PROF. ROBERTO BIN – Università di Ferrara

 

I nuovi Statuti delle Regioni

 

1. Non cederò alla tentazione di procedere ad un esame critico della bozza di Statuto licenziata dalla Commissione consiliare della Regione Abruzzo. Non che la bozza dello statuto non si presti a critiche, ma io non ne conosco a sufficienza la storia: è una delle prime bozze approvate dagli organismi politici delle Regioni; ovviamente ha dei limiti, c’è anche più di un errore tecnico, ma questo probabilmente dipende dal fatto che deve ancora essere sottoposto ad una seria revisione tecnica.

Direi che ha due difetti di fondo molto comuni e un pregio che invece non è tanto comune.

Dei difetti, il primo riguarda le norme programmatiche. Vi confesserò che io generalmente le norme programmatiche delle bozze di Statuto evito di leggerle e, se dipendesse da me, eviterei anche di scriverle. Eviterei di scriverle perché rappresentano una idea antica e velleitaria della funzione delle “leggi fondamentali”. Forse la costituzione italiana, che poi di norme programmatiche non ne ha mica tante, veniva letto ai figli da qualche buon padre di famiglia alla luce del camino: ma, quantomeno, allora non c’era la televisione, e non mi immagino nessuno che legga ai figli, la sera, lo Statuto della regione, anche per non creare irreversibili traumi infantili. Allora queste norme programmatiche per che cosa vengono scritte?

Ho la vaga sensazione che vengano scritte per superare un senso di frustrazione: ogni principio, ogni programma è la confessione che non si sa come fare quello che si promette. Avrei elaborato un teorema, teorema che vi presenterò per segnalarvi la contraddizione intrinseca alle norme programmatiche. Il nostro costituente non ha scritto enunciazioni del principio di legalità, del principio di democrazia, del principio di rappresentanza, del principio di divisione dei poteri, del principio di libertà individuale ecc.: perché? Perché aveva la capacità tecnica di scrivere le regole: il principio di legalità è sciolto in una serie di regole, il principio di rappresentanza o quello di separazione dei poteri sono articolati in una serie di istituzioni e meccanismi precisi.

Allora, se lo Statuto riuscisse a dire, per esempio, come funziona la sussidiarietà, quali sono le sue istituzioni e le sue regola, non ci sarebbe affatto bisogno di annunciare solennemente che la Regione si basa sul principio di sussidiarietà: non avrebbe senso. Ciò significa che se il legislatore enuncia il principio, confessa implicitamente di non conoscere il modo di fare le regole. Questa è la prima parte del teorema, fin qui non sconvolgente.

Seconda parte del teorema: siccome le regole nello Statuto ci sono, per esempio (continuando nel riferimento alla sussidiarietà) molte riguardano i rapporti tra Regione ed enti locali e l’amministrazione regionale, vuol dire che quelle regole non rispondono al principio e sono – o almeno è assai probabile che siano - in potenziale contraddizione con quel principio. Qui il mio teorema incomincia a rivelare implicazioni preoccupanti, perché insinua che il legislatore statutario, da un lato, è generoso nell’enunciazione di principi ma, dall’altro, fa delle regole di cui non è affatto garantita la compatibilità e la coerenza con quei principi. E così crea  contraddizioni.

Questo è un errore di tutti gli Statuti, vittime della retorica e della difficoltà di pensare al funzionamento delle istituzioni e alle loro implicazioni tecniche. Più facile fraseggiare principi, principi che appaiono vuoti, ma alle volte vanno in mano a qualche giudice e magari lo indurranno a “pizzicare” qualcuna delle contraddizioni tra il promesso e il fatto.

 

2. Il secondo difetto, ma questo è del tutto incolpevole, dipende dal fatto che questa bozza è stata concepita prima della riforma del Titolo V, e non può nascondere la sua relativa vetustà. Su questo tornerò subito dopo.

