Questo contributo trae il titolo da un ben noto scritto di Livio Paladin[1], che risale a quando le regioni ordinarie stavano per diventate pienamente operative. In un Convegno promosso dall’ultima (in ordine di istituzione) delle regioni ad ordinamento differenziato, Paladin rifletteva su come il nuovo evento istituzionale avrebbe potuto e dovuto influire su un argomento solo apparentemente già consolidato: la definizione delle materie di competenza regionale.
Paladin era mosso da una forte preoccupazione, che i criteri di giudizio consolidatisi nella giurisprudenza della Corte costituzionale sulle regioni speciali, e gli stessi schemi elaborati dalla dottrina, guidassero anche il futuro sviluppo del diritto regionale, compromettendolo gravemente. Erano infatti già leggibili nel modo in cui si erano sviluppate le relazioni tra Stato e regioni tutti i sintomi dell’evoluzione che, purtroppo, si sarebbe prodotta in seguito. Innanzitutto, inevitabile punto di partenza, il “caos verbale” degli elenchi con cui le fonti costituzionali[2] definivano le “materie” di competenza regionale, “formulazioni tanto eterogenee e spesso così poco razionali e coordinate, da porre in aperto conflitto l’interpretazione testuale e l’interpretazione sistematica di essi”[3]. In secondo luogo, “le ambiguità della legislazione vigente, gli errori del legislatore”[4] che testimoniano l’“orientamento centralistico”, poco consapevole delle autonomie regionali e spesso controproducente per ciò che riguarda il compito, che il legislatore statale dovrebbe assolvere, di ridefinire con chiarezza competenze e ruolo delle regioni. In terzo luogo, e in conseguenza, la funzione di supplenza svolta dalla giurisprudenza costituzionale e quindi le difficoltà incontrate dal tentativo di definire in via d’interpretazione giuridica ciò che invece può essere soltanto il risultato di una decisione di politica legislativa.
Già allora emergeva con chiarezza la funzione pervasiva e assorbente che avrebbe in seguito definitivamente assunto, nella giurisprudenza della Corte costituzionale, la considerazione della dimensione territoriale degli interessi. Messo da parte il criterio teleologico nell’interpretazione delle materie regionali, perché la Corte aveva ritenuto che le regioni non fossero libere di scegliere i mezzi più adatti per raggiungere le esigenze affidate alla loro cura e che quindi la considerazione dei fini si riflettesse semmai in una ulteriore restrizione delle competenze del legislatore regionale (abilitato ad usare i mezzi rientranti nella materia di competenza solo per perseguire le esigenze ad essa implicite)[5]; non sempre seguito il criterio di definire le materie secondo il significato che esse avevano assunto nella legislazione vigente e nelle leggi di settore; è soprattutto la distinzione tra l’interesse nazionale e l’interesse regionale (cui si aggiunge l’interesse esclusivamente locale) a dominare la tecnica di decisione della Corte costituzionale. Ma a Paladin risulta chiaro che un giudizio siffatto minaccia di trascinare la Corte su un terreno che non le è proprio: “un penetrante e effettivo apprezzamento… del limite degli interessi… trascende infatti con ogni evidenza l’ambito del giudizio di legittimità”[6]. Le conclusioni sono stringenti: è necessario che l’istituzione delle regioni ordinarie segni una cesura netta; “se non si vuole che il regionalismo italiano faccia una fine ingloriosa, occorre riprendere da capo l’intero discorso: non già per escogitare palliativi e correzioni marginali, ma per attuare un riparto ed un coordinamento delle competenze affatto diversi da quelli finora descritti” e sviluppati dalla giurisprudenza costituzionale. Invece, in prospettiva, “la Corte va mantenuta – per quanto possibile – estranea alle tensioni che essa non ha il modo di risolvere; mentre è il Parlamento che deve riassumere le proprie responsabilità”[7].
Riletto a distanza di oltre trent’anni, per di più a ridosso di una riforma costituzionale che ha ridisegnato l’intera geografia dei rapporti tra Stato, regioni e autonomie locali, lo scritto di Paladin stupisce non solo perché fotografa in anticipo la situazione che si sarebbe prodotta a causa del perpetuarsi di ciò che lui paventava, ossia la permanente passività del legislatore statale e la conseguente supplenza della Corte costituzionale, ma soprattutto perché ci offre l’esatto catalogo dei problemi che oggi dobbiamo nuovamente affrontare. Infatti, la diversa formulazione degli elenchi delle materie, introdotta dalla riforma costituzionale del 2001, pur avendo compiuto la vistosa trasformazione del senso sistematico e simbolico dell’enumerazione (rivolta oggi a definire le attribuzioni legislative dello Stato e non più quelle delle regioni), non ha però superato la premessa che rende problematica l’operazione di definire le materie: ossia che le etichette costituzionali dicono poco o niente, sono una “pagina bianca”[8] che ha bisogno di essere scritta e nulla suggerisce neppure sulle modalità e le procedure della scrittura.
Ma l’impostazione dei problemi è rimasta la stessa o muta a seguito del cambiamento intervenuto nel contesto costituzionale? Nelle pagine seguenti vorrei provare a rispondere a questa domanda, mosso, in fondo, dalla stessa esigenza che Paladin avvertiva allora: che l’evento istituzionale della riforma costituzionale segni una effettiva discontinuità nei modi in cui la legislazione e la giurisprudenza affrontano i problemi dell’autonomia regionale.
L’auspicio di Paladin era esplicito. Egli riponeva la speranza di una rigenerazione del diritto regionale in una nuova e diversa consapevolezza del legislatore statale, di cui, con un ottimismo rivelatosi poi eccessivo, intravedeva qualche sintomo nella legislazione di quei tempi. Ma a che tipo di legislazione egli pensava?
Benché egli si riferisse alla legislazione di adeguamento “alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni”, preannunciata dalla IX disp. trans. della Cost., al contrario di buona parte della dottrina coeva era ben lontano da pensare che le leggi da fare fossero delle leggi-cornice intese come pura disciplina di principio, diretta a limitare negativamente l’autonomia legislativa regionale “mediante la ricognizione e l’interpretazione autentica delle norme fondamentali vigenti”[9] nelle materie concorrenti. “Leggi-cornice meramente ricognitive delle norme fondamentali delle materie enumerate – scrive in nota - rischierebbero di determinare gravi problemi interpretativi qualora fossero incomplete e non precisassero la sorte delle norme-principio già vigenti, ma non espressamente confermate dalle leggi stesse”. Le leggi che gli sembravano necessarie erano vere e proprie riforme delle materie rivolte a ridimensionare per ciascuna di esse il ruolo dello Stato, a precisare le funzioni delle regioni e a disciplinare i meccanismi di programmazione e di coordinamento. Infatti, se davvero si trattasse invece di desumere i princìpi fondamentali già impliciti nell’ordinamento vigente, senza attuare una riforma dei rapporti tra Stato e regioni, “l’organo naturalmente competente non è il Parlamento ma la Corte costituzionale: se non altro perché le sue decisioni non irrigidiscono il riparto dei poteri, ma possono seguire la continua evoluzione dell’ordinamento stesso”[10].
Rileggendo queste considerazioni, che certo procedevano allora controcorrente, viene da sorridere di fronte all’inconsapevolezza che il legislatore statale ha dimostrando mettendo mano alla legislazione di attuazione della riforma del Titolo V. Oggi il ruolo della legislazione statale va interamente riconsiderato, è ovvio, alla luce dell’inversione della tecnica di enumerazione delle “materie” e alla delimitazione della competenze legislative statali ai soli elenchi delle materie “esclusive” e “concorrenti”. Ma è proprio per queste ultime, in relazione alle quali le osservazioni di Paladin mantengono tutto il loro valore, che il legislatore ordinario ha imboccato la strada esattamente opposta ai suoi suggerimenti.
Come è noto, la legge 131/2003 (“Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”) ha delegato il Governo ad emanare “uno o più decreti legislativi meramente ricognitivi dei princìpi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti, nelle materie previste dall’articolo 117, terzo comma”, cioè, appunto, nella materie di competenza concorrente[11]. Un complesso procedimento di formazione dovrebbe garantire che il governo non sconfini dalla “mera ricognizione”, e cerchi subdolamente di innovare la materia con l’introduzione di princìpi “nuovi” (“disposizioni che abbiano un contenuto innovativo dei princìpi fondamentali, e non meramente ricognitivo”) o infiltrando disposizioni vigenti “che non abbiano la natura di principio fondamentale”[12].
Come è naturale, ciò che colpisce in primo luogo è che venga delegata dal Parlamento, non già la disciplina dettagliata di concretizzazione dei princìpi fissati dalla legge di delega, bensì proprio la stessa disciplina di principio, che, per definizione, dovrebbe essere sottratta al Governo e gelosamente riservata alle Camere[13]. Si potrebbe obiettare che in realtà viene concesso al Governo solo un potere di normazione “ricognitiva”, un’attività non creativa ma di mera compilazione: l’emanazione di una sorta di testo unico dei princìpi vigenti. Insomma, il potere attribuito al Governo sarebbe sì molto esteso come àmbito materiale (tutte le materie elencate in sequenza dall’art. 117, co. 3, Cost.) e molto elevato come livello di normazione (i “princìpi fondamentali”): ma, a pareggiare il conto, si tratterebbe di un potere a basso tenore di discrezionalità (la “mera ricognizione”[14]). Per di più si tratterrebbe di una disciplina transitoria, con contenuti meramente “ricognitivi” e funzione più che altro “orientativa”, dato che la funzione dei decreti delegati sarebbe semplicemente di “orientare l’iniziativa legislativa dello Stato e delle Regioni fino all’entrata in vigore delle leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi princìpi fondamentali”. Ma questo quadro giustificativo è credibile? Ben poco.
Vi è un profilo che la legge 131 non menziona ma a me sembra invece determinante, e che non sarebbe sfuggito a chi ha scritto il testo di legge se avesse, avendole lette, riflettuto sulle osservazioni di Livio Paladin. Il potere più esteso e rilevante che la legge di delega attribuisce al governo non è tanto la definizione dei “princìpi fondamentali” quanto, piuttosto, la definizione delle stesse “materie”. Basta soffermarsi sul significato della maggior parte dei termini che formano la sequenza delle materie di competenza concorrente: “tutela e sicurezza del lavoro”, “istruzione”, “professioni”, “ricerca scientifica e tecnologica”, “tutela della salute”, “alimentazione”, “governo del territorio” ecc. Prima di procedere alla “ricognizione” dei princìpi fondamentali di ciascuna materia, è indispensabile infatti delimitare il territorio in cui la ricognizione debba svolgersi, ossia definire la materia stessa: se può essere credibile che i princìpi fondamentali siano suscettibili di essere “riconosciuti” con attività meramente accertativa (su ciò bisognerà ritornare in seguito), è evidente che delimitare la materia è invece un’attività ad elevato tasso di discrezionalità. Questa – sottolineava Paladin – è la parte “politica”, cioè legislativa, dell’attività, mentre certo non lo è la “deduzione” dei principi attraverso la loro “ricognizione”, che è invece compito proprio della Corte costituzionale. Insomma, quello che ci prospetta la legge 131 è un errore di prospettiva: anzi, forse un inganno, un trompe-oeil.
L’oggetto reale dell’originale (e un po’ inquietante) delega a compilare il “testo unico” dei princìpi fondamentali delle materie concorrenti appare infatti alquanto lontano da quello disegnato dalla legge stessa. L’operazione che dovrebbe compiere il legislatore delegato consiste essenzialmente in questo: riesaminare la legislazione vigente e suddividerla per comparti in qualche modo corrispondenti alle vaghe etichette delle materie concorrenti; individuare le funzioni che richiedono un esercizio unitario, corrispondono cioè ad un “interesse nazionale non frazionabile”; classificare le funzioni individuate, laddove possibile, nelle materie di competenza esclusiva dello Stato[15]; ricostruire in termini di “principio fondamentale” l’interesse non frazionabile che non può essere classificato nelle materie “esclusive”. Insomma, il vero compito che il governo è delegato ad affrontare assomiglia di più all’elaborazione di decreti di trasferimento delle funzioni amministrative (con il conseguente transito delle attribuzioni legislative, secondo il tradizionalissimo principio del c.d. “parallelismo delle funzioni”) che una “ricognizione” dei princìpi.
Questa metamorfosi dell’oggetto della delega non deve sorprendere. La distinzione tra norma di principio e norma di dettaglio è stata uno dei piedi d’argilla su cui il costituente del ’48 ha edificato il sistema regionale italiano: non ha alcuna seria giustificazione teorica ed è naufragata completamente nella pratica legislativa. Le stesse “leggi cornice” emanate a partire dalla fine degli anni ’70 avevano chiaramente mostrato quanto fosse indifendibile la “teoria” della legislazione di “mero principio”, per l’inevitabile intrecciarsi nelle singole discipline legislative di settore di norme generali, norme particolari e norme procedurali[16]. Ma forse la legge 131 dà tutto ciò per scontato: di conseguenza chiama spregiudicatamente “principio” tutto quanto può servire per tracciare il riparto delle funzioni.
