ROBERTO BIN
Sette anni di riforme, ma i nodi
rimangono irrisolti
1. Il vero problema da cui il sistema delle autonomie italiano è tormentato sin dalle origini è l’assenza di un preciso modello di organizzazione della “forma di stato” e di una cultura istituzionale adeguata alle esigenze tipiche di una stato policentrico. Delle regione, delle autonomie, del federalismo si è sempre discusso nelle sedi politiche sul piano astratto degli slogan politici e mai si è affrontato con serietà il problema di come strumentare il modello di stato delle autonomie attraverso la predisposizione di congegni istituzionali adeguati.
Lo stato regionale è stato “inventato” dai costituenti per ragioni squisitamente politiche, cioè per l’esigenza di individuare sedi di contropotere politico su base territoriale, in modo da garantire zone di sopravivenza per le forze politiche che, squarciato il “velo d’ignoranza” con le prime elezioni politiche “libere” dell’Italia repubblicana, avrebbero dovuto accontentarsi di sedere sui banchi dell’opposizione; è stato poi riformato, con le leggi “Bassanini” prima, con la riforma del 2001 poi, ancora per ragioni essenzialmente simboliche e politiche, per dimostrare l’impegno fattivo del centro-sinistra sul terreno del “federalismo”, contro gli slogan di Bossi e del centro-destra; oggi rischia di essere ri- o controriformato dal centro-destra per soddisfare simbolicamente (e frustrare operativamente) le richieste di Bossi e per sottolineare gli errori del centro-sinistra. In tutta questa vicenda è sempre mancato un progetto chiaro e una sua attenta “ingegnerizzazione”.
La costante della storia delle regioni in Italia è la mancanza di un progetto chiaro, perché sin dall’inizio è rimasto incerto quale fosse il centro gravitazionale del sistema delle autonomie. Infatti le Regioni, munite di un potere legislativo sconosciuto agli enti locali e di garanzie costituzionali delle proprie attribuzioni ad essi negate, sono state inserite in un sistema secolare di organizzazione del potere pubblico in cui lo Stato centrale e gli enti locali costituivano un corpo unico, gerarchicamente ordinato, privo di interruzioni e di spazi liberi. Un corpo che ha rigettato l’inserimento delle Regioni, alle quali, per altro, non era stato riconosciuto alcun potere – in genere tipico degli enti che compongono il sistema federale - di “conformare” l’amministrazione locale, rimasta perciò legata all’apparato centrale.
Negli anni la situazione è andata avvitandosi su se stessa, rendendo sempre più stretto il nodo. Le Regioni hanno cercato di conquistarsi uno spazio competendo con l’amministrazione centrale che quella locale, ma su entrambi i fronti hanno avuto scarsi risultati.
A) Verso gli apparati centrali, le regioni hanno scontato la loro “media” debolezza politica e scarsa efficienza politico-amministrativa. “Media” perché era accreditato (dalla stessa Corte costituzionale) il principio per cui le regioni dovevano essere trattate tutte in modo eguale, a tutte dovendo perciò essere riconosciute le stesse funzioni; sicché il grado della loro credibilità sprofondava di fronte alle pessime performance politiche, legislative e amministrative di diverse regioni, specie ma non solo del sud. La scarsa affidabilità di alcune regioni divenne il motivo per trattenere al centro tutte le funzioni più importanti. La stessa Corte costituzionale è stata sensibile a questo ragionamento, rivestendolo dei panni dell’”interesse nazionale”, ossia riconoscendo in ogni funzione di un certo rilievo le caratteristiche delle “esigenze unitarie non frazionabili” che legittimavano la permanenza della competenza centro. C’è da dire che una delle innovazioni più importanti – anche se molto contestata dalle regioni e dalla dottrina - si è prodotta verso la metà degli anni ’80, quando la Corte, accettando che le leggi dello Stato contenessero, accanto ai “principi”, anche norme di dettaglio autoapplicativa, ha aperto le porte ad una certa differenziazione delle Regioni: quelle più attive potevano sostituire la disciplina statale con la propria, quelle inerti subivano una compressione della propria funzione, poiché in esse la disciplina statale “nuova” scalzava quella regionale più vecchia.
Tuttavia la debolezza politica delle regioni ha avuto cause e ripercussioni anche su un altro piano. Ha stentato ad affermarsi una classe politica regionale, distinta da quella nazionale e da quella locale (la stessa struttura dei partiti e la determinazione dei collegi elettorali hanno in parte causato in parte subito questo fenomeno). Siccome le regioni non esercitavano poteri precisamente configurati e definiti, l’osmosi verso l’alto (il parlamento, il governo, il parlamento europeo) o verso il basso (specie verso ruoli di vertice negli esecutivi dei comuni capoluogo) ha costituito la proiezione sul piano della carriera politica della confusione dei ruoli registrabile sul piano della ripartizione delle funzioni, l’un fenomeno rafforzando l’altro. Non essendo il ruolo regionale concepito come un punto apicale della carriera politica, l’idea che “il potere è altrove” ha concorso a indebolito la funzione della regione come sede istituzionale di rappresentanza politica della collettività locale: il ministro o il sottosegretario, il parlamentare, il sindaco del comune capoluogo sono stati concorrenti degli amministratori o dei consiglieri regionali nel rappresentare le esigenze delle comunità locali, non particolarmente interessanti a potenziare il ruolo di quest’ultimi (ruolo per il quale molte volte erano transitati)[1].
B) Verso l’amministrazione locale, le regioni hanno cercato di sviluppare il proprio ruolo attraverso la legislazione – che è andata a stringere ulteriormente le maglie già strette della legislazione statale – e attraverso l’accentramento di parte delle attività amministrative, sotto forma di piani, programmi, atti di indirizzo, forme di controllo, nulla osta o l’istituzione di amministrazioni regionali decentrate (enti regionali, agenzie, aziende ecc.). La reazione a questo “centralismo regionale” – di cui non tutte le regioni sono state egualmente colpevoli – è stata chiarissima ed ha rafforzato il ruolo delle associazioni nazionali degli enti locali (Anci, Upi, Unicem), le quali, movendo come organizzazioni d’interessi di tipi sindacale, hanno chiesto protezione al centro. Superando contrasti e competizione sul piano locale tra comuni, province e comunità montane, queste organizzazioni si sono mosse sul piano nazionale in modo piuttosto compatto contro il rafforzamento dell’autonomia regionale. Il prezzo è stato di cancellare le differenziazione di tipo territoriale e di rafforzare l’applicazione del principio di eguaglianza formale all’interno di ogni categoria di enti (i comuni o le province, pur così diversi per dimensione demografica, per strutture burocratiche, per tradizione amministrativa ed efficienza operativa); la conseguenza più ovvia è stata di rafforzare il centro, chiamato a fare da arbitro tra le autonomie regionali e quelle locali.
Particolare peso hanno avuto le istanze antiregionaliste delle autonomie locali a seguito della riforma elettorale del 1993, con l’elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia. La forte carica rappresentativa di cui godevano i leader delle amministrazioni locali ha reso ancora più intensa la richiesta di essere liberati dai “lacci e laccioli” intrecciati sì dallo Stato, ma ancor più dalle regioni. La forza politica “esterna”, che sul piano nazionale aveva conquistato il c.d. “movimento dei sindaci” ha ulteriormente indebolito il ruolo politico delle regioni. Il risultato più evidenti è stata:
q la conquista della “pari dignità costituzionale” rispetto alle regioni ottenuta dagli enti locali sia sul piano dei trasferimenti delle funzioni prodotti dalle “riforma Bassanini”[2], sia nel quadro dei rapporti definito dalla riforma costituzionale del Titolo V, a partire dalla simbolica disposizione d’esordio, cioè dall’art. 114 che pone tutti gli enti, a partire dal Comune per finire nello Stato, sullo stesso piano come componenti della “Repubblica”;
q il riconoscimento parallelo del ruolo istituzionale degli enti locali nel processo di formazione delle decisioni nazionali, prima con le “riforme Bassanini”, attraverso l’istituzione di un organo di rappresentanza parallelo alla Conferenza Stato-regioni (e in parte sovrapposto ad esso), e poi con la riforma costituzionale del 2001, che ha previsto la rappresentanza degli enti locali, accanto alle regioni, in quel primo embrione di “Senato federale” che dovrebbe essere costituito dalla Commissione bicamerale “integrata”.