Prima però vorrei parlare dell’aspetto positivo. L’aspetto positivo è anch’esso dovuto, forse, al fatto storico che la bozza di Statuto risale a prima che si profilasse l’onda di restaurazione che attualmente si estende in Italia. Tutte le Commissioni impegnate nelle varie Regioni sui vari Statuti stanno subendo un’onda di ritorno che si basa sulla nostalgia per quello che si chiamava la 1^ Repubblica. Torna in auge il sistema elettorale di tipo proporzionale (come se oggi avessimo il maggioritario e non un ibrido tutto teso a favorire la rappresentanza proporzionale) e porta con se un’onda di nostalgia per una funzione “forte” del Consiglio che si dovrebbe esprimere attraverso la restaurazione dell’elezione indiretta del Presidente, la previsione di un Vice Presidente elettivo (che probabilmente, tra l’altro, è costituzionalmente illegittima), così da istituzionalizzare la “staffetta”, altra esperienza nefasta di cui personalmente non nutro nessuna nostalgia, e poi l’idea che comunque il Consiglio abbia “forti” poteri di programmazione, di indirizzo, di nomina e anche, perché no, di sfiduciare la Giunta. Questa è la restaurazione, questo è un po’ il progetto che sta minando la stagione statutaria e sta accentrando tutta l’attenzione su quello che, secondo me, è l’ultimo dei problemi seri che deve affrontare uno Statuto. Non perché non sia un problema serio, ma perché non va affrontato in questi termini.

C’è una ragione per cui la nostalgia riporta in auge questi modelli, ed è una ragione che ha a fondamento una preoccupazione condivisibile: il rischio che le Assemblee regionali, seguendo la sorte delle Assemblee provinciali e comunali, perdano il loro ruolo: esse perdono la funzione regolamentare, perdono la possibilità di eleggere il Presidente, perdono la possibilità di votare la sfiducia, perdono i poteri sulle nomine, perdono il potere di approvare i programmi e gli atti di indirizzo, cosa resta perciò ai Consigli?… Bene, ragionare così rivela un difetto, scusate la mia brutalità, un difetto culturale. Tutte le nostre assemblee, a partire da quelle Parlamentari sono in ritardo culturale nella riflessione sul loro ruolo. La dimostrazione è che nessun Regolamento interno d’Assemblea, sia essa comunale, provinciale, regionale e, in parte, anche parlamentare, si presenta come qualcosa di diverso dalla lineare prosecuzione dei regolamenti del Parlamento Regio: come se le assemblee, dal XIX secolo ad oggi, non avessero cambiate le funzioni e il modo di funzionare. Ciò è insostenibile, non è una prospettiva realistica avere ancora una idea che, per esempio, la “funzione ispettiva” di un’assemblea si basi sulla mozione, risoluzione, l’interpellanza e l’interrogazione; significa non aver capito che cos’è la comunicazione politica. Abbiano, senza accorgersene, sostituito il ruolo di “arena politica” delle nostre assemblee con “Porta a Porta”: lì si fa la politica, li si annuncia la futura crisi di Governo oppure la futura candidatura dei leader.

Le assemblee che cosa fanno? Con chi parlano? Di cosa si occupano? Voi capite che cos’è il riflesso di un ritardo culturale: e quell’abbaglio che induce a credere che la propria missione, come membro di un’assemblea rappresentativa, sia quella di insidiare e possibilmente sfiduciare il Presidente, di ripristinare l’antico gioco della locomotiva. L’antico gioco della locomotiva è una metafora che uso spesso, perché quando penso alla nostra politica italiana penso ad un treno dove nella locomotiva c’è gente che pensa a buttarsi giù, a prendersi i comandi, a tirare il freno, premere l’acceleratore e portarsi via il carbone (con dei profili penali che è meglio non approfondire): nel frattempo nessuno si occupa della velocità della macchina, dove si va, cosa pensano i passeggeri e così via. Ed oggi stiamo assistendo al restauro delle condizioni ottimali per riprendere il gioco della locomotiva, gioco in cui l’essenza del Consiglio regionale è di provvedere, ad incominciare dal giorno stesso dell’elezione, a minare la posizione del candidato Presidente della regione, a garantirsi la “visibilità” facendo dichiarazioni non allineate, a progettare trabocchetti, tranelli, trappole e così via: finché il gioco si corona nelle dimissioni “spontanee” del Presidente della Giunta, in modo che una nuova squadra possa prendere i comandi della locomotiva e che, nell’arco della legislatura, tutti quanti riescano a turno a manovrare almeno una volta qualcuna delle lucide leve.

Bene, io credo che se questa è l’idea che deve ispirare i nuovi Statuti, è meglio non farli: sarebbe quantomeno inutile.

 

3. Oltretutto l’idea del declino del ruolo del Consiglio è definitivamente superata dalla riforma Titolo V: se in parte era vecchia già prima, oggi lo è ancora di più.