Sia i trasferimenti delle funzioni del 1972, sia quelli del decreto legislativo 616 (e in fondo anche i più recenti decreti “Bassanini”), hanno operato “ritagli” nelle materie elencate dal vecchio 117, co. 2, Cost., escludendo dal trasferimento settori, funzioni, compiti che lo Stato ha trattenuto a sé. La giustificazione di questi “ritagli” è stata sempre ispirata dall’esigenza di preservare l’”interesse nazionale”. Anche quando non era lo stesso elenco di materie del 117, co. 2, a specificare che la competenza regionale si fermava alla parte “di interesse regionale” della “materia” (“tramvie e linee automobilistiche di interesse regionale”, “viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse nazionale”), la Corte ha chiarito che “per tutte (le materie) vale la considerazione che, pur nell'ambito di una stessa espressione linguistica, non è esclusa la possibilità di identificare materie sostanzialmente diverse secondo la diversità degli interessi, regionali o sovraregionali, desumibile dall'esperienza sociale e giuridica”[17]. Valutare quali “materie” siano da sussumere sotto la medesima “espressione linguistica”, cioè sotto la stessa “etichetta” impiegata dalla costituzione, implica quindi un’attività di ricostruzione degli interessi coinvolti e di qualificazione degli stessi in base al livello di governo competente, opera ben lontana dal “mero accertamento”.
L’inversione della tecnica di enumerazione delle materie compiuta dalla riforma costituzionale del 2001 ha mutato i termini del problema? Direi di sì, o quantomeno li ha resi molto più complessi. Nell’ordinamento passato, il contenuto delle “etichette” - e perciò le funzioni da trasferire dallo Stato alle Regioni - venivano individuate e delimitate partendo da precise strutture burocratiche ministeriali che svolgevano specifiche funzioni; sicché, trasferendo le funzioni insieme con le strutture amministrative e – almeno in via di principio – con il personale, le “materie” assumevano una consistenza abbastanza precisa, quasi fisica. In teoria – perché in pratica la vischiosità della burocrazia lo ha sempre ostacolato – il trasferimento di una funzione comportava lo smantellamento della struttura ministeriale che l’esercitava. La “materia” veniva quindi letta e riletta nel tempo e segmentata in una serie di sottomaterie e funzioni, ognuna delle quali poteva essere trasferita con specifiche ripartizioni di compiti tra livelli di governo e precisi vincoli procedurali a tutela di interessi non disponibili da parte delle Regioni e degli enti locali (per esempio, il parere della Sovrintendenza o il nulla osta dell’autorità di P.S.).
Oggi, nel nuovo ordinamento, le cose non sono più così. Né le materie elencate nell’art. 117, co. 2, come competenza “esclusiva” dello Stato né, in buona misura, quelle “concorrenti” dell’art. 117, co. 3, hanno una consistenza definita, sono riferibili ad una precisa struttura ministeriale o sono organizzate in uno specifico corpo normativo. Non esiste un ministero dell’“ordinamento civile”, né questo corrisponde tutto e solo al codice civile[18]; non esiste una direzione ministeriale dei “livelli essenziali”, né una cui siano intestati il “governo del territorio”, le “professioni” o l’“ordinamento delle comunicazioni”. Ancor meno chiaro è come sia possibile determinare quali materie restino affidate alla competenza regionale. È vero che, in linea di principio, ad esse spettano tutte le materie non attribuite, in via esclusiva o concorrente, allo Stato, ma ciò crea problemi di delimitazione dei confini e delle responsabilità difficilissimi da risolvere. Rovesciare la tecnica di enumerazione delle competenze ha quindi avuto una vistosa conseguenza sotto il profilo delle tecniche di definizione delle materie: mentre nel vecchio ordinamento il trasferimento delle funzioni alle Regioni (e agli enti locali) significava staccare un mattone preciso dall’edificio complessivo delle funzioni pubbliche, tutte in principio attribuite allo Stato, oggi l’edificio non c’è più; esistono le macerie della vecchia enorme legislazione di settore, che continua ad operare in attesa della legislazione regionale, ed esistono alcuni schizzi progettuali del nuovo fabbricato delle competenze statali, tutti o quasi ancora da tradurre in progetto operativo. L’architetto si è fermato a questo.
Che sia necessario un intervento del legislatore ordinario è perciò vero, ancora più vero oggi che al tempo in cui scriveva Paladin. Ma vi sono due aspetti ulteriori da considerare.
Il primo è che il trasferimento delle funzioni del passato guardava, come è ovvio, alle funzioni amministrative, da cui poi si desumevano, per il principio del c.d. parallelismo delle funzioni, le attribuzioni legislative. In realtà anche nelle c.d. leggi cornice accadeva qualcosa del genere. In teoria (rectius, per la teoria, ossia per una certa parte della dottrina) esse avrebbero dovuto indirizzarsi alla delimitazione della sfera di attribuzione legislativa delle regioni attraverso la determinazione del princìpi fondamentali: ma di fatto, come si è già sottolineato, le leggi statali disciplinavano l’intera materia, badando in particolare a fissare le procedure di programmazione e di coordinamento, l’intreccio dei procedimenti decisionali distribuiti tra i diversi livelli di governo, i princìpi dell’organizzazione amministrativa, i ruoli rispettivi delle strutture operative delle amministrazioni riferibili allo Stato, alle regioni e agli enti locali. Esse – pur senza la piena consapevolezza dei compiti da assolvere che indicava Paladin - si proponevano di riformare la disciplina della “materia” assieme alla sua riorganizzazione amministrativa e procedurale[19]. La funzione delle leggi cornice e quella dei decreti di trasferimento spesso perciò si confondevano (quasi sempre si confondevano poi nei decreti di attuazione degli Statuti speciali).
Oggi invece le leggi dello Stato non dovrebbero più prendere le mosse dall’organizzazione amministrativa, non avrebbero più il potere di disegnare procedure, strutture, sistemi di coordinamento. Questa, almeno, è la prospettiva che sembra emergere in dottrina, che è decisamente propensa a decretare la fine del principio di parallelismo delle funzioni e a suggerire che il legislatore statale legiferi – attraverso la decretazione delegata – movendo non dalle funzioni amministrative ma dai princìpi della legislazione. Ma è una prospettiva credibile?
Il secondo aspetto è che oggi non è più sostenibile che, “se per materia si intende ciò che è oggetto di disciplina, nessuna materia può dirsi interamente sottratta alla fonte statale”[20]. L’effetto più vistoso della riforma del 2001 è la “specializzazione” della competenza legislativa dello Stato, che può occuparsi soltanto delle materie specificamente assegnategli dall’art. 117 a titolo “esclusivo” o “concorrente”. Anche in questo caso mi pongo la stessa domanda: è una prospettiva credibile? La risposta, nel primo come nel secondo caso, passa necessariamente per la soluzione del problema centrale della riforma costituzionale: esiste ancora l’interesse nazionale?
La scomparsa di qualsiasi accenno all’’”interesse nazionale”
dal testo costituzionale è un altro evento molto vistoso e che ha molto
attratto l’attenzione della dottrina. Vi è chi ha sùbito assunto una posizione
“scettica”, sospettando che il Parlamento abbia inteso, non già liberare le
Regioni dal “limite” degli interessi nazionali, ma semplicemente scaricare per
intero il peso della difesa di essi sulla Corte costituzionale[22]. Vi è chi invece rilegge la recente riforma costituzionale in chiave
di continuità, la definizione degli interessi nazionali restando comunque
affidata alla collaborazione tra Parlamento e Corte costituzionale: al primo è
demandata la concreta precisazione del riparto delle funzioni, attraverso i
tanti varchi che gli artt. 117 e 118 lasciano aperti alla concreta valutazione
dei diversi livelli d’interesse, e alla seconda le “piccole correzioni” necessarie al mantenimento dell’equilibrio e
la verifica dei “titoli giustificativi”
dell’intervento statale[23].
Ma l’atteggiamento più diffuso è di intendere la riforma come una svolta netta
rispetto al passato, negando perciò che l’interesse nazionale possa essere
fatto valere ancora come limite generale della legislazione regionale; nel
nuovo testo del Titolo V esso, invece, sarebbe stato riconosciuto e tradotto in
specifiche riserve di competenza dello Stato (per esempio, i “livelli
essenziali”, le “norme generali”, il “coordinamento informatico”
di cui, rispettivamente, alle lett. m,
n e r dell’art. 117.2, i “princìpi
fondamentali” di cui all’art. 117.3, i meccanismi perequativi dell’art. 119
e – ma su questo punto cruciale le opinioni divergono fortemente – le ipotesi
di intervento sostitutivo del Governo ex
art.120), le quali andrebbero considerate quindi come “titoli esclusivi” di
giustificazione degli interventi dello Stato a protezione dell’interesse
nazionale[24].
Sono punti di vista molto diversi, ma tutti concordano nel ritenere cruciale per gli esiti della riforma il modo in cui si risolve il nodo dell’interesse nazionale: se sia ancora un limite generale delle attribuzioni regionali; se possa o meno legittimare interventi trasversali dello Stato non riferibili ad uno specifico titolo riconosciuto nei nuovi articoli della Costituzione; se sia ancora in qualche modo ammessa la funzione di indirizzo e coordinamento. Benché risulti evidente a tutti la deliberata cancellazione di ogni riferimento testuale al limite dell’interesse nazionale, non si può dimenticare che la giurisprudenza costituzionale ha sin dall’inizio fondato l’esigenza di tutela degli interessi unitari e la funzione di indirizzo coordinamento (che di essi è il “risvolto positivo”, come la definì la “storica” sent. 39/1971) sul principio di prevalenza delle “esigenze di carattere unitario”, che “trovano formale e solenne riconoscimento nell'art. 5 della Costituzione” (ancora sent. 39/1971). Questo articolo non è stato toccato dalla riforma e quindi i princìpi che esso incorpora restano accreditati; anche se, naturalmente, ciò non significa affatto che, insieme al principio, resti “pietrificato” anche tutto l’arsenale di strumenti con cui in passato esso è stato fatto operare.
La cura delle esigenze unitarie, secondo gli insegnamenti della Corte, si attua anzitutto “attraverso la esplicita enunciazione dei ‘principi fondamentali’, di cui allo stesso art. 117” (sent. 39/1971). Ma, a prescindere dall’ambiguità insita in ogni rinvio alla definizione in via legislativa dei princìpi fondamentali, di cui già si è discorso, va comunque osservato che, dopo la riforma, lo strumento dei “princìpi fondamentali” resta disponibile solo per le materie “concorrenti”. Per quanto riguarda invece la potestà “residuale”, le “esigenze unitarie” non possono più essere assicurate per questa via, dato che, a prendere alla lettera la legge di riforma, su tali materie lo Stato avrebbe perso competenza legislativa. Nessuna possibilità dunque di procedere attraverso legislazione di principio o attraverso “ritagli” operati con legge nelle singole materie: è possibile allora procedere attraverso atti di indirizzo e coordinamento? Questa, infatti, era la porta socchiusa dalla sent. 39/1971 come alternativa proprio alla “riserva preventiva e generale allo Stato” di “ritagli” di materia. Si potrebbe elaborare, in base alla ratio decidendi di questa sentenza, un teorema per cui, tanto più sono estese le materie e le funzioni trasferite alle Regioni e tanto meno esse sono intersecate da riserve e interferenze dello Stato, tanto più è giustificabile che a questo siano riconosciute “altre e diverse forme” di indirizzo e di coordinamento. È un sistema di contrappesi: per cui se la riforma del Titolo V amplia la sfera delle attribuzioni legislative regionali e limita le “riserve preventive e generali” alla legge statale, allora si rafforza l’esigenza di trovare strumenti e forme attraverso cui garantire le esigenze unitarie e di coordinamento. Di queste forme però il nuovo Titolo V non fa menzione.
Potrebbe allora prendere corpo l’idea che, in questi trent’anni di concreta esperienza, la trasformazione del “limite di merito” in una vasta tipologia di vizi di legittimità abbia prodotto la progressiva calcificazione dell’interesse nazionale in molteplici riserve preventive allo Stato: nella riscrittura del Titolo V, pertanto, si potrebbe vedere la fissazione in disposizioni (le “lettere” che enumerano le competenze esclusive dello Stato, anzitutto) di ciò che, attraverso la caotica applicazione legislativa e giurisprudenziale, è progressivamente emerso come lo strumento indispensabile attraverso cui si esprimono le esigenze unitarie. Ma non può essere così. Se lo strumentario di cui lo Stato dispone è davvero ridotto soltanto alle leggi ed ai regolamenti che può emanare nelle “materie” attribuite alla sua competenza esclusiva, alle leggi di principio nelle “materie concorrenti” ed agli strumenti, per altro indefinibili, dell’intervento sostitutivo, ogni “titolo” che la nuova costituzione offre per giustificare l’interferenza dello Stato sarà dilatato oltre qualsiasi ragionevole interpretazione per l’incontenibile esigenza di assicurare gli interessi unitari. Saranno estese le “etichette” delle materie dell’art. 117.2 (si pensi all’”ordine pubblico”, all’”ordinamento civile” o all’”ambiente”), amplificati i concetti di “livelli essenziali”, di “prestazione”, di “diritti civili e sociali”, di “concorrenza”, tolto ogni argine ai “princìpi fondamentali” nella competenza “concorrente”, scoperto che anche i poteri sostitutivi di cui all’art. 120.2 possono incidere sulla legislazione regionale ed avere un “risvolto positivo”. Come può altrimenti reggere un sistema giuridico nel quale l’intero peso dell’innovazione legislativa non poggia più, se non nelle materie enumerate, sulla legislazione statale, ma su ventidue legislatori locali? Quante volte sono state le stesse Regioni a chiedere l’intervento dello Stato per fissare norme generali comuni? Saremo precipitati nella situazione di prima: il legislatore statale e il Governo che si infilano, con prepotenza o “su invito”, nelle fessure delle rigide paratie del sistema costituzionale di distribuzione delle competenze, sino a sfondarle; e, per conto suo, la Corte costituzionale che deve cercare di ridisegnare un quadro credibile dei rapporti senza disporre di materiali adeguati, continuamente esposta alla necessità di tradurre in argomentazioni giuridiche valutazioni che sono essenzialmente politiche.