Sotto quest’ultimo profilo, va notato che il dibattito sulla “federalizzazione” del Parlamento, iniziato – come è ovvio – con l’ipotesi che il Senato si aprisse alla rappresentanza delle Regioni, si è poi arenato anche per l’opposizione degli enti locali, che hanno ottenuto un riconoscimento pressoché unanime da parte delle forze politiche del loro “diritto” di essere rappresentati anch’essi in Parlamento, alla pari delle regioni. La frattura nel “fronte” delle autonomie ha, come sempre, rafforzato le già forti e malcelate resistenze del centro ad accondiscendere ad un passo così importante nel “processo di federalizzazione”.
2. La riforma del Titolo V introdotta dalla legge cost. 3/2001 ha poi – a mio avviso - un altro difetto “tecnico”: non cerca di comprendere le ragioni del fallimento del regionalismo italiano e di porvi un serio rimedio Il fallimento del disegno originale delle regioni è dovuto ad un difetto che, visto con la saggezza del poi, risulta evidente: l’aver perseguito il tentativo di separare con nettezza le attribuzioni delle Regioni e quelle dello Stato con strumenti più effimeri delle briciole di Pollicino, le “materie”, i “princìpi”, l’”interesse nazionale”. Alla Regione veniva riconosciuto il potere di fare delle leggi, al pari dello Stato, e di difendere questo suo potere contro lo Stato di fronte alla Corte costituzionale: ma la linea di confine tra la sfera della Regione e quella dello Stato, la linea che la Corte costituzionale avrebbe dovuto controllare per evitare sconfinamenti, era impercettibile, segnata da indicazioni inconsistenti, affidata a valutazioni di tipo politico che un giudice, sia pure un giudice tutto particolare com’è la Corte costituzionale, non può maneggiare se non al prezzo di sconfinare dai suoi compiti istituzionali. E questa incertezza ha scatenato un contenzioso fra Stato e Regioni che è uno dei dati salienti del nostro paese. In nessun paese conosciuto c’è un contenzioso fra Stato e Regioni così elevato. E non è per la litigiosità che gli italiani rivelano in ogni assemblea di condominio, ma semplicemente perché nell’edificio non si è chiarito ai condomini chi è proprietario di che cosa, né come si gestiscono le parti comuni.
Tutta la storia delle regioni in Italia, dalla fondazione costituzionale della Repubblica all’ultimo progetto di riforma licenziato dal Governo attualmente in carica, è caratterizzata dalla stessa incapacità di mettere a fuoco le ragioni per cui questo approccio non funziona. Sia il testo originale della Costituzione, sia le riforme prodotte o proposte si sforzano di scrivere e riscrivere il quadro dei rapporti tra i livelli di governo come se il problema sia davvero quello di separare le sfere di competenza degli enti e non invece di individuare le istituzioni della cooperazione tra essi. È sicuramente un difetto di impostazione, perché non tiene conto dell’insegnamento che ci viene da tutte le moderne esperienze di Stato federale o regionale. Nessun problema mediamente complesso della nostra società attuale può essere risolto attraverso decisioni (e risorse) parcellizzate. Mentre la nostra Costituzione impostava il problema nella logica del regolamento di condominio, tutto il mondo andava verso una logica diversa, quella della multiproprietà. Ossia, fuor di metafora, che i sistemi federali o regionali - la differenza è solo di parole e solo in Italia si può perdere tempo a parlare di distinzione fra federalismo e regionalismo come se si parlasse di qualcosa di davvero decisivo - procedeva verso un assetto dominato dall’idea che in uno stato moderno non serve tanto decidere se, per esempio, l’agricoltura la governa lo Stato o la fa la Regione, per il semplice fatto che i problemi veri sono problemi complessi e richiedono un intervento coordinato a più livelli. Se i problemi sono così complessi come possono esserlo quelli della tutela dell’ambiente, della politica del territorio, delle grandi infrastrutture, della riconversione industriale ecc., è inutile pensare di spezzettare le competenze per cui del segmento X della “materia” se ne occupa lo Stato ed invece del segmento Y la Provincia, ma un pezzo è di competenza della Regione e un altro del Comune. Questa è solo perdita di tempo, di efficienza, di rapidità di decisione. Quindi tutti i sistemi federali, dalla crisi degli anni ‘30 in poi, si sono assestati su un’idea precisa: liberiamoci del problema della divisione delle competenze e pensiamo a capire quali sono le modalità con cui si decide insieme, sì nel rispetto dei ruoli, ma attraverso procedure e in sedi di codecisione: questo si chiama federalismo cooperativo.
Il nostro regionalismo all’origine era un regionalismo confusamente “duale”, nel senso che intendeva dividere in due le funzioni pubbliche, ripartendole per tra lo Stato e le Regioni; ma la realtà di tutto il mondo, compresa la realtà della Comunità europea, nonché la stessa realtà italiana come si è venuta a formare nei fatti è una realtà di tipo “cooperativo”, che parte dal presupposto che la separazione delle funzioni deve cedere al coordinamento degli interventi. Di fatto noi abbiamo avuto sino al 2001 una Costituzione formale dualista e un sistema reale, sviluppatosi a colpi di sentenza, di leggi, di accordi ecc., di tipo cooperativo: il che significa che noi siamo arrivati a festeggiare i 50 anni della Costituzione sapendo che un pezzo importante della Costituzione era stato di fatto abrogato, perché le relazioni tra lo Stato, le regioni e gli enti locali era ormai governata da regole non costituzionali. Da cui l’evidente necessità di una riforma.
Per di più, ogni tentativo di separare con nettezza le competenze urta con difficoltà tecniche insormontabili: come quarant’anni di giurisprudenza costituzionale ci dovrebbe insegnare, nessuna “materia” può essere definita con sufficiente nettezza da non suscitare continui problemi di ridefinizione dei confini, né vi alcun modo “geometrico” per distinguere ciò che è una norma di principio da ciò che non lo è. Perciò non è affatto un caso, né un fenomeno degenerativo, se la giurisprudenza della Corte costituzionale ha progressivamente offuscato le linee di separazione tracciate dai costituenti per accostarsi ai conflitti armata di due strumenti: il “variabile livello degli interessi” (prevale l’interesse nazionale, unitario e non frazionabile, quello regionale o quello puramente locale?) e il principio di “leale collaborazione” (se più livelli di interesse sono coinvolti, chi è titolare dell’interesse prevalente non può agire unilateralmente, ma deve coinvolgere anche gli altri soggetti titolari di un interesse rilevante).
Sono due strumenti che non hanno alcun aggancio esplicito nel testo costituzionale, ma si sono affermati per l’esigenza di offrire una risposta adeguata al tipo di realtà che i moderni sistemi istituzionali devo affrontare. Il problema è che sono due strumenti che non possono essere maneggiati con le sole tecniche del giudice, attraverso valutazioni formali tipiche del giudizio di legittimità, ma richiedono valutazioni di merito, di opportunità. Per cui la Corte costituzionale ha dovuto condurre i suoi giudizi in supplenza di altre sedi, politiche, non previste dal nostro ordinamento. Ma tutto ciò è stato ignorato dalle riforme costituzionali.
