I sistemi federali e quelli regionali hanno subito tutti, nel corso della seconda metà del secolo XX, una trasformazione profonda e univoca. Una trasformazione di tale forza da ridurre di molto le loro differenze genetiche, così forti in origine tra il “modello” federale (stadio evolutivo della confederazione tra Stati sovrani, ordinata dal diritto internazionale) e il “modello” regionale (stadio evolutivo dello Stato unitario, ma ormai avviato sulla strada del crescente riconoscimento delle autonomie), così come tra i singoli sistemi, spesso a fatica fatti rientrare nell’uno o nell’altro “modello”. La trasformazione ha spinto tutti i sistemi a convergere verso un assetto “cooperativo”, nel quale la varietà delle formule costituzionali, attraverso cui venivano organizzati in astratto i diversi sistemi di ripartizione delle attribuzioni tra centro e periferia, sfumavano e si riducevano ad uno spettro assai meno ricco di formule di collaborazione in concreto tra centro e periferia.
Nell’ordinamento italiano questa trasformazione si è venuta compiendo, senza alcun adattamento dell’architettura costituzionale, attraverso leggi ordinarie, prassi e giurisprudenza costituzionale. Come ciò sia potuto accadere richiederebbe, a spiegarlo, un discorso lungo e qui inopportuno. Interessante è invece registrarne gli effetti sul piano del concreto assetto delle autonomie e, segnatamente, di quella della Provincia di Bolzano.
È a tutti noto che l’assetto asimmetrico delle autonomie regionali, riscoperto di recente in tante proposte di revisione del Titolo V della Costituzione occhieggianti la Spagna, è invece un tratto originario del sistema costituzionale italiano. Che un quarto delle regioni sia dotato di un ordinamento costituzionale differenziato tanto dalle altre regioni, quelle a statuto ordinario, che ciascuna regione speciale da ogni altra, non è sicuramente, in linea di principio, un fattore di asimmetria di poco conto. Se poi nell’evoluzione delle prassi questa differenziazione si è venuta attenuando in ogni senso, riducendo a ben poco l’asimmetria del sistema, questo è un fenomeno non imputabile all’architettura costituzionale originaria, ma ad altri fattori che vanno perciò attentamente indagati.
Il quadro effettuale a cui siamo oggi arrivati ci rivela un sistema in cui l’omologazione delle regioni, a prescindere dallo status costituzionale della loro autonomia statutaria, emerge con tutta evidenza. Rispetto a questo quadro, le uniche realtà asimmetriche sono rimaste la Provincia di Bolzano, in modo particolarmente accentuato, e, in misura più attenuata, la Regione Valle d’Aosta e la Provincia di Trento. Le ragioni del permanere di queste forme asimmetriche sono generalmente riconosciute nella particolare situazione linguistica che, con la stessa gradualità, caratterizza proprio queste tre realtà. Ma le particolarità linguistiche da sole non spiegano tutto. Lo specifico ruolo istituzionale che la Provincia di Bolzano ha progressivamente assunto, ha indubbiamente risposto alle esigenze linguistiche e di politica internazionale della provincia tirolese, ma non era certo l’unica risposta possibile a quelle esigenze: d’altra parte, esso ha finito con connotare profondamente la posizione della Provincia nell’àmbito della Repubblica italiana. Non sono solo le regole statutarie e legislative ad aver marcato questo ruolo: non si spiegherebbe altrimenti perché la Provincia di Trento faccia avvertire assai meno la sua asimmetria, pur avendo il medesimo quadro normativo di riferimento. Ciò che ha segnato la differenza della Provincia di Bolzano è il modo in cui essa ha costruito il “suo” regionalismo cooperativo: un modo del tutto diverso dalle altre regioni e province italiane.
Vi sono alcune tappe precise nella storia dell’evoluzione del regionalismo in Italia verso il modello cooperativo.
Il punto di partenza è una Costituzione troppo astratta e retrospettiva per essere capace di prevedere i luoghi e le forme della cooperazione tra Stato e regioni. All’opposto, essa è tutta legata ad una tradizionale impostazione delle relazioni tra centro e periferia in termini di separazione delle sfere di competenza, se non degli stessi ordinamenti. L’asse portante dell’autonomia regionale è la potestà legislativa, con cui combacia l’autonomia amministrativa (il c.d. principio del parallelismo delle funzioni): tutto il progetto costituzionale si basa perciò sugli elementi di qualificazione della competenza legislativa regionale, ossia dei limiti che essa incontra nell’ordinamento legislativo generale. Pur concepito, dunque, tutto in termini di separazione delle competenze, tuttavia il quadro costituzionale, per garantire il rispetto dei confini costituzionali, impiega criteri (“principi fondamentali”, “norme fondamentali”, “interesse nazionale”, ecc.) che risultano, in sede di applicazione concreta, del tutto evanescenti, impossibili da definirsi con categorie giuridiche affidabili: il che lascia l’evoluzione del sistema alla trattativa politica o al contenzioso giurisdizionale davanti alla Corte costituzionale.