Una riforma costituzionale di raggio così vasto, se presa sul serio, deve portare ad una cesura netta con il passato. Ma questa cesura non può “tagliare” i problemi, negando che essi sopravvivano, malgrado che la riforma non li abbia affatto risolti. Il nuovo Titolo V ha “dimenticato” il problema del coordinamento e della collaborazione; del dittico “supremazia – collaborazione” ha preso in considerazione la prima parte, per attenuarne la portata, ma ha del tutto trascurato la seconda. “Le difficoltà che s’incontrano nel configurare in termini giuridici i due distinti livelli delle funzioni statali e regionali derivano tutte, in realtà, dalla circostanza che i costituenti si sono disinteressati di questo problema, ed hanno affatto ignorato – in particolar modo – il tema del coordinamento dei poteri centrali e locali”: sì, sono ancora le parole di Paladin, di trent’anni fa. Ma pensare che aver tolto ogni menzione dell’interesse nazionale e aver dimenticato ogni accenno alla collaborazione e al coordinamento siano di per sé segni sufficienti a risolvere giuridicamente il problema, e che alla tutela delle esigenze unitarie possano bastare le specifiche competenze espressamente riconosciute allo Stato dal nuovo testo costituzionale, mi sembra un’interpretazione del nuovo testo che muove per argomenti “formali e nominalistici” (per riprendere l’espressione della sent. 138/1972) alla erezioni di paratie stagne tra le attribuzioni regionali e le “interferenze” statali, e che chiude gli occhi sui problemi irrisolti: mossa dall’intenzione di prendere sul serio la riforma, apre la porta ad un’applicazione di essa che sarebbe più nel segno della continuità che della discontinuità. Gli stessi problemi, senza strumenti costituzionali per risolverli; le stesse soluzioni, nel segno della continuità della giurisprudenza.
Il legislatore costituzionale ha cancellato ogni riferimento all’interesse nazionale contenuto nel testo originale della Costituzione: se ne deve evincere che abbia volutamente ignorato il problema? Forse no, forse ha voluto semplicemente cancellare le “vecchie” soluzioni che si sono rivelate insoddisfacenti e risalenti ad un sistema di relazioni tra lo Stato e le autonomie che la riforma ha radicalmente mutato.
Il meccanismo del “giudizio di merito”, che il Parlamento avrebbe dovuto svolgere sulle leggi regionali, era infatti l’esatta proiezione sul piano dei meccanismi procedurali del principio di supremazia dello Stato (e dei suoi interessi politici) nei confronti delle Regioni. Che il Governo fosse chiamato ad esercitare il controllo e l’iniziativa a difesa della superiorità sia dell’ordinamento giuridico dello Stato che dei suoi interessi politici, era perfettamente coerente con l’impianto generale, basato sul principio gerarchico come lo può essere un ordinamento che contrappone il generale (l’ordinamento e gli interessi nazionali) al particolare (l’ordinamento e gli interessi regionali) e che affida allo Stato-persona il compito di assicurare l’unità dell’ordinamento[25]. Tutto il sistema ruotava attorno a questo asse: lo testimoniano il meccanismo del controllo preventivo delle leggi regionali, contrapposto all’impugnazione successiva delle leggi statali; la totalità dei “vizi” deducibili dal Governo di fronte alla Corte costituzionale, contrapposta alla sola difesa delle proprie attribuzioni consentita alle Regioni; la cura degli interessi generali presupposta nell’impugnazione statale, contrapposta alla richiesta alla Regione di dimostrare (anche per opera) il proprio concreto interesse al ricorso, ecc. Tutto questo oggi non c’è più, è stato cancellato dalla riforma.
A me pare che il nuovo testo del Titolo V abbia omesso volutamente ogni riferimento all’interesse nazionale perché intendeva proprio stemperare l’ordinamento gerarchico di cui si è detto[26]. Al suo posto ha introdotto l’opposta indicazione di un ordine tendenzialmente paritario[27] degli “enti” che compongono il sistema e del principio di sussidiarietà. Questo – mi sembra – potrebbe essere il significato giuridico di quella criticatissima (e un po’ vacua) disposizione con cui esordisce il nuovo Titolo V: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Non è la mera elencazione di una serie disomogenea di enti, ma in essa si può scorgere l’enunciazione di un principio per cui lo Stato non è più entità nettamente sovrapposta alle altre, ma tendenzialmente pariordinata ad esse. Se lo Stato partecipa alla Repubblica in posizione di parità[28], e non più di supremazia gerarchica, rispetto agli altri enti, allora la tutela degli interessi nazionali e delle esigenze unitarie della “Repubblica” non appartiene più alle prerogative di supremazia dello Stato - persona, ma deve essere il frutto dell’unico modo in cui soggetti di pari grado possono decidere di coordinarsi, ossia il risultato di un accordo paritario, di una procedura di “leale cooperazione”.
Leale cooperazione e sussidiarietà dovrebbero essere assunti come l’espressione normativa di un netto mutamento delle strutture portanti dell’architettura istituzionale, tali da sostituire i precedenti principi di prevalenza gerarchica del centro sulla periferia e di identificazione dell’interesse nazionale con l’interesse dello Stato - persona. In questa prospettiva, il “principio di sussidiarietà” e il “principio di leale collaborazione” – che opportunamente, dunque, l’art. 120.2 associa - esprimono una logica di tipo paritario che, al contrario del passato, rafforza oggi il secondo elemento del dittico “supremazia – collaborazione”.
Se questa linea interpretativa è credibile, essa ci porta finalmente ad una conclusione assai distante dal punto da cui abbiamo preso le mosse. L’apparente disinteresse del legislatore costituzionale per le esigenze unitarie e di coordinamento - esigenze che sono fortemente sentite in ogni sistema costituzionale moderno - non deve necessariamente indurci a concludere per una costruzione rigidamente dualistica dei rapporti tra Stato e Regioni: quasi che il legislatore del 2001 volesse portare antistoricamente a compimento il disegno, ancora imperfetto nella versione originale, di una netta separazione delle sfere di attribuzione del centro e della periferia[29]. Tutto all’opposto: si sono ridefinite le sfere di attribuzione, ma soprattutto si è rivoluzionato il criterio di fondo dell’ordinamento dei rapporti tra Stato e Regioni: non più enti disposti lungo una linea gerarchica, tale per cui all’ente generale era riconosciuto e riservato il potere-dovere di assicurare la prevalenza degli interessi generali, ma enti, se non proprio pari ordinati, tenuti almeno a collaborare per tutto ciò che attiene agli interessi comuni, all’ordine della loro casa comune, la “Repubblica”. Sia pure implicitamente, la riforma ci dice dove e come le esigenze unitarie possono e devono trovare la loro tutela: nelle sedi e nelle forme paritarie della leale collaborazione, non in quelle di un intervento dello Stato ispirato a supremazia. Un cambiamento radicale di prospettiva, a cui non potrebbe non corrispondere un cambiamento radicale nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
I segnali di un tale cambiamento la Corte costituzionale li ha già clamorosamente dati: si trovano nella ormai notissima sent. 303/2003[30]. In essa la Corte osserva che, nel nuovo quadro costituzionale, non è pensabile “limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principî nelle materie di potestà concorrente”, perché ciò porterebbe a “svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze”. Il meccanismo che il nostro ordinamento predispone al fine di consentire la necessaria flessibilità nella distribuzione delle competenze legislative sono i principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. È vero che essi sono menzionati come criterio di distribuzione delle sole funzioni amministrative, mentre quelle legislative sono ripartite per materie: me è anche vero che il principio di legalità impone un collegamento preciso tra le due tipologie di funzioni[31], sicché è necessario che “anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge”; il che “conduce logicamente ad escludere che le singole Regioni, con discipline differenziate, possano organizzare e regolare funzioni amministrative attratte a livello nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa attendere a un compito siffatto”. Per cui, va “stabilito che nelle materie di competenza statale esclusiva o concorrente, in virtù dell’art. 118, primo comma, la legge può attribuire allo Stato funzioni amministrative e riconosciuto che, in ossequio ai canoni fondanti dello Stato di diritto, essa è anche abilitata a organizzarle e regolarle, al fine di renderne l’esercizio permanentemente raffrontabile a un parametro legale”. Ma questo trasferimento ascensionale dell’attribuzione amministrativa e legislativa in tanto è legittimo, in quanto “la valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità, e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata”.
Ecco che nella visione della Corte il principio di sussidiarietà manifesta “una vocazione dinamica”, che consente ad essa “di operare… come fattore di flessibilità di quell’ordine in vista del soddisfacimento di esigenze unitarie”; ma gli attribuisce anche “una valenza squisitamente procedimentale”, poiché l’esigenza di esercizio unitario deve realizzarsi in “un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà”. La Corte mostra di prendere a tal punto sul serio il rispetto del principio di collaborazione quale condizione del legittimo esercizio di funzioni di coordinamento in nome dell’interesse nazionale, da richiedere che nel procedimento “l’istanza unitaria venga saggiata nella sua reale consistenza e quindi commisurata all’esigenza di coinvolgere i soggetti titolari delle attribuzioni attratte, salvaguardandone la posizione costituzionale”. Da un lato ciò può consentire alle regioni di dimostrare, nel contraddittorio, “la propria adeguatezza e la propria capacità di svolgere in tutto o in parte la funzione”; dall’altro, se l’attività di coordinamento sia posta dallo Stato senza preventiva intesa, è inevitabile concludere che “essa non vincola la Regione fin quando l’intesa non venga raggiunta”.
Questa inedita giurisprudenza della Corte non deve affatto stupire. Non soltanto perché essa prende sul serio ciò che si è compiuto con la riforma costituzionale e offre un quadro coerente delle molte e non coordinate innovazioni; ma anche perché è stata “preparata” da una serie di decisioni che hanno riguardato la connessione tra le “materie” e gli “interessi”.
La prima sentenza in cui la Corte ha applicato il nuovo Titolo V[32] non parla invero di “interessi”, ma delinea due argomenti che si ritrovano pienamente sviluppati poi nella sent. 303/2003.
Da un lato, afferma icasticamente che, per verificare se una legge regionale rispetti la sua competenza, bisogna muovere “non tanto dalla ricerca di uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento regionale, quanto, al contrario, dalla indagine sulla esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza statale”. Annuncia così una sorta di inversione dell’onere della prova che, in qualche modo, rispecchia sul piano del giudizio quello che, sul piano delle competenze, è rappresentato dall’inversione del criterio di enumerazione delle competenze[33]: sono queste le radici di una visione paritaria, e non più gerarchica, dei rapporti tra Stato e regioni che ha ottenuto l’acclamazione sinora più completa nella sent. 303/2003.
Dall’altro lato la sent. 282/2002 ha inaugurato un’opera di progressiva “smaterializzazione” delle materie[34], destinate a sfaldarsi nel fascio di interessi che in esse si incrociano. Quest’opera inizia proprio con la derubricazione delle “materie” a “non-materie”: nella sent. 282 tocca ai “livelli essenziali”, definiti, insieme all’ “ordinamento civile”, una “competenza trasversale”; nella sent. 407/2002 (ed in alcune successive[35]), è la volta della “tutela dell’ambiente”, che viene rubricata “come "valore" costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia "trasversale"; con la sent. 303/2003 anche i “lavori pubblici” (a cui, per altro, l’art. 117 non accenna) perdono la consistenza di “‘materia’ in senso tecnico”[36], per retrocedere a “ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono”; mentre la sent. 14/2004 sottolinea la “accezione dinamica” che attribuisce alla “tutela della concorrenza” la capacità di giustificare tutti (e solo?) gli interventi di rilevanza macroeconomica dello Stato[37]. Questo sfarinamento delle materie è un fenomeno interessante: che cosa resta della “materia”, se questa perde le sue caratteristiche di “materia in senso tecnico” e diviene un’attività trasversale? Restano, appunto, gli interessi.
La perdita di “fisicità” delle materie a ciò infatti conduce: a ragionare sempre meno in termini di “oggetti”, di “funzioni”, di “competenze”, perché le etichette usate in costituzione sono sempre meno interpretabili come “contenitori” (cioè configurabili “come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata”[38]), adatti a separare gli oggetti e le funzioni, e sempre più in termini di obiettivi comuni, di aree in cui gli interventi si incrociano perché inseguono interessi diversi o perché perseguono lo stesso interesse (per esempio, il “valore costituzionale” della tutela ambientale) movendo da prospettive diverse. Questa trasformazione del concetto stesso di “materia” era già in atto prima della riforma costituzionale, come testimonia la vasta giurisprudenza sul principio di leale cooperazione: ma con la riforma diventa la regola, anziché l’eccezione, e perciò i casi di concorrenza, di sovrapposizione ed anche di scontro tra gli interventi dello Stato e quelli delle regioni si moltiplicano e divengono a loro volta “normali”. Diversamente dal passato, però, questi casi non possono essere più retti dal criterio della prevalenza gerarchica dello Stato, ma devono essere risolti secondo criteri diversi. Ancora una volta è la Corte costituzionale che deve assumersi l’onere della loro elaborazione.