Pensate che il Congresso americano, che non ha nessun potere di sfiduciare il Presidente, o i Parlamento inglese, tedesco o spagnolo, che ce l’avrebbero ma quasi mai lo hanno esercitato nella storia, perciò non contano niente? Invece noi sappiamo benissimo che il Parlamento americano è una macchina da guerra, è una sede di potere reale, così come lo sono tanti altri parlamenti europei. Allora, questa idea, che però è una idea che ottiene tantissimo credito nei Consigli statuenti, è una idea sbagliata, diciamolo francamente. È una idea sbagliata, e diventa ancora più sbagliata, drammaticamente sbagliata dopo la riforma del Titolo V. Perché il nuovo testo costituzionale rovescia sulle assemblee legislative regionali tutta le responsabilità dell’innovazione legislativa. Una volta le regioni stavano alla finestra e si lamentavano: dicevano, come è frustrante fare il legislatore regionale, dobbiamo aspettare sempre che sia lo Stato a fare le riforme perché noi dobbiamo stare nella gabbia dei principi. Ma oggi non è più così: oggi le riforme spettano alle Regioni. In tutte le materie “residuali” di loro competenza esclusiva è chiaro che sia così, ma anche nelle materie di competenza concorrente, se oggi le Regioni vogliono occupare lo spazio normativo e fare leggi innovative, non hanno che da legiferare. Ma voi conoscete qualche Regione che stia facendo delle leggi serie sulle politiche del lavoro, oppure sulla questione dell’istruzione? Io, che di Regioni ne bazzico diverse, vedo qualche Giunta e qualche Assessore che capisce la partita in gioco, ma i Consigli?

Temo che il nuovo Titolo V, prima di essere disapplicato – in modo clamoroso - dal Governo e dal legislatore statale – poi ritornerò sul punto - è disapplicato dalle Regioni. Perché disapplicato dalle regioni? Perché i Consigli Regionali non sembrano rendersi conto del peso formidabile che avranno nella legislazione, nell’innovazione non solo per ciò che riguarda la disciplina delle materie, ma anche e soprattutto nei rapporti con gli Enti Locali e con la società civile.

Allora gli Statuti non possono esaurirsi nel disegno di meccanismi capaci di recuperare piccole fette di un piccolo potere, sottraendolo all’esecutivo: non sono qualche nomina, l’approvazione di vaghi atti di indirizzo che non verranno mai rispettati (tanto il Consiglio ha ben pochi strumenti per accorgersene), o l’emanazione di quella specie di atti amministrativi larvati che erano le deliberazioni del Consiglio Regionale, con cui magari si riusciva a sviare un po’ di soldi per il proprio campanile. Non è questo il ruolo significativo dei Consigli, in fin dei conti non è questo neppure ciò che segna il “potere” reale dei Consigli: non è questo perciò quello di cui si devono occupare gli Statuti.

Dietro il progetto della riforma del 1999, c’è una “morale costituzionale”, un disegno costituzionale che ha un senso e un “valore”. L’elezione diretta del Presidente della Giunta, secondo me, è una scelta virtuosa, perché pone termine a ciò che ha impedito il funzionamento corretto del circuito della responsabilità politica, l’apparato vascolare di qualsiasi sistema democratico. Gli elettori vanno a votare e scelgono chi guida l’esecutivo; quell’esecutivo deve essere messo in grado di durare quel tanto di tempo per realizzare le sue promesse, deve avere gli strumenti per fare le cose, non può dipendere dagli equilibri dei Consigli per ogni decisione, perché alla fine non sarebbe più lui il responsabile; dopo 5 anni deve ritornare al voto degli elettori, e non gli devono essere consentite vie di fuga. Basta dunque con i Presidenti di Regione che a metà mandato decidono di andare a fare il Sottosegretario o il deputato europeo e si dimettono. Anche le dimissioni “non politiche” (ma ci sono mai state?) devono cessare; se poi ci sono eventi della natura che impediscono la prosecuzione del mandato, pazienza: vuol dire che si andrà a votare in gramaglie e si cercherà un candidato “di buona e robusta costituzione”; ma resta fermo che deve essere rimesso in moto il circuito democratico, deve essere ridata la parola ai cittadini, devono loro legittimare chi governerà.

Si dirà: ma questo ragionamento dimentica che non solo il Presidente della Regione, ma anche i consiglieri regionali sono scelti direttamente dagli elettori. Non c’è dubbio, ma “visibilità”, responsabilità e funzioni sono diverse (se non altro perché il Presidente è uno ed i consiglieri non si sa quanti). Se il Presidente della Regione, eletto direttamente, risponde direttamente al corpo elettorale, non risponde più al Consiglio regionale, se non come extrema ratio, con inevitabile scioglimento del Consiglio e restituzione della responsabilità di giudizio agli elettori (giudizio sul Presidente e sui consiglieri che lo hanno fatto cadere).

