforzate” non derogabili se non con questo procedimento. Ma di tutte le fantasiose idee riformatrici che popolano i lavori del Parlamento “costituente”, proprio questa, alla fine, manca. I Curiazi, perciò, appena addormentati dalla botta inferta dall’Orazio Bassanini, uno dopo l’altro riprenderanno i sensi e, alimentati dalle mille pieghe della legislazione di ogni giorno, ricupereranno tutto ciò che il Ministro pro-tempore ha voluto togliere loro. Nel frattempo il Parlamento costituente starà esibendosi nell’ennesimo esercizio di stile sul tema della sussidiarietà!
Un’ultima nota vorrei dedicare ai lavori dei neo-costituenti. Una riforma così radicale di larga parte della Costituzione, anche se non tocca direttamente la “carta” dei diritti individuali, non può che essere la riscrittura del patto di cittadinanza. Ma che importa ai cittadini della sussidiarietà? Intendo: della sussidiarietà come è intesa dai nostri ri-costituenti, cioè di una formula che serve a spostare quantità imprecisate di potere pubblico da una ad un’altra delle sedi politico-burocratiche di cui è fatta la nostra democrazia. Non voglio chiedere, come spesso sono tentato di fare, quanti siano i Comuni in grado di funzionare come vero centro di intelligenza politico-amministrativa (quanti possono vantarsi di non aver concorso allo scempio edilizio, alla distruzione delle risorse naturali, alla soluzione del problema dello smog e del traffico, alla costruzione di un’efficiente sistema socio-assistenziale ecc.). Vorrei invece chiudere con un interrogativo più semplice e “propositivo”: perché non tradurre la sussidiarietà, anziché in una regola – inefficace – di ridistribuzione del potere, in una regola – efficacissima – di attribuzione di diritti ai cittadini?
Si ritiene – e io sono perfettamente d’accordo - che il Comune sia l’amministrazione più vicina ai cittadini: bene, e allora perché non scrivere in Costituzione – testo “normativo” per eccellenza – che i cittadini hanno diritto – concetto costituzionale per eccellenza – di rivolgersi al loro Comune per qualsiasi pratica amministrativa, quale sia la amministrazione pubblica competente a rilasciarla? Sì, certo, questo non direbbe nulla come criterio di riparto delle funzioni tra i diversi livelli, e quindi lascerebbe probabilmente indifferenti, se non preoccupati, i sindacati degli enti locali (l’ANCI, l’UPI ecc.), interlocutori così ascoltati dai neo-costituenti; ma direbbe tanto in termini di rapporto tra amministrazione e cittadini, porrebbe in capo a questi uno di quei diritti immediatamente azionabili – ricordate la legge 241 (mai troppo amata, infatti, dai sindacati)? – che sono capaci da soli di innescare la trasformazione dell’amministrazione. E che poi siano i “pubblici poteri” a riconfigurare le loro competenze in modo di far fronte all’esercizio di questi diritti, ridisegnino i procedimenti e ripartiscano le funzioni partendo da un punto fermo, il diritto dei cittadini. Allora sì che la sussidiarietà acquisterebbe significato: un significato giuridico, immediatamente “spendibile” davanti ad un giudice; ed un significato costituzionale, politico dunque nel senso più elevato, perché attinente alla posizione degli individui di fronte al potere pubblico. Non è a questo che serve la Costituzione? Eppoi in fondo non sarebbe una così grande novità: è l’innovazione che il decreto “Bassanini” introduce per le imprese, istituendo lo “sportello unico” presso i Comuni. Già, lì in questo modo la sussidiarietà si è fatta senza dirlo; in tante altre parti, invece, si dice senza farla.