L’opera della Corte è già incominciata; la sua giurisprudenza ci ha già fornito – mi pare – almeno cinque criteri, che provo a disporre in ordine logico.
Dei due criteri iniziali si è già detto. Il primo è il rifiuto, almeno in linea di principio, di estendere illimitatamente in via interpretativa i “titoli” dell’intervento dello Stato, o addirittura di muovere da una presunzione di legittimità di esso: è indubbiamente la premessa di ogni altro ragionamento. Il secondo è la destrutturazione delle “materie” enumerate, e lo spostamento dell’attenzione sugli interessi perseguiti: così da consentire allo Stato di perseguire gli interessi riconducibili alle “sue” materie in ogni altro ambito materiale, anche se ciò lo porta all’interno di “materie” riservate alla regione; ma di consentire anche, viceversa, che la regione allunghi il suo raggio di azione oltre ambiti di propria competenza ogni qual volta l’interesse perseguito sia meritevole di apprezzamento o perché ricollegabile ad un “valore costituzionale” o perché risponde agli interessi della comunità politica di cui la regione è rappresentante.
Il terzo criterio, che mi sembra un lemma del precedente, merita un approfondimento. Potrebbe essere enunciato così: la regione non può modificare i “punti di equilibrio” tra interessi costituzionalmente protetti, quali risultano definiti dalle leggi dello Stato. Non a caso questo criterio è stato elaborato in riferimento alla tutela dell’ambiente. Essendo questa un “valore costituzionale”, alla cui realizzazione sono dunque tenuti tanto il legislatore statale che quello regionale, si pone il problema di come, nella possibile rincorsa ad innalzare il livello di protezione ambientale[39], resti preservato il necessario equilibri tra gli interessi ambientali ed altri interessi costituzionalmente rilevanti quali, in primo luogo, l’iniziativa economica, le esigenze di sviluppo economico, l’efficienza della rete dei trasporti o delle comunicazioni, la proprietà privata. In questo caso la Corte ha “irrigidito” il punto di equilibrio individuato dalla legge dello Stato ponendolo, quale “principio fondamentale”, come argine alle scelte legislative delle regioni[40]. Ma è chiaro che allora la questione della competenza si aggiunge, senza però sostituirle, alle considerazioni che la Corte è solita svolgere quando si trova di fronte a casi di bilanciamento tra interessi costituzionalmente rilevanti: l’accettazione della regola posta dalla legge statale come limite alla potestà legislativa regionale non potrà prescindere da una valutazione, sia pure prima visu, della corrispondenza delle misure legislative poste da uno e dall’altro legislatore ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità[41].
Il quarto criterio potrebbe essere enunciato, usando un’espressione impiegata nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia[42], come la ricerca del “centro di gravità” rispetto agli interessi in gioco. Così come nella giurisprudenza comunitaria questa operazione serve ad individuare quale sia la corretta base giuridica su cui si fonda l’atto sub judice – scelta importante perché da essa dipende l’individuazione del procedimento decisionale da seguire e quindi la definizione delle competenze dei diversi organi – nella giurisprudenza costituzionale la stessa operazione serve ad individuare i ruoli rispettivi del legislatore statale e di quello regionale, nonché a ricostruire la “pluralità di titoli di legittimazione”[43] in nome dei quali essi agiscono. Per svolgere questo compito, la Corte muove dalla ricostruzione della ratio e degli obiettivi dell’atto contestato: è un’operazione che segue, almeno sotto il profilo logico, la precedente mappatura degli interessi in gioco e la suddivisione delle competenze ad essi connesse (secondo criterio). Infatti, ricostruito questo affresco generale, è necessario collocarvi l’atto legislativo in discussione, individuando il suo “centro di gravità” in base agli interessi che esso concretamente persegue. Così, per esempio, nella sent. 94/2003[44], la Corte muove dalla distinzione ormai classica tra tutela e valorizzazione dei beni culturali e dalla attuale distribuzione delle competenze fissate dall’ordinamento vigente, per poi considerare come in questa mappatura si collochi, in ragione della sua ratio e degli obiettivi perseguiti, la legge regionale impugnata. Non diverso percorso, anche se con esiti opposti, la Corte segue nella sent. 282/2002[45], a proposito della legge marchigiana che intendeva vietare specifici interventi terapeutici, o nella sent. 324/2003, a proposito dell’ordinamento delle comunicazioni. Un esempio più chiaro ancora si ha nella sent. 370/2003, in cui la Corte, giudicando di una norma della legge finanziaria 2002 che riguarda gli asili –nido, impiega esplicitamente un “criterio di prevalenza” tra i diversi interessi coinvolti, privilegiando i profili della materia che attengono all’àmbito dell'istruzione.
Il quinto e ultimo criterio è espresso dal principio di leale collaborazione. Esso può avere una versione generale “debole” e una più specifica e più “forte”. La prima si limita a raccomandare al soggetto istituzionale che agisce di considerare la complessità della trama di interessi in cui la sua legge si inserisce, e quindi di tener conto delle altrui competenze: “quando si abbia a che fare con competenze necessariamente e inestricabilmente connesse, il principio di "leale collaborazione"… richiede la messa in opera di procedimenti nei quali tutte le istanze costituzionalmente rilevanti possano trovare rappresentazione”[46]. Nella sua versione più forte, il rispetto del principio di leale cooperazione è la condizione imposta allo Stato quando ritenga di far valere l’interesse nazionale, pur non avendo specifici poteri legislativi in materia, e dà quindi l’avvio al moto ascensionale della sussidiarietà: in questi casi, come ha affermato la sent. 303/2003, o lo Stato ottiene l’intesa della regione, oppure la sua legge non è efficace nei suoi confronti.
Il filo che collega questi criteri è robusto ed è coerente con il quadro d’insieme dei rapporti tra Stato e regioni che si è cercato di tracciare nel paragrafo precedente. Ma, per completarlo adeguatamente, bisogna chiarirne due ulteriori aspetti, sui quali gli equivoci sembrano ancora molto densi.
La scomposizione delle materie nei diversi versanti che emergono dalla considerazione dell’intreccio degli interessi impedisce – si è detto – di concepire una disciplina legislativa della “materia” che non sia anche una disciplina delle competenze e delle procedure di collaborazione tra i diversi livelli di governo. Non è progettabile una disciplina legislativa “in astratto” (per esempio, attraverso la sola fissazione dei “princìpi”); essa è sempre necessariamente anche una regolazione in concreto del modo in cui gli interessi (e le competenze che ad essi si riconnettono) si intersecano. La legge che disciplina la materia è perciò sempre anche una legge sulle procedure di formazione delle decisioni pubbliche nella materia: in larga parte si tratta di decisioni che rientrano nella vasta tipologia degli atti amministrativi. Questo era già ciò di cui ci avvertiva Livio Paladin.
Quanto detto non vale soltanto per le leggi statali, ma
anche per quelle regionali. Le une e le atre hanno il compito di localizzare le
funzioni amministrative al livello più conveniente, in applicazione dei
princìpi di sussidiarietà e di adeguatezza. Correttamente intesi, questi
princìpi devono dissuadere dall’attrarre al livello superiore una funzione solo
perché coinvolge interessi che non sono interamente riducibili ad un
determinato livello di governo. Una simile (e assai frequente) circostanza non
può giustificare - proprio come affermava la sent. 39/1971 della Corte
costituzionale[47] – una “riserva preventiva e generale”: può essere sufficiente, per garantire gli
interessi di dimensione superiore, prevedere vincoli procedurali, strumenti di
programmazione, procedure di coordinamento, purché vengano disegnati nel
rispetto del canone della “leale collaborazione”.
Vi è un aspetto
della sent. 303/2003 che ha particolarmente colpito i commentatori. Nello
schema ricostruttivo proposto, la Corte muove dal riconoscimento della
possibilità che lo Stato trattenga alcune funzioni amministrative nelle materie
regionali per tutelare le esigenze unitarie, e poi risale, in nome del
principio di legalità, al necessario riconoscimento di un corrispondente potere
di disciplinare tale funzioni con legge. Lo ha fatto in relazione alla sola
competenza legislativa concorrente dello Stato, ma a me non pare dubbio che il
ragionamento che ha seguito possa essere esteso anche, per un verso, alla
legislazione regionale nei confronti degli enti locali e, per un altro, alla
legislazione statale nelle materie di competenza esclusiva dello Stato e
“residuale” delle regioni[48].
Il risultato è che,
in una certa misura, viene smentita una delle convinzioni più diffuse tra i
primi commentatori della riforma del Titolo V, ossia che essa abbia decretato
il superamento del c.d. principio
del parallelismo delle funzioni.
Il suo superamento sarebbe stato causato, infatti, dalla scelta del legislatore
costituzionale di adottare tecniche diverse di organizzazione delle funzioni,
rispettivamente, legislative e amministrative: ripartite le prime in base ad
elenchi rigidi di materie, le seconde in base ai criteri flessibili di
sussidiarietà e adeguatezza. Questa impostazione avrebbe ovviamente delle
conseguenze molto nette, soprattutto nel senso dello sdoppiamento del piano
della legislazione, su cui resterebbero protagonisti lo Stato e le regioni, e
quello dell’amministrazione, su cui i protagonisti sarebbero essenzialmente i
comuni e poi, via via risalendo, gli altri enti.
È una ricostruzione
che non mi ha mai persuaso[49]
perché il principio di “parallelismo” e il principio di “sussidiarietà” stanno
su piani diversi, muovono in prospettive differenti e perciò, nel contesto
della costituzione vigente, non sono in contrasto. E poi perché, come la Corte
sottolinea nella sent. 303, il principio di legalità – che è proprio il seme da
cui la vecchia giurisprudenza aveva tratto lo spunto per elaborare la dottrina
del parallelismo[50] – impone
che le funzioni dell’amministrazione trovino sempre nella legge il proprio
fondamento di legittimità. Se – come la sent. 303 afferma – sono da
ammettersi attività di amministrazione attribuite allo Stato per la cura di
esigenze unitarie, queste attività devono essere previste e disciplinate dalla
legge; lo stesso si può ripetere per le analoghe attività che le regioni devono
trattenere per coordinare le amministrazioni locali[51].
Se, in nome della sussidiarietà, si deve salire di uno o più piani nella
pila degli enti di governo per assicurare un livello adeguato di
amministrazione, in nome della legalità si deve mettere nell’ascensore anche
una porzione adeguata del potere legislativo. È esattamente la stessa linea del
ragionamento che la Corte costituzionale ha sviluppato negli anni ’70, solo che
il senso di marcia dell’ascensore si è invertito, proprio perché si è invertita
– in nome della sussidiarietà - la tecnica di enumerazione delle materie:
allora si trattava di giustificare l’esercizio del potere legislativo regionale
per “coprire” le funzioni “scese” per delega dello Stato; oggi si tratta invece
di giustificare l’esercizio del potere legislativo statale (e regionale) per
“coprire” le funzioni fatte risalire dallo Stato (o dalla regione), “al fine di renderne l’esercizio
permanentemente raffrontabile a un parametro legale"[52]. Come è
stato intelligentemente notato[53],
la Corte sembra leggere nell’art. 118.2, Cost. non un semplice richiamo del
principio di legalità, ma una precisa riserva di legge “per l’allocazione e la distribuzione delle
funzioni amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo”[54].
Ciò comporta precise conseguenze per l’ultimo tema che intendo affrontare,
quello del potere regolamentare.
La sent. 303/2003 sembra aver posto in chiaro che “alla fonte secondaria statale è inibita in radice la possibilità di vincolare l’esercizio della potestà legislativa regionale o di incidere su disposizioni regionali preesistenti”. Sembra così risolta una prima questione, il rapporto che intercorre tra i regolamenti statali e le fonti regionali. Come osserva opportunamente Ruggeri[55], il significato di queste affermazioni della Corte si estende infatti anche ai rapporti tra regolamento statale e regolamento regionale, accentuando la separazione tra i due ordinamenti. Questo però è l’effetto, non già la causa della limitazione di efficacia dei regolamenti statali. Il punto è interessante e merita un approfondimento.
In una precedente occasione[56], trattando degli atti che determinano i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie, la Corte aveva affermato l’esigenza che scelte capaci di penetrare così a fondo nelle attribuzioni regionali “siano operate dallo Stato con legge”: ma non aveva affatto escluso che le previsioni legislative vengano integrate da successivi atti non legislativi[57], di fatto avvalorando il sistema attuale, che si impernia su una procedura definita dalla legge ed integrata da D.P.C.M. emanati previa intesa con la Conferenza Stato-regioni. Riserva (non assoluta) di legge e applicazione “forte” del principio di leale collaborazione vengono posti come presidi costituzionali che contemperano le esigenze unitarie con le prerogative dell’autonomia.