Letta dall’angolo visuale delle esigenze ora esposte, la riforma del Titolo V introdotta nel 2001 è del tutto inadempiente. Ha quattro caratteristiche che ne minano il disegno:
a) per definire le competenze legislative, la riforma persevera nell’impiego delle vecchie tecniche, di cui già si è dimostrata la scarsa operatività: gli elenchi “di materie” e la distinzione tra “norme di principio” e “norme di dettaglio”;
b) viene eliminato dal testo costituzionale qualsiasi riferimento all’”interesse nazionale”, cioè al criterio sulla cui base la Corte aveva risolto la maggior parte dei conflitti;
c) viene introdotto, ma solo per la ripartizione delle funzioni amministrative, il principio di sussidiarietà, senza dire però come esso debba operare;
d) viene eliminato ogni segno della supremazia gerarchica dello Stato su regioni ed enti locali (la cancellazione del riferimento all’interesse nazionale ne è un segno; l’altro è l’apparente perequazione tra la legge statale e la legge regionale per quanto riguarda i limiti e le modalità di impugnazione), ed affermata, come è detto, la “pari dignità costituzionale” tra i soggetti che compongono la Repubblica: ma non viene previsto alcun meccanismo di collaborazione tra i livelli di governo.
Per di più, le “materie” hanno perso la loro “fisicità”. Su questo merita trattenere l’attenzione.
3. Nell’ordinamento passato, il contenuto delle “etichette” impiegate dalla costituzione veniva determinato principalmente dai decreti di trasferimento delle funzioni (e in misura non indifferente anche dalla legislazione di settore). Le funzioni da trasferire dallo Stato alle Regioni venivano individuate e delimitate partendo da precise strutture burocratiche ministeriali che svolgevano specifiche funzioni; sicché, trasferendo le funzioni insieme con le strutture amministrative e – almeno in via di principio – con il personale, le “materie” assumevano una consistenza abbastanza precisa, quasi fisica. In teoria – perché in pratica la vischiosità della burocrazia lo ha ostacolato – il trasferimento di una funzione comportava lo smantellamento della struttura ministeriale che l’esercitava. La “materia” veniva quindi letta e riletta nel tempo e segmentata in una serie di sottomaterie e funzioni, ognuna delle quali poteva essere trasferita con specifiche ripartizioni di compiti tra livelli di governo e precisi vincoli procedurali a tutela di interessi non disponibili da parte delle Regioni e degli enti locali (per esempio, il parere con la Sovrintendenza o il parere conforme dell’autorità di P.S.).
Oggi, nel nuovo ordinamento, le cose non sono più così. Né le materie elencate nell’art. 117, co. 2, come competenza “esclusiva” dello Stato né, in buona misura, quelle “concorrenti” dell’art. 117, co. 3, hanno una consistenza precisa, sono riferibili ad una precisa struttura ministeriale o sono organizzate in uno specifico corpo normativo. Non esiste un ministero dell’“ordinamento civile”, né questo corrisponde tutto e solo al codice civile[3]; non esiste una direzione ministeriale dei “livelli essenziali”, né una cui siano intestati il “governo del territorio”, le “professioni” o l’“ordinamento delle comunicazioni”. Ancor meno chiaro è come determinare quali materie restino affidate alla competenza regionale. È vero che, in linea di principio, ad esse spettano tutte le materie non attribuite, in via esclusiva o concorrente, allo Stato, ma ciò crea problemi di delimitazione dei confini e delle responsabilità difficilissimi da risolvere. Rovesciare la tecnica di enumerazione delle competenze ha quindi avuto una vistosa conseguenza sotto il profilo delle tecniche di definizione delle materie: mentre nel vecchio ordinamento il trasferimento delle funzioni alle Regioni (e agli enti locali) significava staccare un mattone preciso dall’edificio complessivo delle funzioni pubbliche, complessivamente attribuite allo Stato, oggi l’edificio non c’è più; esistono le macerie della vecchia enorme legislazione di settore, che continua ad operare in attesa della legislazione regionale, ed esistono alcuni schizzi progettuali del nuovo fabbricato delle competenze statali, tutti o quasi ancora da tradurre in progetto operativo. L’architetto si è fermato a questo.
La Corte costituzionale, nelle sue prime sentenze successive alla riforma del 2001, ci offre un suggerimento. Con riferimento ad alcune “materie” attribuite dal nuovo art. 117 alla competenza esclusiva dello Stato, osserva la Corte che esse non sono affatto “materie” in senso stretto, cioè sfere di competenza statale rigorosamente circoscritte. Ciò vale per “i livelli essenziali delle prestazioni”[4], com’è evidente. Ma vale anche per la “tutela dell’ambiente”, che “investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze” ed è configurabile, più che come “materia”, “come "valore" costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia "trasversale", in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale”[5]. Come si vede, pur senza mai impiegare la locuzione “interesse nazionale”, la Corte richiama l’antico concetto di “esigenze unitarie non frazionabili” per giustificare l’intervento dello Stato rivolto a dettare una disciplina unitaria. In queste sue prime sentenze la Corte risolve dunque la questione prospettatele attraverso l’attento esame degli interessi coinvolti nella materia in discussione. La modifica della tecnica di distribuzioni delle competenze operata dalla riforma, attraverso l’individuazione delle “materie” rimaste in mano dello Stato, sembra infatti rafforzare ancora di più il legame tra le “materie” e gli “interessi”.
Qui interviene la “legge La Loggia” (legge 131/2003). Essa inventa l’originale meccanismo, destinato ad operare ben oltre l’orizzonte della “prima applicazione” della riforma costituzionale, il cui tempo è già abbondantemente trascorso. In sintesi, il governo viene delegato a ad emanare “uno o più decreti legislativi meramente ricognitivi dei princìpi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti, nelle materie previste dall’articolo 117, terzo comma”, cioè nella materie di competenza concorrente. Un complesso procedimento di formazione mira proprio a garantire al parlamento e alle Regioni che il governo non sconfini dalla “mera ricognizione”, innovando la materia con l’introduzione di princìpi “nuovi” (“disposizioni che abbiano un contenuto innovativo dei princìpi fondamentali, e non meramente ricognitivo”) o infiltrando disposizioni vigenti “che non abbiano la natura di principio fondamentale” (art. 1, co. 4).
Ciò che più sorprende è, naturalmente, che venga delegata, non già la disciplina dettagliata di concretizzazione dei princìpi fissati dalla legge di delega, bensì proprio la stessa disciplina di principio. È vero che da tempo – almeno da quando la Corte costituzionale ha ristretto con rigore il potere di decretazione d’urgenza – si è assistito ad un’espansione smodata della legislazione delegata: ed è vero che già le leggi “Bassanini” (in particolare la legge 59/1997 che è riuscita addirittura a delegare un potere definibile solo “in negativo”[6]), hanno inaugurato una stagione di uso abnorme della delega legislativa: mai però si era “osato” attribuire al governo il potere di definire ciò che per definizione gli dovrebbe essere sottratto e riservato rigorosamente al parlamento, ossia la disciplina di principio[7]. Si tratta – si potrebbe obiettare – di un potere di normazione “ricognitiva”, non creativa, di mera compilazione: il potere di emanare una sorta di testo unico dei princìpi vigenti. Insomma, il potere attribuito al governo sarebbe sì molto esteso come àmbito materiale (tutte le materie elencate in sequenza dall’art. 117, co. 3, Cost.) e molto elevato come livello di normazione (i “princìpi fondamentali”): ma, a pareggiare il conto, si tratterebbe di un potere a basso tenore di discrezionalità (la “mera ricognizione”[8]). Inoltre, si potrebbe essere indotti a riconoscergli forse persino una bassa intensità normativa, dato che la funzione dei decreti delegati sarebbe semplicemente di “orientare l’iniziativa legislativa dello Stato e delle Regioni fino all’entrata in vigore delle leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi princìpi fondamentali”. In sintesi, si prospetterebbe una disciplina transitoria, con funzione più che altro “orientativa”. Ma questo quadro è credibile? Ben poco.