Insomma, prima di preoccuparsi del ruolo del Consiglio, mi sembrerebbe necessario che gli “statuenti” si preoccupassero del ruolo della Regione, della sua credibilità, della sua autorevolezza e della sua legittimazione. Ma io non ho visto ancora una bozza di Statuto che dica qualcosa di minimamente innovativo su qual è il ruolo della Regione.

 

3. Quale è il ruolo della Regione? Giovannelli prima diceva una cosa che mi persuade, anche se io forse appaio di solito come un filo-regionalista, solo perché ogni volta che sento parlare di sussidiarietà penso alle periferie devastate delle nostre città, colpa storica delle nostre amministrazioni comunali. Tuttavia sono convinto che oggi la Regione debba cambiare volto, è che il suo ruolo non sia più amministrare: basta con le Regioni con migliaia di dipendenti e centinaia (in alcuni casi migliaia!) di dirigenti. Basta con il centralismo della burocrazia regionale: il ruolo di un Presidente della Giunta non è amministrare, è esprimere una guida politica; lo dico sempre, il Presidente della Regione deve avere sempre pronta la sua valigetta e fare più politica estera che amministrazione attiva.

Ma ciò si riflette anche sul ruolo del Consiglio, che non può essere più quello di fare delibere con cui si fissano i criteri di riparto dei fondi per i vasi dei fiori sui balconi. Non è questo il suo compito: il ruolo del Consiglio è dirigere e valutare le politiche pubbliche.

Qual’è il Consiglio regionale che si è attrezzato in passato o si sta attrezzando con lo Statuto per avere strutture sufficienti a seguire le politiche pubbliche? Noi siamo un paese folle da questo punto di vista, e non a caso la nostra follia si manifesta nella produzione legislativa. Siamo ancora, credo, il paese che produce più leggi nel mondo, e quello che le rispetta di meno, perché le due cose vanno inesorabilmente insieme, è ovvio.

Perché produciamo tante leggi? Perché non sappiamo cosa succede a seguito delle leggi approvate. Né il Parlamento né i Consigli regionali sanno che risultati esse producano. Ci scappa il morto e, sull’onda dell’emozione, si fa una legge: dopo di che si sa cosa è successo dell’applicazione di quella legge? Non lo si sa finché non ci scappa un altro morto, ed allora, sull’onda dell’emozione e dello sdegno, i sensibili rappresentanti del popolo fanno a gara a proporre un’altra legge, e così via. Semplicemente si legifera al buio. Ogni Deputato si sente in obbligo di presentare il maggior numero possibile di progetti di legge, che per fortuna non vanno avanti; ma qualcuno, purtroppo, alla fine la spunta e arriva all’obiettivo attraverso il procedimento legislativo. Ma dopo che cosa succede? Quali sono gli strumenti che qualsiasi delle nostre assemblee possiede per seguire la politica pubblica avviata con una legge e conoscerne i risultati? La politica pubblica è una parabola di cui la decisione legislativa è solo un segmento, per di più breve: il resto scompare al controllo del Consiglio. Che forse sia il caso che gli Statuti affrontino questo problema? I Consigli Regionali hanno strutture per capire l’andamento finanziario di un certo programma, per capire quali sono i risultati prodotti dall’attuazione di un programma e i costi relativi? No. Sono Assemblee elettive prive di strutture conoscitive, incapaci di controllare le conseguenze delle leggi che votano e i risultati delle politiche che approvano, che subiscono i conti della ragioneria senza potervi vedere dentro, che pensano di svolgere un ruolo di controllo politico attraverso interrogazioni, interpellanze, mozioni ecc., che nulla hanno fatto per adeguare la propria “comunicazione politica” con i rappresentati: questi sono i nodi su cui gli Statuti dovrebbero incidere, perché solo così le Assemblee possono ricuperare un ruolo di rilievo e di “guida”. Altrimenti, senza carta geografica e manuale d’uso della macchina, nella cabina della locomotiva a che gioco si può giocare? 

