QUANDO I SINDACI MARCIARONO SU ROMA

 

Le cronache del 10 novembre 1995 riferiscono che settecento o forse mille sindaci italiani "calano a Roma e strappano più poteri e più soldi" (così intitola la Repubblica di quel giorno). La protesta dei sindaci era indirizzata alla legge finanziaria ed ai preventivati tagli della finanza locale. Ma l'esito dell'incontro con il Presidente del Consiglio sembra aver superato le aspettative: perché, ricuperati i finanziamenti "tagliati", è stato sottoscritto (cito sempre la stessa cronaca) "un accordo politico di grande respiro che in un futuro non lontano potrebbe ridisegnare la mappa dei poteri e delle competenze istituzionali tra Stato e Comuni"; in questa prospettiva si è previsto di istituire per decreto una "conferenza permanente Stato-Città", in cui verranno risolte le controversie e resi più efficaci gli interventi di finanza locale, "saltando" la mediazione delle Regioni.

            Forse si potrebbero non prendere troppo sul serio gli impegni "di grande respiro" assunti da un governo la cui morte è già annunciata, anzi programmata. Tuttavia il "neo-municipalismo" non è certo un fenomeno che nasce con la manifestazione di Roma, ed ha risvolti istituzionali di grande rilievo. Non è un caso che esso si sia manifestato sùbito all'indomani dell'insediamento dei nuovi sindaci, forti della legittimazione derivante dalla elezione diretta. Gli  schieramenti politici contrapposti, che sino al giorno prima si erano contesi duramente municipio per municipio, si sono improvvisamente scoperti in perfetta sintonia nell'inividuare il primo obiettivo politico, comune a tutti, nell'apertura della vertenza con lo Stato. Nessuno può sorprendersene, poiché è una regola di "fisica politica" che tanto più forte è la legittimazione politica di un soggetto, tanto più estesi saranno i poteri decisionali che egli rivendica. I sindaci italiani si sono ritrovati invece con un'investitura politica che nessun' altra autorità pubblica italiana è ancora in grado di eguagliare, ma con un'autonomia decisionale e finanziaria ridottissima. Per cui l'apertura della vertenza era inevitabile.

            Inevitabile è anche che a farne le spese siano le regioni. Sempre la Repubblica distilla il succo del programma concordato a Roma in questa lapidaria previsione: "verranno ridotte le funzioni delle Regioni a vantaggio di quelle dei Comuni e dei ministeri". Che l'opera di riqualificazione della legittimazione politica degli enti rappresentativi sia iniziata con i Comuni e finita con le Regioni ha dato questo come risultato: i Comuni si sono mossi in uno spazio politico libero, e lo hanno occupato, rendendo ora ancora più difficile il rilancio delle Regioni. Ma vi è un altro motivo convergente: come tutte le grandi organizzazioni di interesse, anche il sindacato dei sindaci si muove con un forte orientamento centripeto. E' a Roma che si gioca la partita, è lì che si contratta e si individuano le soluzioni di compromesso: soluzioni che, dopo tutto quello che sono costate, devono essere blindate, non parendo tollerabile una loro applicazione "a macchia di leopardo". Questo schema di ragionamento, che si trova spesso lucidamente accolto nei lavori preparatori di tante leggi di settore frutto di contrattazione, ha sistematicamente schiacciato le Regioni, e rafforzato i ministeri. E sono proprio i ministeri infatti che, come correttamente coglie il giornalista, si rafforzeranno, in un rapporto diretto con i Comuni.

            Benché molte forze politiche fingano di non accorgersene, federalismo o neo-regionalismo, da un lato, e neo-municipalismo, dall'altro, non sono movimenti compatibili. I sistemi federali sono tanti, diversi per forma di governo, sistema elettorale, organizzazione politica ecc.: ma in nessuno si è affermato un assetto a tre punte, basato sulla pari-ordinazione tra federazione, entità federate e enti locali. Nessuno può pensare che questo prodigio si compia in Italia. O il sistema abbraccia una strada o l'altra: o si costruisce uno stato centrale molto forte, che dialoga direttamente con il sistema locale senza una reale intermediazione politica delle regioni, oppure il sistema si regge sulla dialettica tra governo federale ed enti federati, senza che in essa vi sia spazio per l'interposizione dei governi locali.

            La scelta tra le due vie è drastica e ricca di conseguenze interessanti, purché vengano percorse con coerenza. Gli ibridi, in questo caso, saranno certamente sterili.