4. Vi è infatti un profilo che la legge 131 non menziona e che mi sembra invece determinante, benché sia sfuggito ai commentatori del disegni di legge “La Loggia”, ora diventato legge. Il potere più esteso e rilevante che la legge di delega attribuisce al governo non è tanto la definizione dei “princìpi fondamentali” quanto, piuttosto, la definizione delle stesse “materie”. Basta riflettere sul significato della maggior parte dei termini che formano la sequenza delle materie di competenza concorrente: “tutela e sicurezza del lavoro”, “istruzione”, “professioni”, “ricerca scientifica e tecnologica”, “tutela della salute”, “alimentazione”, “governo del territorio” ecc. Prima di procedere alla “ricognizione” dei princìpi fondamentali di ciascuna materia, è indispensabile delimitare il territorio in cui la ricognizione debba svolgersi, ossia definire la materia stessa: se può essere credibile che i princìpi fondamentali siano suscettibili di essere “riconosciuti” con attività meramente accertativa (su ciò rifletteremo in seguito), è evidente che delimitare la materia è invece un’attività ad elevato tasso di discrezionalità.
Sia i trasferimenti delle funzioni del 1972, sia quelli del decreto legislativo 616 (e in fondo anche quelli più recenti, disposti dai decreti “Bassanini”), hanno operato “ritagli” nelle materie elencate dal vecchio 117, co. 2, Cost., escludendo dal trasferimento settori, funzioni, compiti che lo Stato ha trattenuto a sé. La giustificazione di questi “ritagli” è stata sempre ispirata dall’esigenza di preservare l’”interesse nazionale”. Anche quando non era lo stesso elenco di materie del 117, co. 2, a specificare che la competenza regionale si fermava a quella parte della “materia” che era “di interesse regionale” (“tramvie e linee automobilistiche di interesse regionale”, “viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse nazionale”), la Corte ha chiarito che “per tutte (le materie) vale la considerazione che, pur nell'ambito di una stessa espressione linguistica, non è esclusa la possibilità di identificare materie sostanzialmente diverse secondo la diversità degli interessi, regionali o sovraregionali, desumibile dall'esperienza sociale e giuridica”[9]. Valutare quali “materie” siano da sussumere sotto la medesima “espressione linguistica”, cioè sotto la stessa “etichetta” impiegata dalla costituzione, implica quindi un’attività di ricostruzione degli interessi coinvolti e di qualificazione degli stessi in base al livello di governo competente: benché la Corte la àncori all’”esperienza sociale e giuridica”, cercando di dare un certo manto di oggettività ad operazioni che essa stessa è chiamata a compiere in sede di contenzioso, non è solo un “accertamento” ad essere richiesto. Un esempio potrà chiarire il perché.
Prendiamo una delle materie più incerte, il “governo del territorio”. Che cosa significa questa locuzione? Nessuno può pretendere di dare una risposta “esatta” al quesito. L’etichetta impiegata è sostanzialmente inedita nel contesto degli strumenti di riparto delle funzioni pubbliche. Il testo originale dell'art. 117 assegnava alle Regioni potestà concorrente in materia di urbanistica. Il d. lgs. 616/ 1977 intitolava un settore “Assetto ed utilizzazione del territorio” e vi inseriva l’urbanistica (definita come “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”) accanto ad altre materie di interesse regionale, quali i trasporti, gli acquedotti e i lavori pubblici, persino la caccia e la pesca nelle acque interne. Ora la nuova etichetta impiega il termine “governo”, che sembrerebbe evocare “quegli elementi che possano avere un'incidenza profonda e stabile sull'assetto del territorio”, restando fuori “tutto ciò che si riferisce solamente all'uso, senza incidenza stabile sugli assetti territoriali”[10]. L’urbanistica, quindi, dovrebbe restare fuori dalla “materia” attualmente assegnata alla potestà concorrente; e così anche le altre materie cui in precedenza si è accennato.
Tuttavia la disciplina dell’uso del territorio non è cosa da poco: confina da un lato con la disciplina vincolistica della proprietà fondiaria e, dall’altro, con la tutela (penalmente rilevante, spesso) dell’ambiente, del paesaggio e dei beni culturali. Ha importanti connessioni con la disciplina edilizia e la politica della casa, quindi con un complesso di “oggetti” che vanno dalla sicurezza antisismica alla normativa tecnica per l’edilizia, dal diritto “alla casa” al regime di prestazioni pubbliche a sostegno della famiglia. Insomma, delimitare ciò che rientra nel “governo del territorio” e ciò che rientra per altra via nelle competenze esclusive dello Stato, da un lato, e ciò che invece appartiene alla potestà legislativa “residuale” delle Regioni non è compito semplice né affrontabile con gli strumenti “oggettivi” dell’accertamento ricognitivi. Anche perché, va ricordato, l’art. 1, co. 5 della legge di delega autorizza il Governo a svolgere anche un altro compito: “nei decreti legislativi di cui al comma 4, sempre a titolo di mera ricognizione, possono essere individuate le disposizioni che riguardano le stesse materie ma che rientrano nella competenza esclusiva dello Stato a norma dell’articolo 117, secondo comma, della Costituzione”. Sicché la “ricognizione” delle materie dovrebbe procedere “per settori organici”, per riprendere il noto criterio che ha presieduto ai precedenti trasferimenti di funzioni, ma con un’inedita inversione della prospettiva, coerente con l’inversione della tecnica di enumerazione delle materie.
La Legge 131 è una via di mezzo tra un esperimento dilettantistico e un tentativo di truffa. Dilettantistico mi sembra l’obiettivo confessato, cioè compilare i “testi unici” dei princìpi: come se noi avessimo una legislazione vigente che si presta ad un’opera di “mera ricognizione” di una creatura normativa – il “principio fondamentale” – a cui quasi cinquant’anni di giurisprudenza costituzionale non è riuscita a dare un’immagine plausibile! È invece un tentativo di truffa perché è chiaro, se solo si leggono i “criteri direttivi” della delega, che non i princìpi della legislazione, ma le funzioni amministrative che danno forma alle materie saranno l’oggetto della “ricognizione”.
Il vero problema che il governo (si) è delegato ad affrontare non è affatto quello – teoricamente assai arduo, se non impossibile – di “dichiarare”, materia per materia, quali siano le norme di principio da rispettare e, eventualmente, quali i poteri che restano allo Stato perché rientranti nelle sue competenze esclusive. L’oggetto reale, prevalente e precedente, è un altro: individuare, materia per materia, quali competenze siano incluse in ciascuno dei tre livelli di potestà legislativa (quello “esclusivo” dello Stato, quello “concorrente” e, sia pure in via esemplificativa, quello “residuale” delle Regioni) e quali funzioni siano sottoposte a particolari vincoli procedurali o a riserve di attribuzione a favore dello Stato e degli enti locali. Insomma, ciò che ci si dovrebbe aspettare è più una serie di decreti di trasferimento delle funzioni amministrative (con il conseguente transito delle attribuzioni legislative, secondo il tradizionalissimo principio del c.d. “parallelismo delle funzioni”) che una “ricognizione” dei princìpi.
Questa metamorfosi dell’oggetto della delega non deve sorprendere. La distinzione tra norma di principio e norma di dettaglio è stata uno dei piedi d’argilla su cui il costituente del ’48 ha edificato il sistema regionale italiano: non ha alcuna seria giustificazione teorica ed è naufragata completamente nella pratica legislativa. Le stesse “leggi cornice” emanate a partire dalla fine degli anni ’70 avevano chiaramente mostrato quanto fosse indifendibile la “teoria” della legislazione di principio[11], per l’inevitabile intrecciarsi nelle singole discipline legislative di settore di norme generali, norme particolari e norme procedurali. La legge 131 sembra dare per scontato ciò e spregiudicatamente chiamare “principio” tutto quanto può servire per tracciare il riparto delle funzioni. La legge 131 sembra voler smentire una lettura troppo “innovativa” della riforma del Titolo V, riaffermando, nell’apparente novità della delega concessa al governo, una certa continuità con il vecchio ordinamento: il riparto delle funzioni legislative non può basarsi sulla semplice elencazione di “etichette” relative alle materie, ma vanno considerati gli interessi sottostanti (prevalenza della considerazione del “variabile livello degli interessi”, cioè della sussidiarietà, sulla separazione delle competenze “per materia”); l’ampliamento delle potestà regionali non può che essere accompagnato da decreti di trasferimento delle funzioni; trasferimento delle funzioni, collegamenti procedurali tra i livelli di governo che hanno in cura interessi diversi coinvolti nella stessa funzione, princìpi fondamentali della materia non sono “cose” distinguibili e separabili, ma rientrano in un unico, indistinguibile, tessuto normativo.
