Roberto Bin

 

Il mio intervento si articola su tre punti: ciò che Friuli-Venezia Giulia ha fatto come contributo alla progettazione di una riforma dello stato in senso federale; le prospettive di difesa o di valorizzazione della specialità statutaria del Friuli-Venezia Giulia in un contesto di tipo federale; i nodi centrali della riforma federale in Italia.

 

1. Sul primo punto bastano poche parole. Ciò che il Friuli-Venezia Giulia ha prodotto è una bozza di testo federale di riforma, presentata dalla Presidente Guerra nel 1994, ma mai adottata dagli organi regionali. Per il resto la Regione ha aderito ai documenti elaborati dai consigli regionali e nelle altre sedi di coordinamento nazionale. Ma il Friuli-Venezia Giulia sta soffrendo una fase di grave crisi politica, poiché maggioranze e giunte si susseguono con grande velocità provocando la paralisi della progettazione istituzionale. Siamo, se ho ben contato, alla quinta Giunta di questa legislatura, iniziata appena nel ‘93, e alla quinta formula di coalizione: nella maggioranza sono prima o poi transitate tutte le numerose formazioni politiche che popolano l’instabile panorama assembleare, tranne AN. Ciò ha provocato un’inerzia pressoché totale anche su punti cruciali e più direttamente coinvolgenti la regione, come sull’attuazione della legge cost. 2/93 - la legge che finalmente conferisce alle regioni ad autonomia speciale potestà legislativa primaria in materia di ordinamento dei poteri locali, questione che nel Friuli-Venezia Giulia in particolare è stata sempre considerata centrale.

         La proposta Guerra non è cattiva, anche se forse è un po’ invecchiata; si regge su due elementi portanti: l’assetto asimmetrico delle autonomie, che si autodefiniscono le attribuzioni; e un senato federale simile a quello della proposta Zeller-Brugger che ha illustrato poc’anzi Roberto Toniatti, ma con la cruciale differenze di non prevedere la regola del voto unitario per i rappresentanti di una regione.

 

2. Quanto alle prospettive, credo che il Friuli-Venezia Giulia debba essere la più allarmata delle regioni speciali, quella che, soprattutto in un contesto di tipo federale, avrà più difficoltà a trovare ragioni giustificative della sua specialità. Per quanto lo si sia tante volte affermato con enfasi, i motivi della specialità di questa regione non sono da ricercare né nella presenza della minoranza slovena, alquanto ridotta, né nella presenza della lingua friulana. La spiegazione storica è certamente legata al contesto internazionale e alla delicata questione di Trieste, che solo in anni relativamente recenti ha trovato una (sia pure contestata) soluzione; nonché al bisogno di assicurare alla città un retroterra culturale, politico e produttivo, e quindi di favorire un progetto di integrazione economica, che almeno in parte è ormai attuato. La funzione della specialità sembra essersi dunque esaurita. Ma Trieste e il suo retroterra son due realtà diverse, hanno sei secoli di separazione, iniziata quando il porto giuliano si “donò” all’Austria per non sottostare al dominio veneziano. Lo stesso Friuli non è affatto una realtà omogenea: per cui si potrebbe quasi dire che nel Friuli-Venezia Giulia il federalismo e vissuto anzitutto come problema interno, il problema di mettere insieme realtà diverse e non equilibrate. Da qui anche il fiorire abnorme di liste autonomiste locali, e per questo stesso motivo l’attuazione della legge cost. 2/93 ed il conseguente riordino dell’amministrazione regionale assumono in questa regione una rilevanza assoluta.

         Per tutte le regioni speciali la riforma federale sarebbe una sfida; ma la Valle d’Aosta e Bolzano da un lato, le isole dall’altro, mantengono caratteristiche, per così dire, fisiche che giustificano, almeno in principio (altra cosa è quantificarlo in termini finanziari), un regime speciale: ma per il Friuli-Venezia Giulia? Paradossalmente l’unico argomento che può accampare è ancora il confine, anche se questo ha cambiato completamente la sua funzione politica: non separazione tra due blocchi, ma ponte di transito tra due metà d’Europa e tra l’Europa e l’Asia. Se si guardano ai piani comunitari d’investimento nei trasporti, c’è da restare sbigottiti per l’entità e l’importanza delle opere che interesseranno il Friuli-Venezia Giulia. Si preannuncia un fenomeno che forse nessuna altra regione italiana ha mai subito, almeno di questo ordine di grandezze. Se la regione non ottiene strumenti per partecipare alla messa a punto dei progetti e alla loro attuazione, rischia di perdere qualsiasi controllo del territorio e dello sviluppo economico.