Si noti che, trattandosi di esercitare una attribuzione che
la lett. m) dell’art. 117.2 Cost. assegna alla potestà legislativa
esclusiva dello Stato, sarebbe ammissibile, in linea di principio, che lo Stato
integri la legge attraverso atti regolamentari, dato il “parallelismo” tra
potestà legislativa e potestà regolamentare che l’art. 117.6 istituisce. La
Corte, per altro, non lo esclude affatto nella decisione appena citata: la
legge – afferma – “dovrà… determinare adeguate procedure e precisi atti
formali per procedere alle specificazioni ed articolazioni ulteriori che si
rendano necessarie nei vari settori”, ed annulla il D.M. all’origine del
conflitto di attribuzione perché manca di base legale e infrange le procedure
di collaborazione. Tuttavia, se leggiamo queste affermazioni assieme a quanto
la Corte ha chiarito nella sent. 303/2003, scopriamo che il ricorso al D.P.C.M.
o al regolamento non sono affatto scelte fungibili: “la legge stessa – afferma nella seconda sentenza - non può spogliarsi della funzione regolativa affidandola a fonti
subordinate, neppure predeterminando i principî che orientino l’esercizio della
potestà regolamentare, circoscrivendone la discrezionalità”. Il punto, come appare evidente, sta nella
“funzione regolativa”: è questa che marca la differenza di
contenuto tra i D.P.C.M. e i regolamenti. Sembra riecheggiare quanto la vecchia
giurisprudenza costituzionale è venuta spesso predicando, e raramente
praticando, a proposito del “contenuto” degli atti di indirizzo e coordinamento
ed al margine di autonomia lasciato alle regioni. Ricompare insomma quella
impercettibile, se si vuole, ma irrinunciabile distinzione di contenuti che
faceva sì che, già prima della riforma costituzionale, ai regolamenti
governativi fosse impedito di imporsi alle regioni, ciò che agli atti di
indirizzo era invece permesso.
Oggi, come sottolinea la Corte nella sent. 303, tutto ciò risulta più nitido proprio per il principio di parallelismo tra funzione legislativa esclusiva e funzione regolamentare dello Stato: questo principio provoca come conseguenza che “neppure i principî di sussidiarietà e adeguatezza possono conferire ai regolamenti statali una capacità che è estranea al loro valore, quella cioè di modificare gli ordinamenti regionali a livello primario”. La Corte, in questa sentenza, ha di fronte esclusivamente il problema, già altre volte affrontato, degli effetti che i regolamenti di “delegificazione” producono sulla legislazione regionale, ma il suo ragionamento non può che portare a più ampie conseguenze: che nessun “effetto giuridico” (uso per il momento una locuzione assai ambigua, che intendo chiarire in seguito) può essere prodotto dai regolamenti statali nella sfera regionale, neppure nei confronti dei regolamenti regionali[58]. La soddisfazione di esigenze unitarie può permettere, attraverso un procedimento di leale collaborazione, una deroga alla ripartizione costituzionale delle attribuzioni e giustificare che lo Stato eserciti determinate funzioni amministrative e, per rispetto del principio di legalità, le disciplini con legge: ma non si può ammettere che queste funzioni siano di tipo regolativo, che la legge dello Stato autorizzi un regolamento (come ancora sottolinea la sent. 303) a “degradare le fonti regionali a fonti subordinate ai regolamenti statali o comunque a questi condizionate”. È possibile che, in linea di continuità con la sua precedente giurisprudenza[59], la Corte finisca con ammettere che lo Stato emani norme regolamentari anche fuori dalle materie di sua competenza esclusiva, quando servano ad integrare la disciplina delle funzioni che esso attrae a sé in via sussidiaria[60]; purché, ovviamente, tali norme riguardino soltanto le sue proprie attività e non pretendano di imporsi in alcun modo alle regioni[61]. Insomma, le fonti del diritto statali che possono incidere sulle fonti regionali, producendo un legittimo vincolo giuridico (anche questa locuzione resta per il momento ambigua), non possono assumere forme diverse da quelle proprie degli atti legislativi[62]; gli altri atti, diretti a limitare le competenze, anche legislative, delle regioni in nome delle esigenze unitarie (e prodotti secondo i canoni della sussidiarietà e della leale collaborazione) non possono viceversa avere “funzione regolativa”, ossia, sul piano dell’efficacia, non possono porsi come fonti del diritto in senso stretto.
Queste considerazioni riguardano le relazioni tra fonti statali e fonti regionali in materie di legislazione concorrente e, forse, nelle materie residuali: e nelle materie di competenza esclusiva dello Stato?
Qui affiora un altro equivoco. La dottrina unanime “legge” l’art. 117.6 Cost. come se, fissando la delimitazione del potere regolamentare dello Stato alle sole materie di sua competenza esclusiva, tale norma si limiti a prevedere che il potere regolamentare possa essere delegato alle regioni. È un’interpretazione gravida di conseguenze, che si risentono nella stessa scrittura degli Statuti regionali, aggiungendo inutili complicazioni a quelle (anch’esse, a dire il vero, non tutte necessarie) che già ci sono. Se davvero lo Stato “delegasse” i regolamenti alle regioni, quale sarebbe il fondamento di legalità di tali regolamenti se non la stessa legge statale di “delega”? Ecco che allora la supposta separazione degli ordinamenti, rispettivamente, dello Stato e della regione verrebbe a incrinarsi: nell’ordinamento regionale apparirebbero dei regolamenti “delegati” privi di una copertura legislativa regionale (da qui l’esigenza di prevedere nello Statuto che essi siano riportati sotto il controllo del Consiglio regionale, per evitare che ne resti compromesso il suo monopolio legislativo[63]).
Nonostante il vasto consenso che l’ha accolta, nulla mi sembra suffragare questa interpretazione[64]. Non l’argomento letterale, dato che nessun segno linguistico lega il soggetto della proposizione principale (“la potestà regolamentare”) alla clausola limitativa (“salva delega alle regioni”) [65]; non l’argomento logico, dato che proprio non c’è motivo per cui lo Stato debba (ovviamente con una legge) rinviare alle Regioni la disciplina secondaria di una materia di sua competenza esclusiva, magari contestualmente conferendo, in nome del principio di sussidiarietà, le relative funzioni amministrative agli enti locali, che a loro volta potrebbero esercitare il proprio potere regolamentare “in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”; non certo l’argomento sistematico, perché questa interpretazione ingenera problemi di sistema sia per ciò che riguarda i rapporti tra fonti statali e fonti regionali, sia per quanto attiene ai rapporti tra gli organi e le fonti della stessa regione; e neppure l’argomento storico, che all’opposto ci mostra quale sia stata la strada segnata in passato e che tutto dovrebbe consigliare di seguire in futuro.
“Lo Stato può con legge delegare alla regione l’esercizio di altre funzioni amministrative”, stabiliva il vecchio testo dell’art. 118.2 Cost. Come tutti sanno, questa norma ha avuto un impiego talmente esteso da controbilanciare in qualche misura la perdita di spessore che le potestà legislative regionali hanno subito per effetto dello “schiacciamento” verso il basso che si era prodotto. Proprio in certe materie che ora sono dichiarate di competenza esclusiva dello Stato, in particolare la “tutela dell’ambiente”, le regioni avevano ottenuto nel tempo vaste funzioni amministrative (cui, per il principio del “parallelismo”, corrispondevano le relative funzioni legislative). Nessuno avanza l’ipotesi che queste funzioni siano venute a cadere, né che lo Stato non possa aggiungerne di nuove in futuro: anzi, il principio di sussidiarietà lo auspica e la Corte ha sdegnosamente rifiutato l’ipotesi che, nelle materie “esclusive” dello Stato, le funzioni delegate alle regioni debbano essere disciplinate da queste solo attraverso regolamenti (o leggi “degradate” a livello di regolamento)[66]. Basti considerare che attualmente quelle funzioni sono disciplinate, per lo più, con legge regionale; visto che lo Stato non può produrre la “delegificazione” in àmbito regionale (lo ha ribadito, da ultima, la stessa sent. 303/2003), queste leggi potranno essere modificate soltanto da leggi regionali successive, non certo ad opera dei regolamenti regionali che si suppongono “delegati” ai sensi dell’art. 117.6 Cost.
Per certi versi è sorprendente che la Corte costituzionale abbia dovuto ricordare alla dottrina che anche in àmbito regionale i regolamenti sono sottoposti al principio di legalità (e alla riserva di legge, quando ricorra). Il “costruttivismo interpretativo” aveva gonfiato le vele di un vascello ermeneutico che, rotti gli ormeggi, procedeva sciolto da vincoli testuali e sistematici: ma la Corte ha ribadito che il potere regolamentare, anche a livello regionale, incontra precisi vincoli nello Statuto (sent. 303/2003) e nelle leggi regionali (sent. 324/2003). Perché mai questi vincoli costituzionali dovrebbero allentarsi se la legge ordinaria dello Stato “delega” il potere regolamentare alle Regioni? E se per ipotesi lo Statuto prevedesse un sistema di riserve di legge per cui quelle norme “delegate” devono essere necessariamente emanate con legge regionale (per esempio perché comportano effetti sull’amministrazione locale)? E perché mai dovrebbe derogarsi in questo caso al principio generale della separazione tra l’ordinamento statale e quello regionale, principio che mi pare stia emergendo finalmente con una certa chiarezza dalla giurisprudenza costituzionale?
Non si deve infatti confondere il principio di separazione degli ordinamenti normativi (che limita le interferenze che gli atti di un ordinamento producono sugli atti dell’altro) con il principio di separazione delle competenze (che delimita i campi di azione delle fonti dei due ordinamenti). A me sembra che, in nome delle esigenze unitarie e del principio di sussidiarietà, la Corte ammetta la flessibilità nel sistema delle competenze, ma che ciò non comporti di necessità l’attenuazione della separazione degli ordinamenti; lo prova la grande circospezione con cui, almeno per il momento, la Corte deroga al principio di separazione degli ordinamenti ammettendo che norme di dettaglio siano contenute, con funzione “suppletiva”, nelle leggi dello Stato[67].
Insomma, mi sembra che l’interpretazione più appagante porti a ritenere che la “delega” di cui parla l’art. 117.6 Cost. non abbia ad oggetto il potere regolamentare, bensì le funzioni amministrative. Può non convincere che la costituzione impieghi in questo contesto il termine ‘delega’, mentre negli articoli successivi si parla di ‘attribuzione’ o ‘conferimento’[68]. Un particolare che però non mi sembra affatto decisivo, dato che la “delega” è pur sempre una forma di “conferimento”: oltretutto, se all’interno della opaca categoria neologistica del ‘conferimento’ ripristinassimo la tradizionale alternativa tra ‘delega’ e ‘trasferimento’, ben difficilmente potremmo supporre che, in materia di potestà esclusiva dello Stato, le funzioni “conferite” alle regioni comportino un trasferimento della titolarità delle funzioni stesse. Per cui, nella lettura delle disposizione che propongo, l’impiego del termine ‘delega’ non è affatto sconveniente.
In base al principio di sussidiarietà, quando lo Stato
ritenga che non vi siano precise ragioni unitarie per trattenere a sé le
funzioni amministrative correlate alle sue competenze esclusive, dovrebbe conferirle
ai comuni o ad altro ente “adeguato”. Questo ente, se diverso dalla regione,
può disciplinare “l’organizzazione e lo svolgimento” di tali funzioni
solo attraverso un regolamento amministrativo locale; il quale però non ha
capacità normativa sufficiente per esaurire tutto lo spazio di normazione
integrativa che la legge lascia libero; perciò non si può escludere che lo
Stato emani un regolamento di attuazione della sua legge e che questo
costituisca per l’ente locale un vincolo[69].
Diverso è il caso in cui lo Stato decida di conferire alla regione l’esercizio
di determinate funzioni amministrative che, per definizione (rectius,
per sussidiarietà) non potranno che essere di carattere normativo, di
programmazione, di indirizzo, di controllo, di “alta amministrazione” (le altre
devono infatti “scendere” al livello locale). Come la regione le svolga,
attraverso quale tipologia di atti, non può certo determinarlo la legge dello
Stato, essendo questione ricadente nell’autonomia statutaria della regione (o
nella stessa disciplina costituzionale, quanto meno per ciò che attiene ai
diritti e alle riserve di legge). È perfettamente coerente con i princìpi del
sistema che, laddove la regione abbia acquisito uno spazio che disciplina con
propria legge, non possa lo Stato vincolarla con un regolamento: né, tra la
legge (dello Stato) e l’atto di alta amministrazione (della regione), vi
sarebbe lo “spazio fisico” per un regolamento statale; semmai, in quello
spazio, potrebbe insinuarsi un atto di indirizzo o di programmazione che, come poi
vedremo, è tutt’altra cosa. Siamo ritornati dunque all’affermazione d’esordio,
ossia che nessun “effetto giuridico”
può essere prodotto dai regolamenti statali nella sfera regionale, neppure
laddove lo Stato vanti competenza esclusiva e coinvolga la regione
nell’esercizio delle funzioni amministrative.