Ma per vent’anni le Regioni speciali sono state lasciate sole nella trattativa con lo Stato, in una posizione di ovvia debolezza: sono rimaste dunque a languire ai margini di un ordinamento rigorosamente improntato al centralismo politico, legislativo e amministrativo. Poi l’avvento delle regioni ordinarie ha aperto un nuovo fronte della contrattazione che ha visto tutte le regioni schierate compatte sullo stesso versante. Come è nella logica della contrattazione, il fronte regionale ha cercato di presentarsi alla trattativa compatto, ponendo in secondo piano le differenze politiche, di tradizione amministrativa, finanziarie, di tipologia statutaria. L’egualitarismo è stato assunto a principio cardine: le stesse regioni speciali lo hanno accettato, arricchendosi dei frutti che cadevano sotto gli scossoni delle regioni ordinarie[1], ma mantenendo i privilegi, specie finanziari, della loro condizione statutaria – privilegi tacitamente accettati, pur con poco entusiasmo, dalle altre regioni, sempre in nome dell’unità del fronte delle autonomie.
I trasferimenti delle funzioni amministrative alle regioni ordinarie del 1972 e del 1977 si compirono nel segno della prudenza e della diffidenza. Giustificate: se le regioni dovevano essere trattate come realtà eguali, equivalenti, in che misura il trasferimento di funzioni poteva essere graduato se non commisurandolo al livello più basso, cioè a quello delle regioni meno affidabili? La questione è seria: come si può affidare interamente la gestione di risorse delicate e non rigenerabili, come quelle ambientali o artistiche, oppure la realizzazione di diritti fondamentali, come la salute, ad enti che sono paralizzati da crisi politiche insolubili e durature oppure da endemica inefficienza amministrativa? L’egualitarismo, frutto naturale del “sindacalismo” delle regioni (il fronte comune cui si accennava), ha prodotto l’allineamento delle regioni anche nel giudizio sull’affidabilità e, di conseguenza, nella graduazione delle attribuzioni. Naturalmente un allineamento verso il basso, tale da consentire allo Stato di non perdere mai il controllo delle attribuzioni pur trasferite alle Regioni. Lo si è ottenuto procedendo attraverso le note tecniche del “ritaglio delle materie” (trattenendo perciò le attribuzioni di interesse “non frazionabile”), della legge cornice che entra nel più minuto dei dettagli, dell’indirizzo e coordinamento in cui si maschera una funzione tutoria delle amministrazioni centrali di settore su quelle regionali. Tecniche tutte corroborate dalla giurisprudenza costituzionale, a partire dalle note sentenze sulla funzione di indirizzo e coordinamento, “risvolto positivo” del limite dell’interesse nazionale[2].
Una valanga di leggi di settore, in parte cospicua sollecitate dalla Comunità europea, investì le regioni a partire da subito dopo il trasferimento del 1977. Non però le “leggi cornice” da tempo auspicate, ma leggi di disciplina integrale delle singole materie e submaterie, ricche di norme di dettaglio, regole procedurali, complessi meccanismi di codecisione che coinvolgono organi statali, regionali o misti lungo sequenze decisionali più o meno articolate. Anche in questo caso la Corte costituzionale ha convalidato la prassi, affermando che ben può la legge statale di riforma scendere nel dettaglio della disciplina, abrogando le leggi regionali precedenti e incompatibili; salvo la possibilità per la regione di emanare una propria legge di attuazione, che a sua volta deroga le normativa statale di dettaglio[3].
Benché regioni e dottrina siano state compatte nel giudicare questa prassi, e la copertura teorica che ne ha dato la Corte, come un attentato all’autonomia regionale, il fenomeno invece ha rivelato effetti positivi. Lo Stato ha ottenuto per questa strada la garanzia che le sue riforme avrebbero ricevuto immediata applicazione su tutto il territorio nazionale, anche laddove le regioni sono più inerti: ed è caduta così la giustificazione della reticenza con cui in passato erano state centellinate le competenze regionali[4]. Di fatto il principio egualitaristico si è attenuato. Dove le regioni funzionano e vogliono usare la propria autonomia, la legge dello Stato può essere rapidamente sostituita dalla legge regionale; dove ciò non accade, vi è comunque la garanzia (per i cittadini, anzitutto) che la legge statale sia applicata. Del resto, la Corte costituzionale aveva affermato da sempre il principio simmetrico per cui le regioni non possono difendere l’astratta titolarità della competenza legislativa, ma solo il suo concreto esercizio: è solo facendo le leggi che la regione limita l’àmbito di applicazione degli atti normativi statali[5]. Si è aperta la strada ad un sistema a più velocità, in qualche modo suffragato, ancora una volta, dalla giurisprudenza costituzionale.