         Forse in questa prospettiva si può incominciare a individuare il senso e la direzione della “nuova” specialità del Friuli-Venezia Giulia, fatta di poteri di pianificazione e progettazione, nonché di iniziativa nelle relazioni internazionali. Ma attenzione al problema delle competenze regionali in materia di politica internazionale: tutte le regioni, in prospettiva, se volessero porsi come strumento attivo di politica economica, dovrebbero reclamare e ottenere rilevanti competenze in materia internazionale. Noi siamo stati un po’ troppo abituati a considerare l’attività di rilievo internazionale delle regioni come qualcosa che riguarda i rapporti di buon vicinato o la cura di vecchie tradizioni o nostalgie. Perciò sembra  che alcune regioni siano più vocate di altre alla politica internazionale. Non credo che sia proprio così: mi chiedo, per esempio, se il confine della regione Piemonte sia proprio la Savoia francese o il Valais svizzero, o non piuttosto le zone del sud-est asiatico in cui si producono i microchips da cui dipende il futuro di quel che si è salvato dell’industria informatica del Canavese.

 

3. Quanto alle riforme in generale, vorrei dire due cose sulla sussidiarietà e sulla federalizzazione del parlamento, che poi, come vedremo, sono per me la stessa cosa. Se dovessi dare un titolo paludato alle mie riflessioni sulla sussidiarietà, metterei “Sussidiarietà e il ritorno alla costituzione flessibile”. Tutti sanno che ‘sussidiarietà’ è una parola vuota di significato giuridico; inserita in un discorso giuridico o in un testo legislativo è un salto nel vuoto di significato. Essa è però significativa come programma di politica legislativa: preannuncia la soppressione del vecchio sistema di ripartizione delle funzioni per materie e dei confini rigidi e predefiniti tra le competenze dei diversi enti, confini tutelati da una sentinella - giudice qual’è la Corte costituzionale. La Corte costituzionale tedesca ha più volte rifiutato di impiegare la sussidiarietà come concetto giuridico, e questo è già di per sé significativo, essendo proprio la Germania il paese che ha fatto della sussidiarietà un principio costituzionale scritto. Al posto dei vecchi confini viene introdotto un criterio elastico di efficienza.

         Ma in Italia questo programma legislativo si è già realizzato in parte: non si chiama, nel linguaggio tecnico della Corte costituzionale, sussidiarietà, ma “variabile livello degli interessi”. Le funzioni si distinguono e di ripartono a seconda che siano di livello statale, regionale o locale, anche se in costituzione o nello statuto regionale la “materia” ha un’espressa etichettatura regionale. Credo che nessuno consideri questo evento come positivo per le autonomie!

         Il fatto è che la sussidiarietà, anche nella nostra versione casereccia, rende flessibile i criteri di ripartizione delle funzioni e non più garantibili dal giudice, cioè dalla Corte costituzionale. Insomma, noi, in Italia, abbiamo già subito il terremoto istituzionale che è preannunciato dallo slogan “sussidiarietà”, ma non abbiamo ancora ricostituito le regole istituzionali capaci di ridare razionalità alle relazioni centro-periferia. Come ogni bravo giurista sa, quando si deve rinunciare ad una regolazione giuridica sostanziale (come avrebbe voluto essere la ripartizione delle funzioni per materie e per livello di normazione), si approda ad una regola procedurale. Ma le regola procedurali in Italia non ci sono ancora. Il loro nome è: codecisione.

         La Germania ci mostra la via corretta della sussidiarietà. La macchina istituzionale tedesca funziona correttamente per il suo scopo, che è assicurare un efficiente meccanismo co-decisionale. Come è a tutti noto, esso si basa sull’inserimento nel procedimento decisionale federale, e di quello legislativo in primo luogo, di un Senato composto da membri dei governi dei Länder. Posta questa norma, il resto del sistema costituzionale di relazioni centro-periferia potrebbe anche non essere scritto. La regola è che chi deve essere il titolare di una competenza lo si decide insieme, secondo ragioni di opportunità. Oggi, abrogato di fatto il Titolo V della Costituzione, lo decide, secondo criteri di opportunità, unilateralmente lo Stato. C’è una bella differenza! Noi facciamo finta di avere una costituzione rigida che regola i rapporti Stato-Regioni, ma in realtà non abbiamo alcuna costituzione. La sussidiarietà, intesa - come va intesa - come procedimento decisionale, ci propone di sottoporre quei rapporti ad un regime paragonabile a quello delle costituzioni c.d. “flessibili”.