Si possono allora trarre alcune conclusioni interessanti. Sembra che, per la prima volta nella nostra storia, la costituzione non delimiti con chiarezza le sole “fonti primarie”, come vuole il modello kelseniano, rinviando alla legge ordinaria la disciplina delle fonti gerarchicamente inferiori, ma definisca l’intero sistema delle fonti-atto, inclusi i regolamenti amministrativi. Non voglio affatto intendere, come pure è stato ipotizzato[70], che il potere regolamentare del Governo trovi oggi in costituzione un fondamento diretto che lo affranca dal vincolo alla legge: le sentenze della Corte costituzionale citate sin qui sembrano chiare nel confermare, all’opposto, la piena vigenza del vincolo che lega l’esercizio del potere regolamentare alla legge. Tuttavia mi sembra giusta l’intuizione, espressa da gran parte della dottrina, per cui la riforma del Titolo V avrebbe profondamente inciso sul sistema delle fonti normative: mi pare però che l’abbia fatto in un senso ben preciso, nel senso di “chiudere” il sistema degli atti normativi, “tipicizzando” anche le fonti secondarie[71]. Provo a riassumere le argomentazioni che sembrano suffragare questa ipotesi:
a) per le ragioni esposte in precedenza, lo Stato non può imporre i suoi regolamenti alle regioni. Le norme dell’art. 117 Cost. vanno lette, mi sembra, non tanto in termini di restrizione della titolarità del potere regolamentare – come invece tende a fare il Consiglio di Stato[72], d’accordo per altro con larga parte della dottrina - ma piuttosto in termini di efficacia dei regolamenti statali. Sia che lo Stato agisca in materie “esclusive”, sia che ricorra a regolamenti per integrare la disciplina di funzioni attratte al centro per ragioni di sussidiarietà e adeguatezza, il risultato è lo stesso: i regolamenti dello Stato possono disciplinare solo le funzioni amministrative svolte dalle strutture statali, non anche quelle regionali[73];
b) è invece ammesso che lo Stato rivolga alle regioni atti che sono privi di funzione normativa, ma assolvano a compiti di indirizzo, coordinamento o programmazione. Sia che essi insistano su materie “esclusive” dello Stato (sent. 88/2003), su materie “concorrenti” (sent. 303/2003) o su materie “residuali” (qui manca ancora però una pronuncia della Corte), tali atti sono legittimi se corrispondono ai principi di stretta legalità (che si confonde per altro con la riserva di legge dell’art. 118 Cost.) e di leale collaborazione. Sotto questo profilo, dunque, vengono confermati i requisiti che la Corte aveva elaborato al fine di sottoporre l’esercizio, in via amministrativa, della funzione di indirizzo e coordinamento a dei test che per altro hanno dimostrato in passato un notevole grado di affidabilità[74];
c) gli atti a cui si è appena accennato non si impongono però alle regioni, come in passato, in nome del limite dell’interesse nazionale e della legge che ne riconosce la prevalenza sulle attribuzioni regionali, ma per una ragione del tutto diversa. Se, come si è sostenuto nelle pagine precedenti, l’asse delle relazioni tra Stato e regioni si è in una certa misura spostato dal piano del rapporto di gerarchia a quello della pariordinazione (senza la quale, a ben vedere, non avrebbe neppure senso il nuovo modello di riparto delle competenze legislative), l’atto (legislativo o regolamentare) regionale che contraddicesse l’atto (non legislativo né regolamentare) statale sarebbe illegittimo non per violazione dell’interesse nazionale, ma per lesione del principio di leale collaborazione. È una differenza gravida di conseguenze, come poi si vedrà;
d) tutto quanto precede pone al centro dell’attenzione la distinzione tra regolamenti e altri atti di indirizzo (uso questa espressione come riassuntiva delle diverse tipologia di atti generali, programmi, intese ecc.). È proprio su questa distinzione che regge il modello interpretativo che ho tracciato; ed è proprio per questa distinzione che mi sembra di poter giungere alla conclusione che l’universo degli atti normativi, per effetto della riforma, è ormai chiuso da norme costituzionali.
La distinzione tra gli atti normativi e gli atti non normativi (come pure, all’interno dei primi, la distinzione tra le fonti primarie e quelle secondarie) non può fondarsi su una diversità di contenuti prescrittivi, cioè sul differente modo di fraseggiarne le disposizioni. Così come, sotto il profilo della sostanza prescrittiva, leggi e regolamenti sono interscambiabili, per lo stesso profilo entrambi possono sovrapporsi ad atti amministrativi generali, ad accordi, intese, programmi, contratti ecc. Come si scrivono le regole non ci dice molto sulla natura dell’atto che le contiene: questa è determinata dalla forma dell’atto, che a sua volta è connessa al procedimento con cui l’atto è prodotto, il quale poi giustifica la forza regolativa che l’ordinamento ad esso attribuisce. Il tutto è ovvio, ma le implicazioni spesso sfuggono.
Quando, a seguito della legge cost. 3/2001, il Consiglio di Stato[75] eccepì al Governo che la riforma del Titolo V aveva rigidamente delimitato il potere regolamentare dello Stato e che perciò non erano più ammessi, in materie diverse da quelle “esclusive”, decreti ministeriali a contenuto regolamentare, il Governo cercò di eludere il problema precisando, nella legge attributiva del potere, che il ministro era autorizzato ad emanare decreti “non aventi valore regolamentare”[76]. I commentatori parlarono di “truffa delle etichette”[77], risultando evidente che per questa via si cercava di aggirare, ad un tempo, il limite posto dall’art. 117.6 Cost. e il parere obbligatorio del Consiglio di Stato, previsto per i regolamenti dall’art. 17 della legge 400/1988: “l’interpretazione in senso non regolamentare di un certo decreto compiuta dal legislatore – si è giustamente osservato[78] – non può avere altro significato che l’assoggettamento a un regime positivo diverso da quello previsto per i regolamenti”. Questo era indubbiamente l’intentio legis. Ma ora potremmo forse supporre che, al di là degli scopi che hanno mosso il legislatore, l’esplicita dichiarazione del “valore non regolamentare” di un atto serva proprio ad escluderlo dal novero degli atti che hanno una “funzione regolativa”, ossia dalle fonti del diritto. Gli atti in questione non sono assoggettati al “regime positivo” dei regolamenti, perché non sono destinati ad averne l’efficacia giuridica.
Non voglio certo giustificare le pratiche di “fuga dal regolamento”, di elusione delle regole costituzionali sul riparto delle funzioni, di sottrazione degli atti dal procedimento prescritto dalle leggi vigenti; intendo semplicemente segnalare un fenomeno che mi sembra rivestire un certo interesse anche perché pare confermare la costruzione interpretativa che ho proposto. In essa si evidenzia una distinzione, che mi sembra emergere dalla giurisprudenza costituzionale sul nuovo Titolo V, tra ciò che lo Stato può fare solo con atto normativo (primario o secondario) e ciò che può fare solo con atto non normativo: mentre gli atti normativi sono giocoforza soggetti ad una disciplina procedurale precisa e sono “nominati”, non così è - per definizione, si potrebbe dire - per gli atti non normativi. Essi appartengono alla categoria di atti che oggi, con termine tanto in voga quanto fuorviante, si definisce soft law: atti che sembrano diffondersi con impressionante prolificità nei sistemi caratterizzati dall’introduzione di importanti modifiche nel sistema delle relazioni tra livelli di governo[79]. È un’espressione fuorviante per il semplice fatto che questi atti, almeno nel nostro ordinamento, non sono affatto fonti di “diritto”.
Naturalmente questa affermazione sconta tutte le difficoltà di una definizione di “fonte di diritto” che rischiari le tante zone d’ombra che la circondano[80]. Gli atti in questione non sono “fonti” almeno nel senso che non creano obblighi o diritti nell’ordinamento generale, non possono essere fatti valere nei confronti dei privati, sono indifferenti alla disciplina generale delle fonti, compresi i principi di gerarchia e di tipicità, le norme sull’abrogazione, la regola jura novit curia[81]; essendo frutto di “collaborazione” tra istituzioni, rientrano nella piena disponibilità dei soggetti che decidono di collaborare e lo possono fare in forme non corrispondenti a quelle, necessariamente rigide, poste dalle norme costituzionali sul riparto delle attribuzioni (le quali, come il Consiglio di Stato ha correttamente sottolineato[82], “sono poste dalla Costituzione nell'interesse dell'ordinamento generale e di tutti i soggetti dell'ordinamento e non sono nella disponibilità dei soggetti ai quali la competenza è attribuita”).
Talmente scivolosa è però la categoria del soft law che anche l’elenco delle differenze tra questi atti e gli atti normativi deve interrompersi qui, ed anzi è necessario ritornare indietro di qualche passo per precisare quanto si è appena affermato. È probabilmente vero che intese, accordi, pseudo-regolamenti, D.P.C.M., piani e programmi non sono rigorosamente soggetti alle regole costituzionali sulle attribuzioni[83]; ma è anche vero che gli atti che si compiono in loro esecuzione lo sono appieno (perché non si può modificare in via convenzionale l’assetto delle attribuzioni[84]). È probabilmente vero che questi atti non sono soggetti alle regole sulla formazione degli atti normativi; ma è anche vero che spesso è nella legge generale (per esempio, nel d.lgs. 281/1997 che disciplina il funzionamento del “sistema delle Conferenze”) o in quella particolare (come è richiesto dalla sent. 303/2003, in nome del principio di legalità) che essi trovano una puntuale disciplina. È probabilmente vero che gli atti in questione non sono opponibili ai soggetti che non hanno partecipato alla loro formazione (e perciò non sono fonti del diritto generale); ma è anche vero che essi vincolano i soggetti che hanno “collaborato” alla loro formazione[85] e che questo vincolo può probabilmente essere fatto valere anche da “terzi” nel giudizio sul provvedimento finale (almeno nei termini in cui si possono far valere atti che, come le circolari, sono visti come auto- o eterolimitazioni dei poteri discrezionali di un’autorità amministrativa[86]).
Proprio al vincolo che essi producono vorrei dedicare una considerazione conclusiva. Distinguerei due ipotesi: nella prima l’atto di soft law è previsto da un atto legislativo emanato dallo Stato (in materia di sua competenza, oppure perché, in nome della sussidiarietà, sta regolando funzioni amministrative che ha attratto a sé); nella seconda ipotesi esso invece nasce e resta su un terreno squisitamente politico (è quanto accade, per esempio, per gli accordi “liberi” previsti dall’art. 4 d.lgs. 281/1997). Nel primo caso non appare dubbio che l’atto in questione, che verrà emanato nel rispetto di procedure di leale collaborazione, dovrà essere rispettato in seguito sia dallo Stato che dalle regioni nell’assumere i provvedimenti conseguenti. Inadempienze e difformità dovranno essere sanzionate, se il provvedimento ha natura amministrativa, per violazione della legge, oppure, se si tratta invece di un atto legislativo, per violazione del principio di leale collaborazione. Nel secondo caso, gli atti di soft law sprovvisti di una base legislativa non per questo saranno del tutto improduttivi di effetti vincolanti per i soggetti che gli hanno prodotti; se non sembrano poter generare alcun vincolo giuridico che possa riflettersi direttamente sulla validità degli atti conseguenti, né possono incidere, modificandolo, sull’ordine costituzionale delle competenze, tuttavia la loro violazione avrà rilevanza in ogni contesto in cui il rispetto del principio di leale collaborazione possa entrare in considerazione[87]: ciò può accadere in ipotesi tutt’altro che infrequenti se è vero quanto sostenuto in precedenza[88] a proposito dell’uso “generale e debole” che la Corte costituzionale fa del principio di leale cooperazione come criterio di soluzione della sovrapposizione in tante “materie” tra interessi tutelati dallo Stato e interessi perseguiti dalle regioni.
A fronte della diffusione di atti prodotti in seguito a procedure di leale cooperazione e della rilevanza che essi assumono, come si è appena visto, anche nel giudizio sulla legittimità degli atti, diviene cruciale che siano messi a fuoco i meccanismi di raccordo tra lo Stato e le regioni. L’incerta disciplina legislativa che disciplina le procedure di leale collaborazione e, in particolare, la Conferenza Stato-regioni appare ormai del tutto insufficiente[89] ed inadeguata a regolare processi attraverso i quali prendono corpo i princìpi costituzionali di sussidiarietà e di cooperazione e divengono flessibili i criteri costituzionali di ripartizione delle funzioni. La “costituzionalizzazione” dei fondamenti di tale disciplina è, probabilmente, l’unica riforma oggi davvero urgente.
[1] L.PALADIN, Problemi legislativi e interpretativi nella definizione delle materie di competenza regionale, in "Foro amm." 1971, III, 3 ss.
[2] Paladin si riferiva in particolare, oltre che all’art. 117 Cost., agli elenchi contenuti negli Statuti speciali.
[3] Op.cit., 8.
[4] Op.cit., 35.
[5] Il che sembrerebbe implicitamente smentire le preoccupazioni di chi (S.MANGIAMELI, Sull'arte di definire le materie dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in “Le Regioni” 2003, 1, 337 ss., 338) ritiene che anche oggi, pur essendo invece enumerate in costituzione le sole “materie” di competenza dello Stato, l’impiego del criterio teleologico “determinerebbe sempre lo spostamento di oggetti (raggiunti teleologicamente) dalla legge regionale a quella statale, e ciò in ragione del fatto che detto criterio applicato nei confronti di una competenza “anonima” e a vantaggio di una “titolata” determina uno spostamento materiale di tipo oggettivo”.
[6] L. PALADIN, op.cit., 27.
[7] Op.cit., 31.
[8] Op.cit., 39.
[9] Op.cit., 40.
[10] Op.cit., 41.
[11] Per un commento a questa disposizione, cfr. R. BIN, La delega relativa ai principi fondamentali della legislazione statale (Commento all’articolo 1, commi 2-6), in Stato, regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, a cura di G. Falcon, Bologna 2003, da cui questo paragrafo e il successivo traggono le tesi salienti.
[12] Art. 1, co. 4, della legge 131/2003.