            Un sistema basato sui municipi acquista coerenza nella costruzione al centro di un'amministrazione ministeriale vasta ed efficiente, capace non soltanto di svolgere le funzioni di indirizzo e di coordinamento, indispensabili data la polverizzazione dell'amministrazione locale, ma anche di gestire strutture amministrative e servizi decentrati sul territorio, ad un livello sovracomunale. In questo schema, le Regioni non possono pretendere di fare più di quanto fanno le regioni francesi. In compenso, la rappresentanza politica dei Comuni, e di quelli di maggior peso soprattutto, non trova difficoltà ad emergere in un Parlamento eletto con un sistema di tipo maggioritario, che tende ad esaltare il localismo (la compatibilità tra la carica di sindaco e quella di parlamentare rafforzerebbe dunque la coerenza del disegno). Se la rappresentanza parlamentare è dominata dal localismo, l'efficienza del sistema centrale si ricupera soltanto attraverso l'elezione diretta del capo dell'esecutivo, come prescrive ancora il modello francese. La dialettica tra centro e periferia sfrutta dunque i canali della dialettica tra governo e parlamento e ciò consente stabilità e funzionalità del sistema.

            Un sistema di tipo federale si basa invece su una millimetrica dosatura della distribuzione dei poteri tra federazione e federati, che a sua volta si regge su un'attenta progettazione dei congegni di partecipazione e di controllo da parte degli enti federati nei confronti degli organi e dei processi decisionali della federazione. La forza del modello tedesco, per esempio, sta proprio nella coerenza di questa costruzione. Il suo perno è il Bundesrat, composto da membri degli esecutivi dei Länder: la partecipazione del Bundesrat a tutte le decisioni che incidono sul riparto di competenze (comprese quelle che si assumono a livello europeo), dà senso a quel blanket che è la sussidiarietà, perché impedisce la progressiva avulsione delle competenze dei Länder in nome, come direbbe la nostra Corte costituzionale, delle "prevalenti esigenze di carattere unitario". Anche nel modello tedesco la dialettica centro - periferia doppia le linee classiche della separazione dei poteri, ma per ragioni del tutto diverse: la presenza dei Länder, in quanto enti e non come collettività,  nel Parlamento federale fa di questo organo e dei suoi procedimenti la culla della collaborazione tra centro e periferia, spostando verso la federazione il baricentro della legislazione. Ma se il potere legislativo è attratto prevalentemente verso il livello federale, quello esecutivo, per contro, defluisce in larga parte verso la periferia. Entrambi i movimenti sono causati dall'esistenza del Bundesrat e della sua capacità di incidere sui procedimenti decisionali. Ma perché il Bundesrat abbia tale capacità, è necessario che esso abbia la rappresentanza del sistema dell'amministrazione locale nel suo complesso.

            Guardando dal punto di vista dei Comuni, non si può dire in astratto quale dei due modelli meglio possa garantire i poteri degli enti locali. La diffidenza che i Comuni italiani manifestano nei confronti delle Regioni è più che giustificata per l'esperienza concreta passata, ma non lo è affatto se si ragiona di modelli astratti. La costruzione di un sistema federale non si ferma affatto alla riprogettazione degli apparati centrali: se è necessario che il centro abbia interlocutori forti (c'è chi dubita che tali possano essere le Regioni, nella dimensione attuale: si può immaginare che lo siano i Comuni?), ciò non significa affatto che il sistema amministrativo a scala regionale non debba essere costruito con la stessa attenzione e le stesse efficienti garanzie della sussidiarietà. L'infausta esperienza delle Regioni italiane (la costruzione di grossi apparati burocratici regionali, lo scarso e sporadico uso delle deleghe, l'inattuazione della legge 142 ecc.) è da imputare all'eccessiva debolezza, non alla eccessiva forza dell'ente regionale. E la causa della strutturale debolezza delle Regioni ha la stessa origine dei disagi che oggi denunciano i Sindaci calati a Roma: essa risiede infatti nelle burocrazie ministeriali (di quei ministeri che neppure i referendum che li hanno formalmente "abrogati" sono riusciti realmente a scalfire), nella dissennata legislazione nazionale, permeabile a qualsiasi interesse ma (o forse: e perciò) del tutto insensibile alle esigenze dell'autonomia, nel sistema della finanza.

            Insomma, neo-municipalismo e neo-regionalismo vincono insieme o perdono insieme. Sicuramente perdente è l'idea di una pari rappresentazione dei due livelli di governo al centro, sia che si manifesti (in una prospettiva, come si dice, "a costituzione invariata") nella richiesta che sia la legge dello Stato a fissare direttamente le attribuzioni degli enti locali, sia che si concreti (nella prospettiva di riformare la costituzione) nella proposta di istituire una Camera, non delle Regioni, ma delle autonomie - una specie di CNEL del governo locale, votato a sicura paralisi, come mostrano (oltre alla storia personale del CNEL) le esperienze del Senato, la camera di rappresentanza territoriale, in Spagna (che infatti si vorrebbe ora convertite al modello Bundesrat) e (più recenti. ma già significative) del Comitato delle regioni in Europa. Perché, in entrambi i casi, sarebbero gli apparati centrali, i veri responsabili della attuale condizione di Regioni ed enti locali, a tenere il banco. E se c'è una cosa che l'atavica esperienza italica può e deve insegnarci, è che, nel gioco delle tre carte, è sempre il banco che vince.

 

                                                                                                                      R.B.