La legislazione di questo periodo ha anche altri tratti rivelatori. Così come non si preoccupa del rispetto formale della regola costituzionale del riparto di attribuzioni in base alla distinzione principio-dettaglio, non si preoccupa nemmeno di distinguere tra materie “attribuite” dalla Costituzione alle regioni (e poi suddivise nei diversi livelli di potestà) e materie solo “delegate” dal legislatore ordinario. Di fatto, le regioni vengono associate alla macchina amministrativa dello Stato, che decentra ad esse fasi più o meno estese delle procedure decisionali e attuative anche in materie, come l’ambiente, in cui esse non potrebbero vantare competenza. Il risultato è che l’appiattimento della potestà legislativa regionale (e dei diversi livelli in cui essa si gradua) viene in qualche modo compensato dall’allargamento a macchia d’olio delle competenze amministrative delle regioni; mentre la degradazione della legge regionale a strumento solo eventuale, e non necessario, dell’organizzazione amministrativa regionale (che può basarsi direttamente sulle leggi statali) viene a sua volta compensata dall’associazione delle regioni nei procedimenti decisionali, programmatori, di indirizzo dello Stato. Regionalismo amministrativo e regionalismo cooperativo finiscono così con intrecciarsi e a svilupparsi insieme, sempre però fuori da ogni previsione costituzionale: anzi, in deroga a quelle esistenti, che sembrano ormai cadute in desuetudine come sistema di regolazione dei rapporti tra Stato e regioni.
Disordinatamente nelle leggi di settore, in forma più organica con la legge 400/1988 ed ora in modo più completo e sistematico a seguito della riforma “Bassanini” (che, tra l’altro, sembra formalmente decretare la decadenza della classica distinzione tra “attribuzione” e “delega” di funzioni, tutte riassunte e confuse nel destrutturato concetto di “conferimento”), si è venuta istituzionalizzando anche la “leale cooperazione”, cioè la pratica della cooperazione tra Stato e regioni nelle decisioni nazionali più importanti. La centralità che ha assunto il sistema delle Conferenze (Stato-regione e “Unificata”, in particolare) costituisce un’innovazione istituzionale di notevole portata, le cui potenzialità non sono ancora del tutto chiare[6]. Da un lato, l’introduzione del principio di codeterminazione per tutte le decisioni di rilievo che spettano all’esecutivo e interessano le regioni, razionalizza il meccanismo della trattativa politica e rafforza il ruolo politico delle regioni; dall’altro, è un meccanismo che tende nuovamente ad allineare le regioni, a uniformarne gli interessi. Per questa ragione non è affatto detto che esso possa rafforzarsi ulteriormente in una fase, come quella che si è aperta di recente, a seguito delle elezioni regionali del 2000: fase in cui alcuni Presidenti, forti della loro vasta legittimazione elettorale, sembrano voler giocare il proprio ruolo politico in prima persona, fuori dalla “squadra”.
Da queste fasi dell’evoluzione delle regioni italiane, la sola Provincia di Bolzano può dirsi che sia rimasta sostanzialmente estranea.
In parte è stato inevitabile. Il “pacchetto” che aveva messo fine ai dolorosi anni degli attentati, e resa finalmente autonoma la Provincia di Bolzano, veniva approvato proprio nel momento dell’avvio delle Regioni ordinarie. Mentre queste iniziavano la loro stagione “costituente” e si affacciavano sulla scena politica nazionale, formando il loro fronte comune cui si associavano per comunanza di interessi le altre regioni speciali, la Provincia di Bolzano doveva invece ripiegarsi su se stessa e impegnarsi nell’attuazione del suo ordinamento. Non parte dunque di un’alleanza comune con le altre autonomie, ma parte a sé di una trattativa serrata con il Governo, trattativa che aveva la sua sede anzitutto nella speciale commissione paritetica (detta “dei sei”), chiamata a riempire di contenuti le previsioni statutarie esclusivamente per la Provincia di Bolzano. La commissione lavorò – e continua a lavorare - con risultati quantitativi e qualitativi non comparabili con quelli ottenuti dalle altre regioni speciali, divenendo il motore dell’autonomia e il principale artefice dell’asimmetria: ovviamente anche gli “oggetti”, le materie, delle cui modalità di trasferimento si prese a discutere nella “paritetica”, erano in buona parte diverse da quelle che interessavano le altre regioni, e comunque innervate dal particolare problema dei rapporti linguistici.