[13] Ipotesi qualificata come “aberrante” da A. D’ATENA, Legislazione concorrente, principi impliciti e delega per la formulazione dei principi fondamentali, in Forum di Quad.cost. (http://www.unife.it/forumcostituzionale /contributi/titoloV5.htm#ada). Vi è da notare, inoltre, che l’illegittimità di una delega siffatta viene da altri sostenuta sulla base di un argomento più specifico, ossia che in base all’art. 11 della legge cost. 3/2001 sussisterebbe una vera e propria riserva di Assemblea per l’approvazione delle leggi di principio in materia concorrente, con l’obbligatorio parere della Commissione bicamerale integrata: per cui la riserva di assemblea si tradurrebbe anche in una riserva di legge formale, tale da escludere l’intervento di atti con forza di legge del governo; in questo senso, cfr. ad es. ASTRID, La riforma del titolo V della Cost. e i problemi della sua attuazione, in Federalismi.it (http://www.federalismi.it/federalismi/document/ACFC062.pdf), nonché F. PIZZETTI, Audizione del Presidente dell'A.I.C. al Senato sulla revisione del Titolo V, parte II della Costituzione - Risposte dei soci dell'A.I.C. ai quesiti (http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/materiali/speciali/senato/pizzetti.html).
[14] Proprio su questo punto si è accentrata l’attenzione del dibattito parlamentare, che ha condotto all’approvazione di un emendamento teso a rafforzare il carattere meramente ricognitivo dell’attività delegata al Governo, restando riaffermata la competenza esclusiva del Parlamento a determinare i princìpi fondamentali delle materia: cfr. i lavori della Commissione Affari costituzionali del Senato, in prima lettura referente, seduta notturna del 22 ottobre 2002. I lavori preparatori della legge sono raccolti dal Servizio studi del Senato nel Quaderno di documentazione n. 36, Roma 2003.
[15] Va ricordato infatti che l’art. 1, co. 5 della legge di delega autorizza il Governo ad allargare il suo compito: “nei decreti legislativi di cui al comma 4, sempre a titolo di mera ricognizione, possono essere individuate le disposizioni che riguardano le stesse materie ma che rientrano nella competenza esclusiva dello Stato a norma dell’articolo 117, secondo comma, della Costituzione”.
[16] Cfr. M. SCUDIERO, Legislazione regionale e limite dei princìpi fondamentali: il difficile problema delle leggi cornice, in “Le Regioni” 1983, 7 ss., cui adde R. BIN, Legge regionale, in Digesto disc. pubbl. IX, Torino 1994. Per le ripercussioni sul piano della teoria dei rapporti tra legge statale e legge regionale cfr. R.TOSI, “Principi fondamentali” e leggi statali nelle materie di competenza regionale, Padova 1987, la quale giustamente osserva che la determinazione legislativa delle materie è “espressione di un potere diffuso nell’intera funzione legislativa dello Stato, piuttosto che… oggetto di una competenza appositamente attribuita per limitare il legislatore locale” (127).
[17] Sent. 138/1972.
[18] Si veda a tale proposito la sent. 282/2002. Sull’argomento cfr. E. LAMARQUE, Osservazioni preliminari sulla materia “ordinamento civile”, di esclusiva competenza statale, in questa Rivista 2001, 1343 ss.; V. ROPPO, Diritto privato regionale?, in Pol.dir. 2002, 553 ss.
[19] Che “tra i compiti spettanti al legislatore statale… quello relativo alla disciplina di principio… si dimostra meno di altre operazioni finalizzato all’attuazione della riforma regionale; mentre in questa direzione assumono assai maggiore rilievo… la precisa individuazione dei settori di competenza regionale e il loro riordino sul piano organizzativo” è ben dimostrato, in relazione al quadro costituzionale precedente alla riforma, da R.TOSI, “Principi fondamentali” cit., 161.
[20] Così Crisafulli, citato dal L.PALADIN, Op. cit., 7.
[21] Questo paragrafo riprende e sviluppa le tesi già esposte in L'interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei problemi, discontinuità della giurisprudenza costituzionale, in “Le Regioni” 2001, 1213-1222
[22] Cfr. A. BARBERA, Chi è il custode dell'interesse nazionale?, in “Quad.cost.” 2001, 345 s. e Scompare l’interesse nazionale?, nel “Forum di Quaderni cost.”.
[23] Cfr. R.TOSI, A proposito dell’interesse nazionale,
in
“Quad. cost.” 2002, 86 ss.
[24] In questo senso, per esempio, G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione, in “Le Regioni” 2001, 1247 ss., 1251; C.PINELLI, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in “Foro it.” 2001, V, 194 ss., 199; P.CAVALERI, La nuova autonomia legislativa delle regioni, ivi 199 ss., 202; G. CAIA, Il problema del limite degli interessi nel nuovo ordinamento, in www.federalismi.it
[25] Cfr. S. BARTOLE, Supremazia e collaborazione nei rapporti tra Stato e regioni, in “Riv.trim.dir.pubbl.” 1971, 84 ss., 116 ss.
[26] Queste conclusioni sono più ampiamente argomentate in L'interesse nazionale dopo la riforma cit.
[27] Che lo sia solo “tendenzialmente” è dimostrato dal permanere in capo allo Stato di una speciale posizione di prevalenza a tutela dell’unità e integrità dell’ordinamento, che si manifesta sia nella diversa posizione processuale rispetto alle regioni (da cui la diversa scrittura del primo e del secondo comma dell’art. 127) e dall’esteso potere sostitutivo previsto dall’art. 120, comma 2, Cost.
[28] In questo senso cfr. anche L.A. MAZZAROLLI, Spunti per una riconsiderazione del limite degli interessi nazionali nel nuovo titolo V della Costituzione, in "Il diritto della regione" 2001, 945 ss.
[29] In questo senso cfr. A.ANZON, Un passo indietro verso il regionalismo “duale”, in Forum di Quad.cost., e La nuova distribuzione delle competenze e il regionalismo "duale", in I poteri delle Regioni dopo la riforma costituzionale, Torino 2002, 195 ss.
[30] Sulla quale si vedano già i commenti di A. MORRONE, La Corte costituzionale riscrive il Titolo V?, A. RUGGERI, Il parallelismo “redivivo” e la sussidiarietà legislativa (ma non regolamentare…) in una storica (e, però, solo in parte soddisfacente) pronunzia, Q. CAMERLENGO, Dall’amministrazione alla legge, seguendo il principio di sussidiarietà. Riflessioni in merito alla sentenza n. 303 del 2003 della Corte costituzionale, E. D’ARPE, La Consulta censura le norme statali “cedevoli” ponendo in crisi il sistema: un nuovo aspetto della sentenza 303/2003, F. CINTIOLI, Le forme dell’intesa e il controllo sulla leale collaborazione dopo la sentenza 303 del 2003, tutti sul Forum di Quaderni cost. (http://web.unife.it/progetti/forumcostituzionale.it/giurisprudenza); R. DICKMANN, La Corte Costituzionale attua (ed integra) il Titolo V, in www.federalismi.it, n.12/2003; S.BARTOLE, Collaborazione e sussidiarietà nel nuovo ordine regionale e L.VIOLINI, I confini della sussidiarietà: potestà legislativa "concorrente", leale collaborazione e strict scrutiny, entrambe in “Le Regioni” 1/2004 ((in corso di pubblicazione, ma si possono leggere nel Forum di Quad.cost.”), A.D’ATENA, L’allocazione delle funzioni amministrative in una sentenza ortopedica della Corte costituzionale, e A.ANZON, Flessibilità dell'ordine delle competenze legislative e collaborazione tra Stato e Regioni, entrambe in “Giur.cost.” 2003 (in corso di pubblicazione, ma si possono leggere nel Forum di Quad.cost.).
[31] In questo senso cfr. già R. BIN, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, in “Le Regioni” 2002, 365 ss., 368.
[32] Sent. 282/2002.
[33] In questo senso R.BIN, Il nuovo riparto di competenze legislative: un primo, importante chiarimento, in “Le Regioni” 2002, 1445 ss., 1450.
[34] L’espressione è di F. BENELLI, L’Ambiente tra “smaterializzazione” della materia e sussidiarietà legislativa, in “Le Regioni” 2004 (in corso di stampa).
[35] Si vedano in particolare le sentt. 536/2002, 222/2003, 307/2003. Come osserva F. BENELLI, L’ambiente cit., “(s)i potrebbe, anzi, sostenere che la definizione di ambiente come valore trasversale sia ormai ripresa tralatiziamente nella giurisprudenza costituzionale”.
[36] Sent. 407/2002.
[37] Sulla “tutela della concorrenza” come “fine” o “valore” da promuovere, cfr. G.CORSO, La tutela della concorrenza come limite della potestà legislativa (delle regioni e dello Stato), in “Dir.pubbl” 2002, 981 ss.
[38] Anche questa espressione si trova nella sent. 407/2002.
[39] Che la regione possa “ragionevolmente adottare, nell'ambito delle proprie competenze concorrenti, una disciplina che sia maggiormente rigorosa… rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale, proprio in quanto diretta ad assicurare un più elevato livello di garanzie per la popolazione ed il territorio interessati” era infatti affermato dalla sent. 407/2002: cfr. M. CECCHETTI, Legislazione statale e legislazione regionale per la tutela dell'ambiente: niente di nuovo dopo la riforma del Titolo V?, in “Le Regioni” 2003, 2, 318 ss.
[40] Si vedano le sentenze 307/2003 e 331/2003.
[41] Un accenno al canone della ragionevolezza è contenuto per esempio nella sent. 407/2002 (“dal momento che la Regione Lombardia può ragionevolmente adottare, nell'ambito delle proprie competenze concorrenti, una disciplina che sia maggiormente rigorosa”). Ancora più chiaramente si esprime la sent. 14/2004, in materia di tutela della concorrenza: le scelte del legislatore statale, vi si afferma, “non possono sottrarsi ad un controllo di costituzionalità diretto a verificare che i loro presupposti non siano manifestamente irrazionali e che gli strumenti di intervento siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi. Quando venga in considerazione il titolo di competenza funzionale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che non definisce ambiti oggettivamente delimitabili, ma interferisce con molteplici attribuzioni delle Regioni, è la stessa conformità dell’intervento statale al riparto costituzionale delle competenze a dipendere strettamente dalla ragionevolezza della previsione legislativa”.
[42] Si veda ad esempio la sentenza Diversità linguistica della Corte di giustizia (C-42/97); sull’argomento cfr. V. RANDAZZO, Alcuni sviluppi giurisprudenziali in materia di fondamento giuridico della legislazione comunitaria, in “Cahiers Européen” (http://www.cahiers.org/new/htm/articoli/randazzo_sviluppi.htm).
[43] L’espressione si ritrova ancora nella sent. 407/2002.
[44] Su cui cfr. A. RUGGERI, Riforma del Titolo V e vizi delle leggi regionali: verso la conferma della vecchia giurisprudenza?, in Forum di Quaderni cost. (http://web.unife.it/progetti/forumcostituzionale.it/giurisprudenza/
ar942003.htm);
[45] Su cui cfr.
A. D’ATENA, La Consulta parla... e la riforma del Titolo V entra in vigore,
http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/dibattiti/riforma/datena-20020925.html;
C. TUCCIARELLI, La sentenza n. 282 del 2002 della Corte costituzionale:
prime interpretazioni delle disposizioni costituzionali sull’esercizio del
potere legislativo delle Regioni, in Forum di Quaderni cost. (http://www.unife.it/forumcostituzionale.it/contributi/
titoloV5.htm#ct); R. BIN, Il nuovo riparto cit.; L. VIOLINI, La
tutela della salute e i limiti al potere di legiferare; sull'incostituzionalità
di una legge regionale che vieta specifici interventi terapeutici senza una
adeguata istruttoria tecnico-scientifica, in "Le Regioni"
2002, 1450-1461; E. CAVASINO, I << vincoli >> alla potestà
legislativa regionale in - materia di << tutela della salute >> tra
libertà della scienza e disciplina costituzionale dei trattamenti sanitari,
in "Giur. cost." 2002, 5, 3282 ss.
[46] Sent. 422/2002. Analoghe considerazioni nella sent. 308/2003.
[47] Vedi supra, par. 4.
[48] Cfr. in questo senso, ma criticamente, A.RUGGERI, Il parallelismo “redivivo”cit. Nettamente contrario all’estensione è viceversa A.D’ATENA, L’allocazione delle funzioni amministrative cit., perché, rispetto alle materie residuali, “la Costituzione, non solo, esclude in radice la sussistenza di interessi unitari ed infrazionabili, ma priva lo Stato del primo strumento di influenza sull’amministrazione: la legislazione di principio”. In termini analoghi, cfr. anche L. VIOLINI, I confini della sussidiarietà cit., § 6. Ma, per accettare questo argomento, si dovrebbe dare per scontato che una valutazione compiuta dal legislatore costituzionale nel 2001 circa la “localizzabilità” degli interessi possa, salvo ulteriore riforma costituzionale, permanere indiscussa senza che mai in futuro possa sorgere un’esigenza unitaria tale da richiedere qualche forma di coordinamento legislativo o amministrativo. Il che appare francamente poco realistico e in piena antitesi con le esigenze di dinamicità e di “adeguatezza” che sono implicite nel principio di sussidiarietà.
[49] I motivi di dissenso li ho già espressi in La funzione amministrativa cit., 366-368.
[50] Per un esplicito collegamento tra principio di parallelismo e principio di legalità si veda la sent. 65/1982: “la Corte ha più volte riaffermato (da ultimo, nella sentenza n. 70 del 1981) la regola del parallelismo tra funzioni amministrative e legislative regionali, senza di che rimarrebbe insoddisfatta la stessa esigenza di legalità dell'amministrazione”.