Il problema è che queste conclusioni, improntate ad apprezzabile realismo, sono mistificate da ciò che la legge di delega prevede in ordine non solo all’oggetto, ma, come ora vedremo, anche alla funzione normativa dei decreti delegati e alle garanzie di procedimento per la loro formazione. Nello scrivere gli schemi dei decreti, infatti, è prevedibile che le strutture governative prenderanno le mosse dalla ricostruzione, all’interno dei vari settori astrattamente includibili nella “materia”, di una serie di funzioni, di organi e di procedure, esattamente come si è fatto in passato per i decreti di trasferimento delle funzioni. Il vincolo a non fuoriuscire dalla legislazione vigente a questo può indurre a costruire i decreti delegati in modo ben poco innovativo rispetto al passato, con conseguenze che non saranno affatto di garanzia per le Regioni, perché inevitabilmente di molto verrebbe ridotto l’impatto politico della riforma costituzionale. In passato, di fronte alla stesura dei decreto di trasferimento delle funzioni, assai spesso la concertazione tra Stato e Regioni si è svolta in sedi tecnico-amministrative, nelle quali le “materie” sono state sezionate nei loro segmenti amministrativi, sbiadendo la rilevanza politica insita nella operazione: la continuità dell’amministrazione ha concorso perciò a produrre la burocratizzazione delle attribuzioni regionali.
Risulta chiaro a questo punto il rischio insito nell’operazione prevista dalla delega legislativa. I “princìpi fondamentali” non sono quasi mai stati scritti dal legislatore statale nei termini previsti dalla dottrina, ossia come “norme” a contenuto generale aventi ad oggetto gli interessi da imporre alle Regioni come standard uniformi. Gli interessi sono stati “oggettivizzati” in submaterie, incarnati in funzioni specifiche da ritagliare, oppure sono stati organizzati in sequenze procedurali complesse, nelle quali le responsabilità dei soggetti coinvolti si sono confuse. Questo è ciò che si può reperire nella legislazione vigente, ed è questo che rischia di riprodursi nei decreti delegati previsti dalla legge 131. La natura ambigua che così i decreti assumerebbero potrebbe presentare un’insidia per le Regioni, che rischierebbero di restare invischiate nell’approvazione di schemi di decreto predisposti dai “tavoli tecnici” formati da funzionari statali e regionali competenti per settore, in cui l’ottica della continuità dell’organizzazione amministrativa delle funzioni prevista dalla legislazione oggi vigente potrebbe far smarrire il grande – anche se indubbiamente confuso - significato politico della riforma del Titolo V.
5. L’entrata in vigore della riforma del Titolo V ha provocato molte difficoltà in tutti i protagonisti istituzionali. A fronte delle molte e rilevantissime innovazioni, spesso incomplete o oscure nella scrittura, sarebbe stata necessaria una accurata disciplina transitoria e d’attuazione per governare il passaggio dal vecchio al nuovo assetto dei poteri legislativi, disciplina che invece non è stata data. Difficoltà ulteriori sono sorte per ragioni squisitamente politiche che, come è noto, hanno fatto sì che della attuazione della riforma si sia dovuto occupare un governo espressione dello schieramento politico che, prima in parlamento e poi nella campagna relativa al referendum costituzionale, si era battuto contro la riforma costituzionale.
Un governo chiamato ad attuare una riforma che aveva avversato, ma che era stata invece apprezzata dalle Regioni governate dallo stesso suo schieramento, ha tenuto poi un comportamento schizofrenico. Se si esaminano le leggi proposte dal governo, a partire dalle finanziarie, o se si esaminano le impugnazioni delle leggi regionali, l’impressione è di una netta chiusura nei confronti delle Regioni e dei loro timidi tentativi di usare i “nuovi poteri”; ma, d’altra parte, lo stesso governo ha promosso l’iniziativa di nuove modifiche della costituzione nel segno di un più accentuato “federalismo”. Ma è proprio così?
La riforma chiamata devolution risponde ad una tradizione italiana: un provinciale tentativo di motteggiare l’ultima moda d’importazione, tradendone completamente lo spirito. Come la devolution britannica è una risposta meditata e pragmatica ad un problema di autonomia (anzi, tre risposte pragmatiche a tre problemi diversi di autonomia, essendo Scozia, Galles e Irlanda “regioni” storiche con ben diversi statuti, tradizioni e prospettive), così la nostra “devolution” è un’improvvisata e cialtronesca boutade, che non intende risolvere nulla se non il problema su cosa litigare per i mesi futuri. Una tradizione tutta italiana, dicevo, perché ricordo ancora i tempi in cui il dibattito politico italiano si accendeva sulle lettere di Garibaldi, sulle esternazioni di Cossiga o su altri mille argomenti altrettanto perfettamente futili, sfiorando magari la crisi di governo.
La devolution è perfetta per litigarci sopra. Non significa nulla, dal punto di vista tecnico: è assolutamente incomprensibile che cosa potrebbe modificare, nel quadro dei rapporti tra Stato e Regioni, la sua eventuale approvazione. Non ci sarebbe né lo sfascio del paese, ma neanche il benché minimo progresso sulla strada del federalismo. Non c’è niente, per il semplice fatto che questa riforma è fatta di poche parole, alcune righe, di un solo comma che andrebbe aggiunto al testo attuale della Costituzione, in cui si afferma che le Regioni potrebbero attivare “competenze esclusive” in alcune materie su cui già ora vantano la potestà legislativa. L’idea sarebbe che così le Regioni su quelle materie hanno competenze effettive. Piccolo particolare: su quelle materie le Regioni attualmente hanno già competenze effettive, esattamente le stesse che dopo la “devolution” potrebbero “attivare”. L’“assistenza e organizzazione sanitaria” non rientra negli elenchi delle competenze esclusive dello Stato, né in quello della materie “concorrenti”: qui si ritrova però la “tutela della salute”, che probabilmente guarda ad aspetti più generali del benessere fisico, della prevenzione della malattie e del diritto alla salute. È il Governo, quello stesso che propone la devolution, che non perde occasione di proporre l’interpretazione più restrittiva e statalista della “materia”. L’organizzazione scolastica e la gestione degli istituti sembra rientrare già nelle competenze “residuali” delle Regioni, assieme alla formazione professionale, dato che allo Stato sono riservate in via esclusiva le “norme generali sull’istruzione” e la sua competenza concorrente si limita ai “princìpi fondamentali” dell’istruzione; l’unica novità, almeno perché in precedenza non era esplicitata, sarebbe dunque la “definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione”, ferma comunque restando l’autonomia degli istituti scolastici. Quanto alla “polizia locale”, essa appartiene già in pieno alla competenza “residuale” delle Regioni, dato che espressamente la esclude dalla competenza statale la lett. h) dell’art. 117, co. 2. E allora?