È evidente che almeno nella prima fase di attuazione del nuovo Statuto, le due Province fossero attente ad evitare il processo di omologazione con le altre regioni. Di fronte all’ondata di leggi di settore, di programmi ministeriali, di atti che in qualche modo si richiamano all’indirizzo e coordinamento, le due Province autonome cercano di fare argine appellandosi alla propria specialità, che difendono con l’uso sistematico del contenzioso davanti alla Corte costituzionale. Ogni legge e ogni atto del Governo che intervengono in materie regionali vengono impugnati dalle Province autonome non tanto per contestarne la legittimità in sé (che è ciò che preme alle altre regioni), ma per sentirsi dire dalla Corte che essi non si applicano nei loro territori[7]. La loro asimmetria statutaria è la giustificazione formale del diverso trattamento loro riservato; il fattore linguistico l’ulteriore ratio distinguendi della Provincia di Bolzano. Ma vi sono ben altri fattori che pesano.
Il primo è l’affidabilità politica e amministrativa. Il punto merita un approfondimento. Non si tratta soltanto della stabilità politica che ha caratterizzato le province autonome: stabilità e continuità sono state costanti anche di altre zone d’Italia, così come un buon standard di efficienza amministrativa. La peculiarità, della Provincia di Bolzano, e non (almeno negli stessi termini) di quella di Trento, è tutta politica: la classe politica altoatesina ha visto nel governo locale il suo unico obiettivo. È una caratteristica importante e diversificante. In tutte le altre zone d’Italia il sistema politico è stato sempre centripeto: la carriera politica che iniziava in periferia, culminava a Roma. Può essere che questo movimento centripeto sia motivato dalla scoperta che al centro c’è la mitologica “stanza dei bottoni” che, assorbendo le decisioni che contano, impedisce di fatto alla periferia di autogovernarsi; ma è sicuro che esso a sua volta concorre pesantemente a rafforzare il centro e il suo peso decisionale. Il politico che arriva a Roma, ma mantiene in periferia il suo “feudo” elettorale, tende a governare da Roma le cose di casa sua, divenendo così un sostanziale concorrente del suo collega, che è rimasto nel governo locale e a cui lui, trasferitosi a Roma, sottrae, oltre che rilievo politico, anche spazio decisionale. Inoltre, essendo centro e periferia parti di un unico complesso intreccio politico, le trattative tra il governo locale e quello nazionale non sono mai condotte su un unico tavolo, quello dell’autonomia e dei ruoli istituzionali. Le distinzioni di competenza, le forme giuridiche che le garantiscono, la separazione dei ruoli, tendono tutte a saltare davanti alla forza di una trattativa politica che nega le distinzioni in nome dei risultati, mostra insofferenza per le forme “legalistiche” che imbrigliano, confonde programmaticamente i ruoli. La versione italiana del regionalismo cooperativo è tutta affidata alla politica, avendo la Costituzione perso la sua funzione regolatrice ed essendosi ben guardata la “politica” di legarsi le mani con un nuovo sistema di regole.
Da queste complesse e, per l’autonomia, funeste dinamiche, i politici della Provincia di Bolzano si sono tenuti sempre fuori: nessuno dei politici altoatesini, mi sembra, ha mirato a governare dal centro. La formazione politica dominante in loco ha appoggiato in genere i governi nazionali – il che ha reso più produttive le trattative in corso con lo Stato - ma ne è rimasta sostanzialmente estranea, impegnata esclusivamente nella politica locale. Sono scelte che hanno indubbiamente rafforzato l’autonomia, che deve essere anzitutto autonomia politica. Proprio l’assenza di una reale autonomia politica ha impedito alle altre regioni – e in parte anche all’altra Provincia autonoma – di operare le scelte istituzionali più utili a radicare l’autonomia legislativa e amministrativa.
Insomma, la lezione che se ne ricava è che una classe politica interessata esclusivamente all’amministrazione della propria comunità è riuscita, proprio per questo motivo, ad ottenere per essa condizioni di autonomia del tutto particolari. Le peculiarità linguistiche sono state la giustificazione di un trattamento differenziato: hanno reso più facile istituirlo come eccezione irripetibile, impedendo pericolose richieste di estensione analogica ad altri territori nazionali; la dimensione ridotta della realtà sudtirolese ha garantito per altro che il fenomeno avesse un effetto ben circoscritto; gli interessi “egoistici” della Provincia hanno assicurato che le sue conquiste non l’avrebbero affatto indotta a mettersi in testa al movimento di rivendicazione delle altre regioni, ma che anzi da esso si sarebbe mantenuta di proposito estranea. Tutto ciò ha finito quindi con accentuare la lontananza del punto asimmetrico dal resto del sistema, e il suo carattere di eccezione altrove non riproducibile.