[51] In questo senso sembra essersi espresso già il Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 20 marzo 2000, n. 1493, in “Giur.it.” 2003, 1770 ss. (con nota di G. RAZZANO, Il Consiglio di Stato e il principio di sussidiarietà, che addirittura vi vede espresso un obbligo di motivazione della legge).
[52] Sent. 303/2003.
[53] T.F.GIUPPONI, Potestà regolamentare regionale, riserva di legge e principio di legalità dopo la riforma del Titolo V della Costituzione: Repetita… consolidant, in “Le Regioni” 2004, 1 (in corso di pubblicazione).
[54] Sent. 324/2003.
[55] Il parallelismo “redivivo” cit.
[56] Sent. 88/2003.
[57] In questo senso anche la sent. 17/2004, che riconosce la legittimità della disposizione legislativa che prevede un atto ministeriale in cui si definiscono “gli indirizzi per l’impiego ottimale dell’informatizzazione delle pubbliche amministrazioni, sentita la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281”. La Corte rispolvera la categoria del “coordinamento meramente tecnico” al fine di delimitare il potere assegnato al Ministro, benché l’ipotesi ricada in pieno nella potestà legislativa esclusiva dello Stato ai sensi della lett. r) dell’art. 117.2. Al coordinamento tecnico, e alla connessa garanzia di partecipazione delle regioni alla formazione degli atti, secondo le regole della “leale cooperazione”, fa riferimento anche la sent. 376/2003 in una materia, il “coordinamento finanziario”, che è di tipo “concorrente”.
[58] Che questa sia l’esito del ragionamento della Corte lo afferma anche A. RUGGERI, Il parallelismo “redivivo” cit., che però contesta in blocco tale ragionamento.
[59] Questa linea di continuità sembra confermata dalla sent. 376/2003, in cui la Corte afferma che le esigenze di coordinamento finanziario possono richiedere “anche l'esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo”: “poteri puntuali eventualmente necessari perché la finalità di coordinamento” cui si correla la possibilità per la legge statale “di prevedere e disciplinare tali poteri, anche in forza dell'art. 118, primo comma, della Costituzione”. Un accenno ad una regolazione “tecnica”, di fonte ministeriale, che non sarebbe “espressione di potestà regolamentare” è contenuto anche nella più recente sent. 36/2004.
La continuità trapela anche per altri due aspetti: da un lato, la Corte modula gli obblighi di “leale cooperazione” in ragione della tipologia della compressione delle attribuzioni regionali (nel caso di specie è ritenuto che “la previsione del parere della Conferenza unificata sullo schema di decreto costituisce una garanzia procedimentale”); dall’altro, viene utilizzata di nuovo la vecchia tecnica delle Corte di interpretare in via restrittiva i poteri che la legge impugnata conferisce agli organi dello Stato (infatti anche formalmente il dispositivo è di tipo interpretativo), indicando nel conflitto di attribuzione sugli atti di concreto esercizio di tali poteri lo strumento con cui le regioni possono chiedere la “ottemperanza” dell’interpretazione restrittiva fornita dalla Corte (su questa tecnica cfr. R. BIN, L'importanza di perdere la causa, in "Le Regioni" 1995, 1012 ss.).
[60] Almeno sotto questo profilo mi sembra troppo radicale il principio di titolarità esclusiva delle potestà regolamentari enunciato da G.GUZZETTA, Problemi ricostruttivi e profili problematici della potestà regolamentare dopo la riforma del Titolo V, in "Ist.fed." 2001, 6, 1123 ss., 1129.
[61] Perciò, secondo la collaudata tecnica di giudizio, gli eventuali ricorsi delle regioni contro questi atti sarebbero dichiarati inammissibili per carenza d’interesse, non essendovi lesione.
[62] Cfr. in questo senso anche G.FALCON, Regolamenti statali e leggi regionali: Riflessioni a margine della sentenza della Corte costituzionale 376/2002, in “Ist.fed.” 2003, 7 ss., 22-25.
[63] Il problema è solo sfiorato dalla Corte costituzionale nella sent. 2/2004, relativa allo Statuto della Calabria, in cui si afferma che è tutt’altro che irragionevole attribuire al Consiglio regionale “questa ipotetica normazione secondaria regionale di attuazione o integrazione della legislazione esclusiva statale”: “ipotetica”, suppongo, in quanto la Corte non entra nel merito dell’interpretazione della disposizione costituzionale in questione, ma avverte che essa è quanto meno incerta.
[64] Una prima critica l’ho formulata in La funzione amministrativa cit., 387 s.
[65] Anzi, sotto questo profilo, l’interpretazione maggioritaria, che lega la “delega” al potere regolamentare, male si combina con l’altro accenno, rimasto in costituzione dopo la riforma, alla delega, cioè all’art. 121.3, laddove assegna al Presidente della Giunta regionale il compito di dirigere “le funzioni delegate dallo Stato alla Regione”.
[66] Sent. 407/2002.
[67] Cfr. sent. 303/2003 (punto 16 del “diritto”), su cui cfr. E.D’ARPE, La Consulta censura le norme statali “cedevoli” cit.
[68] In questo senso cfr. G.PARODI, La nuova disciplina costituzionale del potere regolamentare, in La revisione costituzionale del Titolo V tra nuovo regionalismo e federalismo, a cura di G.F.Ferrari e G.Parodi, Padova 2003, 125 ss., 138.
[69] Qui si inserisce un problema ulteriore che non posso trattare in questa sede: quale sia la resistenza ai vincoli posti dalla normativa regolamentare dello Stato da parte delle norme statutarie degli enti locali, la cui autonomia statutaria è riconosciuta dall’art. 114.2 Cost.; e perciò quale sia la necessaria “cedevolezza” che le norme statali (come anche, ovviamente, quelle regionali) subiscono da parte dei regolamenti degli enti locali. A me sembra che questo sia uno dei problemi interpretativi più complessi e gravidi di conseguenze dell’intera riforma del Titolo V.
[70] Cfr. N. LUPO, Dalla legge al regolamento, Bologna 2003, 430 ss.
[71]
Come osserva giustamente G.G.FORIDIA, Fonti regionali e sistema delle fonti,
in La revisione costituzionale del Titolo V tra nuovo regionalismo e
federalismo, cit., 33 ss., 65 s., dagli artt. 117 e 118 la potestà
regolamentare risulta implicitamente riconosciuta “come un vero e proprio
potere di produzione giuridica, distinto dal potere amministrativo e dagli atti
e provvedimenti che ne sono più o meno tipica espressione”; ed inoltre “è
sottoposta ad una regola diversa da quelle introdotte dall’art. 118 per le
funzioni amministrative “vere e proprie”” per ciò che riguarda la regola di
attribuzione delle competenze: sotto questo aspetto, significativamente, “(p)roprio
in quanto atti normativi che dettano norme sostanziali, i regolamenti
statali e regionali sono invece accostato agli atti normativi statali e
regionali che svolgono la medesima funzione al superiore livello legislativo”.
[72] “La revisione costituzionale modifica dunque profondamente il sistema delle potestà normative e provvede, in questo quadro, all'attribuzione della potestà regolamentare allo Stato, secondo un criterio di stretta corrispondenza con la sua competenza legislativa esclusiva. Da ciò non può che discendere l'estinzione del potere regolamentare attribuito allo Stato su materie che non sono più di sua spettanza”: Cons. Stato, Ad.gen., parere 5/2002.
[73] Non vedrei viceversa come si possa impedire che i regolamenti dello Stato, nelle sole materie “esclusive”, vincolino gli enti locali, comprimendone l’autonomia regolamentare ad essi riconosciuta in principio dall’art. 117.6 Cost. Come è stato giustamente osservato (Cfr. G.GUZZETTA, Problemi ricostruttivi cit., 1131, il quale però giunge per altra via al risultato di “munire” l’autonomia regolamentare degli enti locali), questa disposizione costituzionale usa per gli enti locali una formula (“hanno potestà regolamentare”) che “riconosce” loro l’autonomia regolamentare, ma non sancisce che essa “spetta” loro in via esclusiva (come invece fa con riferimento allo Stato e alle regioni). Resta però che la posizione dei regolamenti degli enti locali e le garanzie della loro autonomia statutaria e regolamentare costituiscono uno dei temi più oscuri del sistema introdotto dal nuovo Titolo V.
[74] Come è stato rilevato nelle rassegne sui conflitti di attribuzione mossi dalle regioni contro gli atti di indirizzo e coordinamento: cfr. R.BIN, I conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni (1997-2001), in “Le Regioni” 2002, 6, 1373 ss.; Il conflitto di attribuzioni tra enti nel biennio 1995-1996 (aspetti sostanziali), in "Foro it." 1997, I, 2769 ss.; Il conflitto di attribuzioni tra enti nel biennio 1993-1994 (aspetti sostanziali), in "Foro it." 1995, I, 1746 ss.
[75] Consiglio di Stato, Sez.cons., parere n.3608 del 20 dicembre 2002.
[76] La vicenda è ben descritta da G. DI COSIMO, Storia di un regolamento mai nato. In margine al decreto-legge 24/2003, in Forum di Quad.cost. (http://www.unife.it/forumcostituzionale.it/contributi/titoloV6.htm#gd), e da F.CINTIOLI, A proposito dei decreti ministeriali “non aventi natura regolamentare”, in “Quad.cost.” 2003, 820 ss.
[77] F.MODUGNO, A.CELOTTO, Un "non regolamento" statale nelle competenze concorrenti, in “Quad.cost.” 2003, 355 ss., 356.
[78] F.CINTIOLI, A proposito dei decreti ministeriali cit., 821.
[79] Cfr. I.RUGGIU, Devolution scozzese quattro anni dopo: the bones... and the flesh, in “Le Regioni” 2003, 737 ss., 756 ss.
[80] Cfr. per tutti V.CRISAFULLI, Atto normativo, in Encicl.dir. IV, Milano 1959, 238 ss., spec. 251 ss., e Fonti del diritto (dir.cost.), ivi, XVII, 925 ss. Si pensi, per un esempio che ci riporta ai temi del diritto regionale, alla complessità di inquadramento della c.d. normativa tecnica (su cui cfr. ora F. SALMONI, Le norme tecniche, Milano 2001) che sembra munita di uno statuto derogatorio rispetto alle regole generali sulle fonti (per ciò che riguarda l’integrazione della fattispecie penale, per esempio) e sulla ripartizione delle competenze (per ciò che riguarda il “coordinamento tecnico”, per esempio). Sembra infatti che anche la Corte costituzionale avvalli l’idea che vi possano essere discipline ministeriali che, per il loro contenuto di coordinamento tecnico, non devono essere considerate “quale espressione di potestà regolamentare” sent 36/2004.
[81] Cfr. V.CRISAFULLI, Fonti del diritto cit., 958 ss.
[82] Nel già citato parere n. 3608.
[83] Osserva A. D’ATENA, L’allocazione delle funzioni amministrative cit., nelle procedure di collaborazione vi è “sempre presente una dimensione convenzionale e transattiva: l’accordo eventualmente raggiunto tra i soggetti coinvolti nella procedura finendo fatalmente per imporsi alla giurisdizione (indipendentemente – si badi – dalla qualità formale degli atti in cui esso prenda corpo)”. L’affermazione appare condivisibile solo se l’“imporsi alla giurisdizione” venga inteso in un senso molto ristretto, ossia che il giudice non possa non tener conto dell’avvenuto accordo sia quando entri in considerazione il rispetto del principio di leale collaborazione sia, ma su un piano strettamente argomentativo, per saggiare l’attendibilità della pretesa dell’attore (e forse anche il suo interesse ad agire). Sul tema si ritornerà fra poco.
[84] Come ricorda, a proposito dell’ininfluenza degli accordi raggiunti nella Conferenza Stato-regioni sulla attività legislativa del Parlamento, la sent. 437/2001. Tuttavia questo è un punto critico che la giurisprudenza costituzionale non ha ancora messo in chiaro: o meglio, che sembra aver riaperto, dopo aver da sempre negato la negoziabilità delle competenze, con la sent. 303, come osserva S. BARTOLE, Collaborazione e sussidiarietà cit.
[85] Quale possa essere l’intensità di questo vincolo non lo si può dire in astratto: la sent. 186/2003, per esempio, pur negando natura “normativa” (in quanto “atto di indirizzo e coordinamento”) alle “linee di indirizzo e coordinamento” emanate dal Ministro delle politiche agricole e forestali in base alla legge 499/1999, ammette che tale documento, frutto di una procedura di programmazione “che vede una pluralità di enti sociali e istituzionali cooperare alla formazione del Documento di programmazione nazionale in agricoltura”, benché sia “lungi dal comportare vincoli diretti nei confronti delle amministrazioni regionali”, ponga tuttavia “l’onere… di uniformarsi ai criteri dettati per l’omogenea redazione dei programmi regionali”.
[86] Cfr. F.SORRENTINO, Le fonti del diritto amministrativo, Padova 2004, 267.
[87] Così. per esempio, nella sent. 315/2001 l’intesa in Conferenza unificata è impiegata dalla Corte costituzionale per comprovare l’interpretazione dell’atto impugnato dalle Province autonome, mentre nell’ord. 476/2000 l’accordo raggiunto in Conferenza unificata è richiamato per motivare la rinuncia al ricorso.
[88] Vedi supra, § 6.
[89] Ho sviluppato questo punto, commentando la sent. 507/2002 della Corte costituzionale, in Le deboli istituzioni della leale cooperazione, in “Giur.cost.” 2002, 4184 ss.