Allora non è affatto chiaro che cosa significhi affermare la “esclusività” della potestà legislativa regionale in certe materie. Infatti restano comunque fermi i commi precedenti dell’art. 117 e, in particolare, le competenze esclusive dello Stato per ciò che riguarda i “livelli essenziali” delle prestazioni sanitarie, le “norme generali” per l’istruzione, l’”ordine pubblico” e l’”ordinamento penale”. È la stessa relazione governativa al disegno di legge costituzionale a tranquillizzare su questo punto, ribadendo l’intangibilità di questi limiti. Per cui le pretese “competenze esclusive” non sarebbero affatto sottratte agli interventi legislativi dello Stato. D’altra parte, ci immaginiamo una sanità senza la definizione dei livelli minimi dell’assistenza? No, perché resta scritto in Costituzione; per il codice civile varrebbe lo stesso, e così per le norme penali, per gli obblighi internazionali e per tutti gli strumenti di cui lo Stato deve disporre per tenere difficoltosamente insieme questo paese disciplinato da 22 legislatori locali.
Si ha perciò netta l’impressione che, se entrasse in vigore questa ulteriore riforma, il “saldo netto” per le attribuzioni regionali non sarebbe affatto positivo. A fronte di qualche opinabile arrotondamento di competenza, che si è visto non essere facile da determinare, il fatto che la Costituzione qualifichi come “esclusiva” la potestà regionale in relazione a queste singole materie potrebbe indurre l’interprete a ritenere che tutte le altre materie, quelle “residuali” ma non “esclusive”, debbano avere un’estensione minore, un qualcosa in meno rispetto a quelle definite dal nuovo comma, appunto, come “esclusive”.
Insomma, il progetto di “devolution”, sottoposto ad analisi tecnico – giuridica, non sembra avere alcuno degli effetti decisivi che il dibattito politico gli ricollega, né nel senso di un progresso verso il federalismo, né nel senso di una rottura dell’unità del sistema. Appare come un evento tutto politico e “simbolico”, del tutto incapace di risolvere i problemi che la riforma del Titolo V ha lasciato aperti, ai quali anzi sembra aggiungerne semmai di ulteriori: insomma, l’ideale per poter litigare a lungo sul niente.
Ancor meno parole occorre spendere per commentare il disegno di legge costituzionale di ri-riforma dell’art. 117, approvato dal Governo l’11 aprile 2003 e mai presentato alle Camere. Siccome nel frattempo (20 luglio 2003) è divenuto irreperibile sui siti del Governo, del Ministero delle Regioni e del Dipartimento delle riforme costituzionale e della “devolution”, ci sono sufficienti motivi per non prenderlo troppo sul serio. Del resto esso rappresentava la lineare prosecuzione della inutile ricerca di risolvere seri problemi istituzionali con inutili artifici verbali, quali in fondo sono le “etichette” delle materie, la sostituzione della competenza “concorrente” con la competenza “esclusiva” a disciplina “le norme generali” nelle etichette stesse, l’introduzione dell’”interesse nazionale” come categoria metafisica slegata da qualsiasi congegno, meccanismo, regola istituzionale. Nulla di nuovo, dunque.
A poco vale la promessa contenuta nella relazione ai due disegni di legge che il prossimo passo sulla strada del federalismo sarà la riforma delle istituzioni costituzionali, per immetterci la rappresentanza delle autonomie. È una promessa che si ripete ormai da tempo, e che forse è giunto il momento di sfatare.
6. Il vero punto critico del regionalismo italiano, nonostante tante riforme tentate, varate, attuate, promesse o minacciate, resta allo stato originario: si può, in un sistema regionale di tipo cooperativo, non dire una parola sulle sedi e le procedure della cooperazione, e continuare a far finta che il problema del riparto dei compiti tra i livelli di governo (Stato, Regioni, Province, Comuni) si possa risolvere con un elenco di materie, più o meno chiaramente descritte, e qualche formula magica come il principio di sussidiarietà? Si sono tolti dal testo costituzionale tutti i meccanismi che in passato avevano sviluppato canali di cooperazione, contorti e poco garantisti certo, usati come grimaldelli per “forzare” le attribuzioni delle Regioni: ma non si è stati capaci di sostituirli con meccanismi nuovi, lasciando il testo costituzionale pieno di cancellature e basta.
Il primo problema è la questione del Senato delle Regioni. Questione molto seria e molto ambigua. Da che cosa nasce il bisogno di un Senato delle Regioni? Nasce da una semplice e ovvia notazione: mettiamo che si debba decidere la politica dell’ambiente o la riforma della ricerca applicata all’industria: come lo si fa? Ciascuna Regione decide per sé e poi si cerca di trovare accordi a livello nazionale? È una strada piuttosto difficile, lunga ed inefficiente. Non sarebbe meglio che la legge la facesse lo Stato con l’accordo delle Regioni, cioè la decidessero insieme? La risposa ovvia è sì. Anche perché se la Regione scrive la legge insieme allo Stato, cercherà di scriverla in modo che corrisponda alle proprie esigenze e di conseguenza non avrà né bisogno di fare poi una legge diversa, né tanto meno di contrastare la legge dello Stato impugnandola di fronte alla Corte costituzionale. Basterebbe una legge nazionale, che però sarebbe una legge di tipo “federale”, perché nata da un patto, un accordo tra i diversi livelli di governo.
Ora, siccome le leggi le fa il Parlamento, la soluzione più ovvia sarebbe che, accanto ad una Camera “politica”, frutto di elezione diretta dei rappresentanti del popolo intero, ci sia una Camera che invece rappresenti le Regioni. Più o meno questa è il principio di tutti i sistemi federali. Il problema è come attuarlo: ma a questo problema è dedicato un altro contributo in questo volume. Tuttavia preme qui sottolineare che la “regionalizzazione” del Senato, se indubbiamente può costituire, oltre al superamento del nostro inutile “bicameralismo perfetto”, un modo per razionalizzare la produzione legislativa tanto statale che regionale, non basta a risolvere i problemi di coordinamento propri di un sistema cooperativo. Molto dipende ovviamente da come il Senato federale venga disegnato.
Si potrebbe proporre un teorema: tanto più il Senato federale è numeroso, basato sull’elezione diretta dei suoi membri, rappresentativo sia della maggioranza che delle minoranze politiche di ciascuna regione, tanto meno serve come sede di cooperazione, perché la sua vocazione “politica” è destinata a prevalere sulla rappresentanza dei territori. Come funziona un’assemblea legislativa, quali interessi essa rappresenta, lo vediamo al momento in cui essa vota: se al momento del voto, essa si divide e si coagula secondo gli schieramenti politici e non secondo gli schieramenti territoriali, quell’assemblea legislativa non è capace di risolvere il nostro problema, non è uno strumento utile al fine che ci siamo dati. Le leggi che usciranno da quell’assemblea potranno essere le migliori leggi del mondo, ma saranno necessariamente delle leggi “centraliste”: gli schieramenti politici non possono che cercare di risolvere in Parlamento i problemi del paese, e quando, dopo il faticoso iter parlamentare, le dure trattative tra i partiti riescono a produrre un accordo, non possono che aspirare a imporlo a tutto il territorio nazionale, e cercare di evitare in ogni modo che qualche Vandea impedisca l’applicazione della riforma faticosamente varata. Il centralismo non è patologia della politica nazionale, è la sua fisiologica inclinazione. Ma questo significa conflitto sistematico tra il legislatore “riformatore” nazionale e le autonomie. Esattamente la malattia che vediamo tormentare il nostro paese e della cui cura vorremmo occuparci riformando il procedimento di formazione delle leggi statali.
Oltretutto il problema del coordinamento e della cooperazione non si risolve affatto nel momento legislativo. Sicuramente è indispensabile che le leggi dello Stato che interferiscono nelle attribuzioni legislative, amministrative e finanziarie delle Regioni ottengano il consenso di chi rappresenta le regioni: ciò vale per tutte le leggi sulle materie “trasversali” riservate alla legislazione esclusiva dello Stato (“livelli essenziali”, “funzioni fondamentali”, “ambiente” ecc.), e per tutte le leggi di “principio” nelle materie concorrenti; ma ciò vale anche per la legge finanziaria e i suoi collegati, nonché per la legge “comunitaria”. Qui si vede la contraddizione dell’idea, oggi molto in voga presso i politici italiani, di un Senato federale eletto direttamente: o le competenze che vengono riconosciute ad esso sono del tutto marginali (verrebbe da dire “provinciali”), e allora se ne umilia la composizione politica; oppure si rischia di creare un’Assemblea politica che – specie nell’ipotesi di elezione contestuale dei suoi membri con il Consiglio della regione cui appartengono – ha buone probabilità di avere una maggioranza politica diversa da quella della Camera e che ne riesce a paralizzare i lavori.