Il coronamento di questa condizione anomala è stato, sul piano squisitamente giuridico – istituzionale, il decreto 266/1992. Esso ha sfruttato un appiglio nascosto nello Statuto per innalzare sulla parete dei rapporti tra l’ordinamento giuridico nazionale e quello provinciale un sistema di regole di enorme importanza e assolutamente derogatorio dalle regole generali. Un sistema di regole che non ha nulla di simile nelle altre regioni.
Come si è accennato, la regola generale, chiaramente enunciata dalla Corte costituzionale però per le sole leggi “cornice” dello Stato, è che le norme statali di dettaglio sono direttamente applicabili nell’ordinamento regionale, potendo a sua volta essere sostituite dalla futura ed eventuale legge regionale. Spesso questa regola è stata applicata alle regioni speciali per quel che attiene le “grandi riforme economico – sociali”: non però come effetto generale di tutte le norme di dettaglio in esse contenute, ma solo per quelle che siano strettamente connesse con quelle di principio, con le "norme fondamentali"[8]. Sin qua la Corte: ma il Governo, da parte sua, pretende di dotare di questo effetto anche gli atti di indirizzo e coordinamento e persino i regolamenti governativi[9], il che è ovviamente inammissibile.
Le conseguenze negative di questo regime sono di grande rilievo. Gli uffici regionali sono in perenne dubbio su quale sia la norma da applicare, se quella “vecchia” regionale, o quella nuova di derivazione statale: sono spesso indotti a sovvertire l'ordine gerarchico delle fonti, preferendo applicare la fonte regolamentare piuttosto che la legge regionale difforme; oppure a rinnegare le ragioni dell'autonomia considerando sempre prioritaria la fonte statale. Sottili questioni di rango gerarchico delle fonti del diritto o attinenti al sistema dei rapporti tra norme si scaricano dai testi universitari (che quasi mai le risolvono) alle amministrazioni, e poi si ripercuotono sui giudici ordinari e amministrativi. Così capita che amministrazioni e giudici vengano meno al dovere di applicare le leggi, sia pure le leggi regionali: è capitato persino alla Cassazione, che è stata ripresa dalla Corte costituzionale per aver deciso di disapplicare una legge regionale[10], cosa che per altro le succede di fare con una certa frequenza, sebbene in forme meno plateali. A rimetterci è il rispetto del principio di legalità, che non è un valore astratto, ma significa prevedibilità del diritto e certezza per i cittadini.
Il decreto legislativo 266/1992 ha messo fine a questa situazione intollerabile, che solo il degrado della coscienza istituzionale, tanto dei vertici politici nazionali che di quelli locali, ha potuto consentire e tuttora può sopportare. Il decreto fissa una regola sul rapporto tra norme statali e norme regionali, e la fissa restaurando una logica lontana dal regionalismo "cooperativo" (ma sarebbe meglio dire "confusionario") di cui ho descritto l'affermazione in Italia. La regola è che le norme delle leggi statali che vincolano la Regione Trentino-Alto Adige e le Province autonome non entrano direttamente nel loro ordinamento, scalzando le norme locali vigenti, ma devono essere recepite dal legislatore locale entro sei mesi: scaduto il termine, le leggi locali incompatibili possono essere impugnate direttamente dal Governo alla Corte costituzionale[11].
È proprio questa possibilità a costituire la chiave di volta del sistema. Grazie ad essa il Governo possiede lo strumento per assicurare il rispetto dei princìpi introdotti dalle leggi nazionali; e questo strumento è un unicum nel nostro ordinamento, dato che il Governo di regola può impugnare solo preventivamente le leggi regionali in via diretta, nulla potendo fare contro le leggi già in vigore. È una norma dello Statuto, l'art. 97.2, abilmente interpretata (forse al di là della sua lettera) e strumentata dal decreto 266 (forse uscendo anche dalle proprie competenze), a fornire questo strumento eccezionale. Per le altre regioni questo appiglio non c'è.
Il decreto motiva l'introduzione di questo regime eccezionale appellandosi, come sempre, all'esigenza di tutela delle minoranze linguistiche, come se fosse solo questo il motivo che rende necessaria la "traduzione" delle norme nazionali da parte del qualificato interprete locale: ma questa è, appunto, una giustificazione, serve essenzialmente a far capire che di un'eccezione si tratta. Ma difficilmente questo regime potrebbe essere esteso anche alle altre regioni.
Le difficoltà non sono soltanto dovute alla mancanza di una base legale costituzionale. È vero infatti che per introdurre un nuovo modo di impugnare le leggi sarebbe necessaria una legge costituzionale, come richiede l'art. 137.1 Cost.; ma è anche vero che di leggi costituzionali se ne fanno (e se ne progettano) tante, per cui nulla impedirebbe di introdurre anche questa innovazione. Ma forse la strada potrebbe essere trovata già oggi, a "costituzione vigente" come si dice: che cosa impedirebbe allo Stato di bloccare con il conflitto di attribuzione gli atti amministrativi di attuazione delle leggi regionali "non adeguate", e in quella sede eccepirne l'incostituzionalità? Volendo si potrebbe fare, lo strumento ci sarebbe: non sarebbe un'impugnazione diretta della legge regionale divenuta illegittima, ma il risultato potrebbe essere equivalente; verrebbero colpite tutte le leggi incompatibili al momento della loro applicazione (di quelle che non si applicano merita occuparsene?).