Il potere del Congresso americano, che non può sfiduciare l’esecutivo, sono le strutture: la più grande biblioteca del mondo è quella del Congresso americano, come mai? Ciò ha qualche relazione con il ruolo e il prestigio che esso gode? Certo, perché quello è uno strumento di informazione. Quando c’erano gli attentati all’antrace, il giorno che hanno chiuso il Congresso si è scoperto che vi lavoravano 20.000 dipendenti: questo non intende essere un suggerimento o un’istigazione rivolta ai Consigli Regionali, ma dà l’idea che 20.000 dipendenti, in larga parte – suppongo - tecnici e non portaborse come sono una buona fetta di coloro che vengono retribuiti dalle nostre assemblee, rappresentano una risorsa che consente al Congresso americano di sapere cosa succede nel mondo e quindi controllare efficacemente l’esecutivo, perché il compito di controllare l’esecutivo non è quello di cercare ogni giorno di fargli le scarpe, ma controllare l’andamento delle politiche pubbliche e dell’azione del governo. Sono strutture fondamentali per un’assemblea, perché senza di esse l’assemblea ben poco può fare.

Preoccuparsi del ruolo della Regione significa affrontare l’altro grande tema, quello dei rapporti tra livelli di governo e livelli di amministrazione: tema che passa spesso con un titolo che è più uno slogan che altro, cioè la “Regione a rete”. La “Regione a rete” è un modo, come dire, moderno per affrontare il rapporto tra Regione e enti locali o della “regione federale”, imperniata sulla sussidiarietà. Altro che scrivere in Statuto i principi della programmazione e della sussidiarietà: lo Statuto dovrebbe disegnare le istituzioni, le regole. Come? Proviamo ad immaginare un paio di cose?

 

4. Iniziamo, per esempio, dalla programmazione. Invece di proclamare solennemente che l’azione regionale si impernia sulla programmazione, incominciamo ad immaginare come funziona un sistema regionale che si basa realmente sulla programmazione e sui progetti. Gli “statuenti” dovrebbero cominciare anzitutto con interrogarsi sul perché storicamente gli esecutivi regionali hanno cercato di fuggire dalle procedure di approvazione dei programmi in Consiglio regionale. In verità il perché lo si conosce  benissimo: si sfuggono le procedure in Consiglio perché sono una perdita di tempo. Per superare questo che non è un pregiudizio, gli Statuti non possono limitarsi a ribadire che tutti i programmi, tutti i progetti, tutti gli indirizzi e quant’altro devono essere approvati dal Consiglio regionale, perché questo non significa gran che e si ripeteranno i tentativi di fuga dal Consiglio: è meglio che lo Statuto preveda precisi vantaggi per il Presidente della Regione che porti in Consiglio le scelte strategiche, quale sia il nome dell’atto che le contiene: per esempio legando la programmazione a una adeguata strumentazione finanziaria di contabilità.

Se io Presidente della Giunta so che se affronto il Consiglio con il mio programma o il mio progetto, e lo affronto in una discussione delle linee generali, anche spietata, e mi impegno in quella sede a fornire una serie di rendicontazioni degli obiettivi raggiunti e di quelli falliti, dei risultati e dei costi, e so che il Consiglio (che si struttura per essere in grado di capire come funziona quel progetto e come esso ha operato) mi sottoporrà a un periodico duro e scomodo esame, tuttavia non cercherò di sottrarmi a tutto ciò se il “passaggio” in Consiglio mi comporta che, per esempio, una volta approvato il progetto non ci saranno ulteriori autorizzazioni o delibere da chiedere al Consiglio regionale, che potrò gestire l’intero stanziamento finanziario previsto, che potrò deliberare i piani attuativi senza interferenze, che avrò riconosciuti tutti i poteri regolamentari necessari ecc. Il Consiglio guadagna la partecipazione alle decisioni fondamentali e, se si organizza strutture adeguate, il controllo strategico sull’attuazione di esse, ma perde, finalmente perde, il potere di dirottare 10 milioni per i vasi di fiori di cui si diceva prima. Sono due modi di ragionare attorno al potere delle Assemblee elettive tra cui vi lascio la scelta, una scelta retorica evidentemente, di quale sia la strada che dà più potere al Consiglio.