         Lo Statuto albertino, al pari delle coetanee costituzioni c.d. “flessibili”, era un buon esempio di costituzione che si limita a dettare una regola procedurale: le decisioni fondamentali - e le leggi anzitutto - devono essere codecise dal Re e dalle Camere, devono essere approvate dal “Re in Parlamento”. In questo risolveva la sua funzione normativa che, come dicevano i più accreditati dei suoi commentatori contemporanei,  era rivolta a porre un argine irrevocabile al passato, all’assolutismo del Re. Oggi uno schema analogo può essere impiegato per porre un argine irrevocabile all’assolutismo delle autorità centrali, sottoponendole a un processo di codecisione. O si imbocca questa strada, oppure si va incontro alla definitiva sparizione delle garanzie costituzionali delle autonomie.

         Per questa ragione, la riforma del Senato è generalmente percepita come la chiave di volta del sistema. Ma nell’affrontare questo argomento, non bisogna trascurare le compatibilità tecniche. Se si tratta di progettare una macchina efficiente, non si possono cercare mediazioni su come si combinano i suoi ingranaggi: o si combinano o la macchina non funziona. Ora, esiste un'unica soluzione efficiente, e su questo tutti i tecnici sono d'accordo, purché non abbiano la casacca di partito addosso. L’ unica forma funzionale di senato autonomie è il Bundesrat tedesco, non esistono alternative: lo dimostra la Spagna, che ha un senato in parte eletto direttamente e in parte nominato dagli esecutivi e funziona così male che lo vogliono cambiare e adottare il modello Bundesrat. Noi invece, incuranti o inconsapevoli, stiamo indirizzandoci verso il modello della Spagna. L'austria ha un senato eletto dai consigli regionali: non funziona, tanto è vero che hanno dovuto fare delle norme costituzionali per impedire che il senato delle regioni non facesse l'interesse delle regioni, e da noi invece si ripete, incuranti o inconsapevoli, che il senato deve essere eletto dai consigli regionali. Come si divideranno i gruppi nel senato? per colore politico, è ovvio, e saremo al punto di prima. E poi chi andrà a fare il Senatore, il politico di punta o l’ex, il politico caduto in disgrazia: è importante saperlo, perché nel primo caso il Senato diverrà, come in America, la camera politica per eccellenza, a tutto discapito della rilevanza politica delle Regioni e dei loro leader politici; nel secondo caso avremo affidato la difesa degli interessi della Regione a personaggi di seconda fila, desiderosi e capaci semmai di badare al proprio rilancio.

         Insomma, niente elezione diretta (che, per altro, in Italia c’è già, non dimentichiamolo!), né di secondo grado: e neppure soluzioni miste. Chi sostiene queste soluzioni o non sa quello che dice o, dietro ai vuoti richiami al federalismo, alla sussidiarietà ecc., altro non fa che difendere i propri meschini interessi di categoria: i senatori difendono il Senato (quello loro), i consiglieri regionali difendono se stessi immaginandosi già nei panni di senatori, i sindacati dei comuni e delle province già si immaginano come sarebbe bello garantire ai propri membri un futuro senatoriale, e così via. Ognuno porta il suo piccolo, cieco, egoistico contributo all’affossamento di qualsiasi seria riforma delle autonomie in Italia. Perché scrivere la parola ‘sussidiarietà’ in apertura delle leggi e dei discorsi, per poi creare meccanismi che non la servono, non solo è inutile, ma anche dannoso, perché giustifica il definitivo abbandono anche di quelle poche garanzie che il vecchio sistema costituzionale di ripartizione delle funzioni può ancora assicurare.