Ma c'è una grossa difficoltà pratica: il problema è che così si scaricherebbe sugli uffici ministeriali la responsabilità di "monitorare" costantemente la legislazione regionale, valutarne la compatibilità con quella statale, bloccarne l'attuazione. È una responsabilità che gli uffici non sono attrezzati ad affrontare e non si vogliono perciò prendere: già monitorare sistematicamente la legislazione vigente nel Trentino-Alto Adige, per rintracciare e impugnare le norme non adeguate alle riforme statali, non è un lavoro da poco. Come affrontare una simile responsabilità, se estesa a tutto il territorio nazionale? Ma l'oggetto di questa responsabilità sarebbe la tutela della coerenza dell'ordinamento che è un primario "interesse nazionale" in cura allo Stato - quante volte la Corte lo ha detto? - e un diretto interesse dei cittadini. Siccome lo Stato non vuole però prendersene cura, se non al prezzo di ignorare sistematicamente le ragioni dell'autonomia (legiferando quindi come si è sopra descritto), ne discende che l'intero peso della riduzione del coacervo normativo a coerenza ricade sui soggetti dell'applicazione del diritto e sui cittadini, che si trovano infatti a doversi districare in un ordinamento confuso e incoerente.
È bene infatti non dimenticare questo profilo. Quando in Italia si parla di "federalismo", decentramento, sussidiarietà, si ha purtroppo in mente solo la dimensione del potere, delle funzioni. È una visione da "palazzo", come tale assai limitativa: e pare, in questa visione, che il cittadino debba star meglio solo perché il "palazzo" gli è più vicino, ossia il potere decentrato. Poca attenzione si pone invece al modo in cui il potere si rivolge al cittadino e ne regola la vita: il profilo delle fonti del diritto appare avere rilievo solo tecnico, non politico, nel senso di generale. È un errore. L'incertezza legislativa, che in Italia raggiunge livelli scandalosi, costituisce uno dei fattori che generano confusione amministrativa, lunghezza dei processi, incoerenza dei giudizi, diseguaglianza nell'erogazione delle prestazioni ecc. In Italia si fanno troppe leggi - e questo è già un male - ma soprattutto mancano meccanismi che regolino con chiarezza il concorso degli atti normativi. Per questo motivo il decreto 266, che ho presentato come il coronamento di un assetto di "potere" favorevole all'autonomia, va letto anche come un fattore di civiltà giuridica, che bene si farebbe ad estendere alle altre regioni, non solo quelle speciali. Questo generebbe difficoltà negli apparati burocratici centrali? La risposta deve essere organizzativa, non la rinuncia ad affrontare il problema e la delega di esso alla collettività.
Se, rivolgendo finalmente le spalle al passato, si dovesse guardare al futuro, quali prospettive si potrebbero percepire per l'autonomia della Provincia di Bolzano e le sue relazioni con lo Stato? Potremmo ragionare in relazione a tre contesti diversi.
Il primo è il contesto nazionale. Non credo di peccare di ottimismo affermando che, quali siano le prossime evoluzioni politiche in Italia, l'autonomia dell'Alto Adige non corre pericoli di revanscismo. Le garanzie costituzionali sono forti, la giurisprudenza della Corte costituzionale ben assestata: e poi, per lo Stato, l'asimmetria della Provincia è ben tollerabile, essendo un'eccezione di dimensioni territoriali limitate. Gli unici rischi potrebbero venire semmai dal fronte regionale. Da sempre le proposte di riforma avanzate dalle regioni hanno un punto oscuro: le autonomie speciali. Le ragioni della specialità statutaria di alcune regioni sono in forte crisi: le stesse dinamiche di integrazione politica che ho descritto in precedenza hanno portato la Sicilia, la Sardegna e il Friuli-Venezia Giulia sull'orlo di una forte crisi di identità, di giustificazione della propria specialità. Il problema non è mai stato sollevato con clamore per paura di rompere il fronte sindacale delle regioni. Ma sino a quando questo fronte reggerà?