Ma accanto alla cooperazione sul piano della legislazione, la maggior parte del coordinamento ha contenuto necessariamente amministrativo. Non è pensabile infatti che il problema della fissazione dei livelli essenziali delle cure termali, la “determinazione delle modalità di assegnazione delle risorse derivanti dal pagamento degli oneri supplementari a carico dei mezzi d'opera agli enti proprietari di strade” o il “riparto tra le Regioni e le Province autonome delle risorse previste per gli interventi di prevenzione e difesa dagli incendi del patrimonio boschivo nazionale” (cito a caso dall’o.d.g. della Conferenza Stato-Regioni) sia affrontato da una Camera legislativa e risolto in forma di legge. Qui sono anzitutto le burocrazie a dover istruire le decisioni e gli esecutivi a trattare ciò che ha rilevanza. In ciò si esaurisce buona parte delle attività del Bundesrat in Germania: ed è questo il compito che viene espletato dal sistema delle Conferenze in Italia. Solo una cattiva semplificazione del discorso porta a considera il Bundesrat tedesco come una seconda Camera. Non è affatto vero: il Bundesrat è un organo che, sin dalle sue origini ottocentesche, sta a sé: nessuna ambizione di essere un ramo del Parlamento, nessuna investitura democratica, se non quella che deriva dall’essere membro di un governo regionale; i ministri regionali che lo compongono rappresentano esclusivamente gli interessi del Land cui appartengono e che concorre a governare. Il Bundesrat partecipa alla formazione delle leggi, di una certa quota di leggi, ma non è affatto un “Senato” come lo concepiamo noi.
Qualcosa del genere in Italia già c’è, e si chiama Conferenza dei Presidenti delle regioni, che a sua volta concorre a comporre altri organi, previsti dalle leggi dello Stato, di coordinamento dei governi delle regioni e del governo nazionale, la Conferenza Stato-regioni. Allora, se davvero volessimo risolvere quella che, a detta di tutti, è la madre di tutti i problemi del regionalismo in Italia, non è indispensabile intraprendere la difficile e sproporzionata strada della riforma del Parlamento. Basterebbe introdurre in Costituzione la previsione che sia istituita la Conferenza dei Presidenti delle regioni e che tutte le leggi che riguardano le Regioni devono essere approvate dalla Conferenza dei Presidenti. Poche regole procedurali sulla formazione delle leggi, insomma, e avremmo risolto il problema senza dover incidere sulla complicata mitologia delle istituzioni rappresentative, ma con una soluzione semplice, a basso costo ed alta efficacia.
Il che non significa che non vi debba essere in parallelo una progressiva “regionalizzazione” del Senato. La prospettiva di un sistema di governo a più livelli non può che prevedere più sedi di coordinamento, per cui, accanto al coordinamento tra esecutivi, potrebbe utilmente istituirsi un coordinamento tra legislativi, ripartendo responsabilità e ruoli. In questa ottica, anche una riforma del Senato che in qualche modo vi inserisca rappresentanze “politiche” democraticamente elette dai territori può essere utile e funzionale. Ma questo – a mio avviso – non può essere né l’unico né il primo passo da compiere: il primo passo è semmai la costituzionalizzazione della Conferenza dei presidenti di regione. Si tratterebbe però di una riforma piccola, con poco “colore” simbolico, e per di più molto efficace: esattamente l’opposto di quanto perseguono di solito i nostri riformatori.
7. L’ultimo problema riguarda il giudice dei conflitti tra Stato e regioni: la Corte costituzionale. Con significativa inversione dell’ordine logico, nella relazione al disegno di legge Bossi di “devolution” si dice che la “devolution” sarà il primo passo del progetto federalista, che poi sarà seguito dalla riforma della Corte costituzionale e dalla riforma del Senato. Ordine sbagliato perché va invertito. Ma la ragione dell’inversione è che la Corte costituzionale è accusata apertamente dalla Lega di essere una nemica delle Regioni.
Alla Corte costituzionale noi dovremmo invece erigere un monumento, perché di fronte a 50 anni di insipienza del legislatore statale e di incapacità dei politici nazionali a capire i problemi del regionalismo in Italia, e quindi di introdurre i necessari accorgimenti istituzionali, si è fatta carico di risolvere i problemi delle relazioni tra Stato e Regioni attraverso le proprie sentenze. Molto spesso problemi politici sono stati camuffati da problemi giuridici, è ovvio, visto che la Corte costituzionale è un giudice e solo di diritto si può occupare; ma a ciò si è piegata in funzione di supplenza. Incolpare il supplente per aver fatto male il proprio compito lo possono fare tutti, ma non il supplito!
Il problema si risolverebbe nel momento in cui noi eliminassimo il contenzioso introducendo sedi di codecisione. Avessimo noi un procedimento legislativo che consenta di fare le leggi insieme alle Regioni avremmo ridotto in maniera determinante, fisiologicamente come in Germania, qualsiasi contenzioso. I rapporti ridiverrebbero politici, gestiti in sede politica, e non in quella giudiziaria. Il problema oggi è proprio di ridare il suo spazio alla politica. La contrattazione tra Stato e Regioni deve essere gestita con gli strumenti della politica e non deve essere fatta tramite gli avvocati e di fronte a un giudice. Ma se oggi è fatta dagli avvocati di fronte a un giudice non è colpa del giudice, è colpa di chi incarica gli avvocati: e allora è questo il primo passo, trovare le sedi di contrattazione politica di cui già si è detto, in modo da disinnescare il contenzioso. Poi si potrà anche pensare a riformare la Corte.
Perché bisogna riformare anche la Corte costituzionale? Perché è debole l’idea di avere un sistema di forte regionalismo o di federalismo in cui lo Stato, le Regioni, gli Enti Locali stanno sullo stesso piano, ma, al contempo, mantenere fermo che il giudice, l’arbitro dei conflitti tra questi soggetti paritari, è un organo dello Stato, non un organo terzo rispetto alle parti. In tutti i sistemi federali la Corte Costituzionale è composta dalle due parti, secondo le regola di tutti i collegi arbitrali. Il problema quindi c’è, e anche in questo caso le soluzioni possibili, poco costose e armoniose non sarebbero affatto difficili da trovarsi.
L’attuale composizione della Corte è frutto di grande saggezza. Benché il problema dei costituenti fosse essenzialmente quello di bilanciare le componenti “tecniche” (in primo luogo quelle provenienti dalla magistratura), giudicate per loro natura troppo conservatrici, con componenti “politiche” più innovative, alla prova dei fatti si è realizzato un importante equilibrio tra componenti che provengono dai due principali interlocutori della Corte: i giudici, che con i loro ricorsi danno “lavoro” alla Corte, e il Parlamento, delle cui leggi la Corte è giudice e che alle sentenze della Corte dovrebbe dare seguito con nuove leggi.
Non vi è dubbio che in uno Stato centralizzato, “regionale” ma non federale, le Regioni non potevano reclamare una propria proiezione nella Corte costituzionale. Questa, infatti, ha in cura la legalità costituzionale dell’ordinamento nel suo complesso: le questioni che nascono in relazione a leggi o ad altri atti delle Regioni sono viste non come semplici vertenze sorte tra due soggetti istituzionali, che la Corte è chiamata ad arbitrare, ma come problemi di compatibilità dell’atto in questione con l’intero ordinamento giuridico generale e i suoi diversi livelli di “princìpi”. In questa prospettiva, la composizione della Corte è il riflesso della supremazia dello Stato nei confronti delle Regioni.