         C’è poi, attorno al Senato “federale”, l’altro grosso problema, quello della pretesa di Comuni e Province di esservi rappresentati sullo stesso piano delle Regioni. E’ una pretesa indebita, perché il Senato smetterebbe di funzionare. Ancora una volta, come si comporrebbero i gruppi senatoriali?  In base alle classi di comuni forse: ci sarebbe il gruppo dei comuni sopra i 10.000 abitanti, quello dei comuni capoluogo, delle aree metropolitane, delle province, delle regioni? o si divideranno in base al colore politico? avremmo distrutto un senato che è diviso secondo il colore politico per ripristinare un senato che è diviso per colore politico. Dove starebbe la garanzia delle autonomie? questo senato farà politica, e se il governo è del Polo sosterrà una dura battaglia contro il governo del Polo se in senato la maggioranza è dell'Ulivo, o viceversa. Questo è il risultato che garantisce autonomie e la sussidiarietà? no questo è ancora l'affossamento del sistema. Un Senato ridotto ad essere il CNEL delle autonomie è esattamente quanto si possono augurare le burocrazie ministeriali e politiche, ben istruite al classico “divide et impera”. Ed infatti fomentano vistosamente la guerra tra poveri, tra le Regioni e gli enti minori.

         Siccome il movimento dei “nuovi sindaci”, che ambisce a entrare nel senato “federale”, è un fenomeno politico molto serio che seriamente ambisce a raggiungere le istituzioni centrali; ma siccome però il Senato di un sistema federale deve, come i consoli romani, essere formato da due aggregati di interessi e non più: la contraddizione va risolta con un po’ di fantasia, allargando lo sguardo.

         A mio avviso questa classe politica nuova (che in parte sta sorgendo anche nelle Regioni) deve trovare la sua rappresentanza a livello nazionale. Ma perché necessariamente al Senato, organo deputato, in un sistema federale di tipo tedesco, a non svolgere attività politica nei termini convenzionali? La rappresentanza politica si concentra nella Camera dei deputati, ed è lì che i nuovi sindaci dovrebbero bussare. Perché non si pensa seriamente a rimuovere un piccolo meccanismo, non scritto neppure in costituzione, cioè la regola dell'ineleggibilità dei sindaci? Sarebbe una vera rivoluzione. In Francia più di metà dell'Assemblea nazionale è fatta da sindaci, un bel pezzo di governo è fatto da sindaci: e parlo non di ex-sindaci, ma di sindaci in carica. In Francia c'è la vecchia tradizione della cumulabilità delle cariche, per cui il sindaco è l'anello portante della carriera politica, non il primo anello: nel senso che il politico proprio facendo il sindaco dimostra di sapere amministrare e restando sindaco diventa deputato o ministro.

         L'importanza di questo meccanismo è evidente. Oggi noi abbiamo una struttura politica in cui il sindaco subisce la concorrenza politica del deputato locale, che torna nel suo collegio sbandierando il “suo” progetto di legge di interesse locale o vantandosi di aver ottenuto a Roma il finanziamento dell'ennesima struttura inutile. Lo fa saltando il sindaco, facendogli una spietata concorrenza politica. Che interesse ha questo politico-deputato ormai “arrivato” (a Roma) a battersi per un assetto federale, seriamente ispirato alla sussidiarietà, per un assetto che diminuirebbe la sua capacità di influenza? Ora, poiché questa nuova classe politica locale sta facendo, non bene, ma benissimo, sarebbe del tutto naturale che ambisse a fare concorrenza alla classe politica nazionale: smettendo di fare la guerra fra poveri, i politici regionali e locali dovrebbero seriamente pensare a creare quello che è il logico sbocco di una classe politica, cioè l'occupazione dell’ intero parlamento, non nel contendersi il Senato senza curarsi delle funzioni che esso deve svolgere. E non c’è dubbio che una massiccia presenza di sindaci nella Camera servirebbe a migliorare la tecnica legislativa, impedendo questo continuo sfornare, tra una finanziaria e un collegato, di leggi prive di qualsiasi considerazione in termini di fattibilità amministrativa - leggi approvate da politici che un’esperienza di amministrazione attiva non l’hanno mai provata o l’hanno da tempo dimenticata.

         Naturalmente questo significa aumentare i nemici di una riforma delle istituzioni nel segno della sussidiarietà e del federalismo, poiché a scendere in campo saranno, accanto ai ministeriali e ai senatori, anche i deputati. Ma i nemici bisogna anche saperseli scegliere: e che i nemici delle autonomie si annidino tutti nelle istituzioni centrali, al fine, mi sembra più che naturale.