Il protagonismo dei nuovi "governatori", come la stampa chiama i Presidenti regionali eletti direttamente, sta facendo scricchiolare il vecchio fronte unitario e le sedi un cui esso è rappresentato (le Conferenze). D'altra parte, l'asimmetria piace a molte regioni del Nord, così come l'ipotesi di estensione del novero delle regioni a statuto speciale. Apparentemente un'evoluzione in questa direzione del sistema potrebbe rafforzare chi oggi è già in posizione asimmetrica, ma gli eventi potrebbero assumere un segno esattamente opposto. Se si viene a riempire lo spazio che separa il punto asimmetrico (la Provincia di Bolzano) dal resto del sistema, verrebbe a mancare una delle condizioni che hanno consentito la formazione di questa asimmetria. Non più un'eccezione, ma nuovamente uno dei tasselli del sistema: di un sistema sì differenziato, ma in cui si può riproporre il problema dei limiti della differenziazione e della giustificabilità dei privilegi. Basterà la questione linguistica da sola a giustificare l'eccezione?
Il secondo contesto è quello tipico in cui si è fatta valere sinora la questione linguistica, è il fronte interno, quello della comunità provinciale. Proprio la forte matrice comunitaria ha fatto mantenere in vita le ragioni e i sentimenti della specialità altoatesina. Benché l'autonomia speciale sia sorta per garantire le condizioni di convivenza di due (o tre) comunità linguistiche diverse, essa è stata vissuta e interpretata come condizione per assicurare la protezione delle minoranze linguistiche, cioè delle comunità linguistiche autoctone che si trovano ad essere minoritarie se contate a livello nazionale. Da qui una forte, e a mio avviso condivisibile, identificazione delle ragioni dell'autonomia con le ragioni delle comunità autoctone tedesca e ladina.
Parlo di comunità per il motivo che non si tratta di una questione solo linguistica (come è invece in larga misura, per esempio, per gli sloveni nella zona di Trieste), ma di quel complesso di valori etnici, culturali, religiosi, economici e, naturalmente, anche linguistici che identificano, appunto, una comunità. Una comunità che si difende allentando i rapporti con l'esterno esattamente come li ha allentati la Provincia di Bolzano: e che regge sin quando i suoi valori restano condivisi e distinti. Gran parte della scommessa sui futuri dell'autonomia sudtirolese si gioca quindi sulla permanenza di questi valori, e dipende perciò da un certo tasso di chiusura della comunità e di integrità dei suoi valori. Come preservare i valori della montagna, la sua economia, la sua cultura, in un mondo così fortemente "aperto", è un problema che finisce con essere decisivo non soltanto per la politica della Provincia, ma forse persino per la sua sopravvivenza nelle forme attuali.
Paradossalmente, perciò, i pericoli per l'autonomia provinciale possono venire più dall'interno che dall'esterno. Sono pericoli connessi allo smarrimento della "specialità" come condizione etnico-sociale, prima ancora che politico-amministrativa, oppure allo sfaldamento dello spirito di identificazione unitaria della comunità. Da quest'ultimo punto di vista può essere strategica la politica provinciale nei confronti degli enti locali, perché non si perda il collante che li ha sinora tenuti insieme, aprendo la porta a conflittualità disgreganti. Insomma, in futuro basteranno questioni come quella della toponomastica a rinfocolare una logica amico-nemico che preservi l'identificazione della collettività negli enti che la governano e la coesione tra questi?
Il terzo contesto è quello europeo. Un contesto in cui la Provincia si sta muovendo molto, con una "progettualità" che, come si è visto, non manifesta invece sul versante nazionale. La creazione della Euregio è una mossa che ha un significato strategico: collocare la provincia al centro di una realtà regionale transnazionale, chiamata a gestire problemi di grande rilievo comune ma anche europeo. Una realtà che tende da tempo a presentarsi con un volto unitario ai propri interlocutori europei: la prossima apertura di una sede comune a Bruxelles, un tempo contestata dal Governo italiano, non sarà perciò che la ufficializzazione di qualcosa che c'è già da tempo e che è destinata a rafforzarsi. L'Euregio si presenta infatti come il tentativo di creare un soggetto di dimensione adeguata a rappresentare interessi comuni agli enti consociati presso gli organi comunitari: in un momento in cui la Comunità si sta aprendo alle realtà regionali, come dimostra, tra l'altro, la stessa giurisprudenza della Corte di giustizia[12].
Tuttavia il contesto europeo, verso il quale la Provincia manifesta tanto intelligente attenzione, può rivelarsi non favorevole al mantenimento della "asimmetria" di essa. Qualche segnale già ci arriva, ancora, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia: mi riferisco alle sentenze sull'uso processuale della lingua tedesca[13] e sul "patentino" linguistico[14]. Sono sentenze criticabili per diversi aspetti, probabilmente, ma che suonano un campanello d'allarme su un punto cruciale: intaccano infatti proprio le strutture giuridiche che organizzano il sistema linguistico. E siccome il sistema linguistico è stato sempre preso a principale, se non unica, giustificazione dell'asimmetria istituzionale della Provincia nel contesto nazionale, il segnale va preso con attenzione. Si ha infatti l'impressione che la Provincia possa difendere la sua asimmetria sul piano nazionale molto meglio di quanto faccia su quello comunitario; anche perché le particolarità linguistiche dell'Alto Adige svaniscono se viste nel contesto europeo, dove il tedesco non è certo lingua minoritaria! Sotto molteplici profili la Comunità europea è fattore di normalizzazione: uno di essi, tra l'altro, è quello che consente alla Provincia di ricucire gli antichi rapporti e i permanenti interessi comuni con il Tirolo. Ma la normalizzazione, si sa, non vede di buon occhio eccezioni e asimmetrie.