Se una delle grandi innovazioni prodotte dalla riforma del Titolo V è la parziale attenuazione della supremazia dello Stato nei confronti delle Regioni, non c’è dubbio che sia legittimo prospettare un nuovo assetto della Corte costituzionale, coerente con i nuovi rapporti. Il rapporto paritario che ispira il sistema federale – e che è fatto intravedere dall’art. 114 Cost. - deve esprimersi anche nella composizione dell’arbitro dei conflitti, la Corte costituzionale. Non è un caso che l’introduzione giudici di designazione regionale fosse contenuta già in diverse proposte avanzate in passato da parte regionale e dalla stessa dottrina regionalistica dei primi anni ’70. Il problema è come raggiungere questo obiettivo senza compromettere l’equilibrio di un organo così delicato qual è la Corte costituzionale.
Il problema più difficile è il modo di designazione dei giudici “regionali”. L’ipotesi di affidare tale compito direttamente ai Presidenti delle Regioni o ai Consigli regionali appare poco accettabile perché viene a istituire una sorta di “mandato regionalista”, che può apparire incompatibile con quella che dovrebbe essere la funzione del giudice costituzionale, e cioè la tutela della Costituzione in sé e per sé. Si sommano dunque due problemi diversi: chi designa i giudici “di parte regionale” e quanto l’equilibrio della Corte possa sopportare che in essa siano immessi giudici “di parte”.
Anzitutto, impostato così il problema, si mostra con chiarezza una volta di più come l’ordine delle precedenze indicato dalla relazione al disegno di legge costituzionale “Bossi” inverta l’ordine logico. La riforma della Corte costituzionale dovrebbe infatti seguire, e non precedere, la riforma del bicameralismo o, comunque, l’istituzione di un organo costituzionale di rappresentanza delle Regioni. A parte che, istituendo una sede appropriata per la “cooperazione” tra Stato e Regioni, si ridurrebbe drasticamente il contenzioso, si sarebbe così risolto anche il problema di chi e come procede alla designazione dei giudici della Corte “di parte regionale”. Se poi si volesse risolvere ad un tempo il problema di preservare la “neutralità” della Corte con la sua efficienza, la soluzione possibile sarebbe quella di istituire, in seno alla Corte, una sezione, o un tribunale di primo grado per le controversie “federali”, formato in modo paritetico da giudici “statali” e giudici “regionali”, salvo la possibilità di appello alla Corte quando siano in questione diritti fondamentali.
Insomma, si deve riconoscere che un sistema ad elevato tasso di regionalismo, in cui Stato e Regioni stiano su piani non gerarchicamente differenziati, non può funzionare correttamente senza un giudice dei conflitti di tipo “arbitrale”, così come non si può negare che il decentramento del contenzioso Stato – Regioni consentirebbe un miglior funzionamento della Corte costituzionale, decongestionandone i lavori. Le soluzioni tecniche non mancano di certo: per esempio, si potrebbe istituire, in seno alla Corte, una sezione, o un tribunale di primo grado per le controversie “federali”, formato in modo paritetico da giudici “statali” e giudici “regionali”, salvo la possibilità di appello alla Corte quando siano in questione diritti fondamentali. Il fatto è, però, che si tratta di porre mano alla riforma di un organo, la Corte costituzionale, che, proprio per il suo ruolo di difesa della legalità costituzionale nei confronti del legislatore ordinario – e quindi della maggioranza parlamentare – è spesso al centro della critica politica. Lo Stato di diritto si basa sulla contrapposizione del diritto alla politica, e la Corte costituzionale è chiamata a garantire, al massimo livello, la prevalenza delle regole sulle scelte della maggioranza politica di turno. In un paese in cui dai protagonisti politici sono largamente ignorate e diffusamente disapplicate le regole giuridiche e di correttezza che presiedono al funzionamento della democrazia, l’allarme che suscita ogni accenno a riforme della composizione della Corte costituzionale è di conseguenza più che giustificato.
[1] Questo fenomeno non si è verificato invece in quelle rare situazioni (Provincia di Bolzano e Valle d’Aosta), in cui particolari caratteristiche etniche e linguistiche hanno favorito il senso di appartenenza alla comunità locale da parte del ceto politico: non a caso è proprio in queste realtà che l’autonomia si è rafforzata, sfruttando quegli strumenti tipici dell’autonomia differenziata che invece nelle altre regioni a Statuto speciale non hanno prodotto risultati di particolare significato.
[2] Particolarmente evidente e significativa è stata l’introduzione dell’originale meccanismo del contemporaneo trasferimento di funzioni verso le regioni e gli enti locali, con l’obbligo per le regioni di compiere in tempi certi, pena la sostituzione da parte dello Stato, l’ulteriore conferimento delle funzioni amministrative, salvo quelle “non frazionabili”.
[3] Si veda a tale proposito la sent. 282/2002. Sull’argomento cfr. E. LAMARQUE, Osservazioni preliminari sulla materia “ordinamento civile”, di esclusiva competenza statale, in questa Rivista 2001, 1343 ss.; V. ROPPO, Diritto privato regionale?, in Pol.dir. 2002, 553 ss.
[4]
Su cui la già citata sent. 282/2002, nonché la sent. 88/2003.
[5] Sent. 407/2002; in senso conforme sent. 536/2002.
[6] Su ciò cfr. già le osservazioni di L. PALADIN, Intervento alla Tavola rotonda su I disegni di legge del Governo in materia di decentramento e semplificazione amministrativa, in questa Rivista 1996, 868 ss.
[7]
Ipotesi qualificata come “aberrante” da A.
D’ATENA, Legislazione concorrente, principi impliciti e delega per la
formulazione dei principi fondamentali, in Forum di Quad.cost. (http://www.unife.it/forumcostituzionale.it/contributi/
titoloV5.htm#ada).
Vi è da notare, inoltre, che l’illegittimità di una delega siffatta viene da
altri sostenuta sulla base di un argomento più specifico, che in base all’art.
11 della legge cost. 3/2001 sussisterebbe una vera e propria riserva di
Assemblea per l’approvazione delle leggi di principio in materia
concorrente, con l’obbligatorio parere della Commissione bicamerale
integrata: per cui la riserva di assemblea si tradurrebbe anche in una riserva
di legge formale, tale da escludere l’intervento di atti con forza di legge
del governo; in questo senso, cfr. ad es. ASTRID, La riforma del titolo V
della Cost. e i problemi della sua attuazione, in Federalismi.it (http://www.federalismi.it/federalismi/document
/ACFC062.pdf),
nonché F. PIZZETTI, Audizione del Presidente dell'A.I.C. al Senato sulla
revisione del Titolo V, parte II della Costituzione - Risposte dei soci
dell'A.I.C. ai quesiti (http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/materiali/
speciali/senato/pizzetti.html).
[8] Proprio su questo punto si è accentrata l’attenzione del dibattito parlamentare, che ha condotto all’approvazione di un emendamento teso a rafforzare il carattere meramente ricognitivo dell’attività delegata al Governo, restando riaffermata la competenza esclusiva del Parlamento a determinare i princìpi fondamentali delle materia: cfr. i lavori della Commissione Affari costituzionali del Senato, in prima lettura referente, seduta notturna del 22 ottobre 2002. I lavori preparatori della legge sono raccolti dal Servizio studi del Senato nel Quaderno di documentazione n. 36, Roma 2003.
[9] Sent. 138/1972.
[10] Così G. FALCON, in S. BARTOLE, R. BIN, G. FALCON, R. TOSI, Diritto regionale, Bologna 2003, 152 s.
[11] Cfr. per tutti M. SCUDIERO, Legislazione regionale e limite dei princìpi fondamentali: il difficile problema delle leggi cornice, in questa Rivista 1983, 7 ss., cui adde R. BIN, Legge regionale, in Digesto disc. pubbl. IX, Torino 1994.