[1] È significativo che la Corte costituzionale abbia stabilito che i decreti di trasferimento delle funzioni alle regioni ordinarie dovevano essere applicati anche alle regioni speciali, perché ad esse non dovevano essere riconosciute competenze più limitate di quelle assegnate alle ordinarie: cfr. per esempio sentt. 223/1984, 216/1985, 511/1988, 1029/1988, 1029/1988.
[2] Sent. 39/1971.
[3] Sent. 214/1985: “la legge dello Stato (non) deve essere necessariamente limitata a disposizioni di principio, essendo invece consentito l'inserimento anche di norme puntuali di dettaglio, le quali sono efficaci soltanto per il tempo in cui la regione non abbia provveduto ad adeguare la normativa di sua competenza ai nuovi princìpi dettati dal Parlamento”. Su questa evoluzione delle leggi cornice e della conseguente ricostruzione teorica dei rapporti tra legge regionale e legge statale cfr. per tutti R. TOSI, “principi fondamentali” e leggi statali nelle materie di competenza regionale, Padova 1987.
[4] In questo senso cfr. R. BIN, Legge regionale, in Digesto disc. pubbl. IX, 1994
[5] In questo senso si vedano già le sentt. 19/1956, 6/1957, 148/1971, 35/1972…
[6] Si vedano, per esempio, le contrastanti valutazioni di F.PIZZETTI, Il sistema delle Conferenze e la forma di governo italiana, e di P. CARETTI, Il sistema delle Conferenze e i suoi riflessi sulla forma di governo nazionale e regionale, entrambi in Le Regioni 2000, rispettivamente 473 ss. e 547 ss.
[7] È frequente che le regioni impugnino leggi e atti amministrativi dello Stato per ottenere dalla Corte costituzionale non tanto la dichiarazione di illegittimità di essi per invasione delle attribuzioni regionali, ma solo un’interpretazione restrittiva che porti a dichiararne la non applicabilità alle regioni (su questa tecnica cfr. R.BIN, L'importanza di perdere la causa (nota a C.Cost. 462/94), in Le Regioni 1995, 1012 ss.). Nel caso delle Province autonome di Trento e Bolzano questa tecnica ha avuto un impiego particolarmente esteso per “bloccare” l’applicazione ad esse di leggi o atti rivolti alle sole regioni ordinarie, senza che questo limite fosse in essi esplicitato.
[8] Si veda per esempio la sent. 296/1993.
[9] La "Legge di semplificazione 1999" (legge 340/2000) prevede infatti, in via generale, che "Nelle materie di cui all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, i regolamenti di delegificazione trovano applicazione solo fino a quando la regione non provveda a disciplinare autonomamente la materia medesima". Non è un caso che ciò abbia scatenato l'ennesimo contenzioso costituzionale da parte delle regioni ordinarie, perché questa ultrattività dei regolamenti statali lede il principio fissato da tempo dalla giurisprudenza costituzionale (cfr. per esempio sentt. 70/1995, 333/1995, 482/1995, 408/1998).
[10] Sent. 285/1990.
[11] Anche la norma che il decreto 266 dedica alla funzione di indirizzo e coordinamento ha portata rivoluzionaria: sia perché esclude l'applicazione diretta di questi atti, negando che da esca derivi un vincolo per l'amministrazione locale, che resta vincolata dalla "sua" legislazione (art. 3.7); sia perché prevede una procedura di "leale cooperazione" nell'emanazione di questi atti, dando a Regione e Province la possibilità di impugnarli direttamente provocandone la sospensione. Inoltre il decreto 266 (art. 4.3) impedisce anche che lo Stato, come in passato ha spesso fatto, intervenga nelle materie di competenza locale attraverso autonomi programmi di concessione di finanziamenti e contributi.
[12] Mi riferisco, per esempio, alla giurisprudenza Konle e Heim a proposito della responsabilità degli enti locali per violazione del diritto comunitario, e alle sentenze Freistaat Sachsen (e successive) sulla legittimazione processuale degli enti territoriali, quando l'atto impugnato li riguardi individualmente e direttamente.
[13] Sentenza Bickel (C-274/96).
[14] Sentenza Angonese (C-281/98).