 

5. Proviamo a immaginare qualche meccanismo che operi sul lato della sussidiarietà. La bozza di Statuto mi ha sorpreso perché dedica numerosi articoli, anche importanti, alla disciplina di enti ed aziende regionali. Io mi aspetterei che lo Statuto di una Regione moderna – ripeto, io sono un filo-regionalista - vietasse enti e aziende, ed anzi dicesse chiaramente la Regine non può più istituirli. Perché? Perché l’amministrazione la devono fare gli Enti locali e se proprio gli Enti Locali non sono adeguati e c’è bisogno di un braccio tecnico, quello deve essere un braccio tecnico di tipo federale, esattamente come dovrebbe esserlo quelli che operano a livello statale: le Regioni dovrebbero capire che la stessa politica che vale nei confronti dello Stato, vale anche, sull’altro versante, nei confronti degli enti locali. La BUBA, la Bundesbank, non è una struttura statale tedesca, ma una struttura federale tedesca, e chi sta dentro ai suoi organismi di direzione rappresenta i Laender. Allora se proprio è necessario (ed è probabile che lo sia) che in Regione ci sia l’Azienda forestale, nell’Azienda forestale le nomine non le fa il Consiglio regionale, le farà il Consiglio delle Autonomie o l’organo che rappresenta gli enti locali: affermarlo negli Statuti significherebbe incominciare a creare una regola di sussidiarietà che da sola avrebbe più significato di tutte le possibili enunciazioni di principio.

Molta enfasi si è fatta sul Consiglio delle Autonomie: di esso vorrei ora parlare. Il Consiglio delle Autonomie (di cui forse potrei anche rivendicarle la paternità, che risale ai tempi del progetto federale dell’Emilia Romagna e del Federalismo preso sul serio) attualmente – lo confesso - non mi sembra più la soluzione migliore per dare rappresentanza agli Enti Locali: anzi ho paura, molta paura, che possa diventare un organismo pletorico di difficile gestione, di inceppamento della macchina decisionale, di oggettiva concorrenza con il Consiglio regionale come organo di rappresentanza delle collettività locali. Perciò penso che gli Statuti finiranno con limitarne le funzioni al minimo e a rinviarne il funzionamento ad una legge di disciplina che arriverà quando arriverà.

Però altre soluzioni si possono individuare per dare un senso concreto alla “rete” amministrativa regionale. Per esempio, perché non mettere nello Statuto un principio di vera sussidiarietà che riconosca al cittadino il diritto di rivolgersi al proprio Comune per qualsiasi pratica amministrativa. Ricordiamoci infatti che la sussidiarietà non è un “diritto” dei Comuni, è un diritto dei cittadini: non una cosa che riguarda i rapporti tra i palazzi, ma guarda alle persone, alla gente furibonda perché i palazzi sono lontani e non comunicano tra loro. Introduciamo un diritto del cittadino e lasciamo che i palazzi si arrangino per trovare il modo di soddisfarlo, si mettano in rete telematica, facciamo convenzione con altre amministrazioni più efficienti o provvedano in qualsiasi altro modo: saranno i cittadini a giudicarne comparativamente la prestazione. Che i Comuni incomincino a dimostrare che sanno fare fronte ai diritti dei loro cittadini, perché è perfettamente inutile dire e ripetere che tutto s’ispira al principio di sussidiarietà, è che il Comune è l’Ente più vicino al cittadino, se poi è un ente che non si dimostra capace di governare il piano del traffico o di semplificare la vita dei propri cittadini? La sussidiarietà viaggia con l’adeguatezza e la differenziazione. Io mi domando, per esempio, quanti sono i Comuni, oggi, adeguati ad affrontare seriamente la questione del traffico. Vivo a Bologna e mi sto avvelenando: sono stufo che la questione del traffico bolognese, della chiusura del centro storico, e quindi della mia salute, sia gestita da un Comune che si dimostra incapace (e non solo da quando lo governa il centrodestra). Dal mio punto di vista di cittadino, che il Comune sia l’ente a me più vicino può semplicemente costituire un incubo: preferirei che le sue funzioni fossero esercitate, che so, dal Prefetto, ma che si smetta di avvelenarmi. La sussidiarietà non può diventare la bandiera dietro cui marciano l’Anci e l’Upi per rivendicare più potere per le amministrazioni locali. Non sarebbe opportuno che gli Statuti regionali se ne ricordassero?

Altra ipotesi di “regola” di sussidiarietà da introdursi negli Statuti. Se la Regione stipula patti territoriali o altre forme di programmazione negoziata con gli enti locali o emana piani territorialmente localizzati, perché non deve nominare come Alto commissario il Sindaco del Comune maggiormente interessato, cosicché il Presidente della Regione gli possa delegare il coordinamento delle amministrazioni coinvolte? Lo Statuto potrebbe prevederne la possibilità, consentire che l’Alto Commissario abbia il potere di coordinare l’amministrazione regionale, rispondendo direttamente al Presidente, introdurre princìpi utili alla programmazione finanziaria degli enti locali, per esempio dando un ruolo effettivo al bilancio pluriennale, laddove sia strutturato per progetti…

 

6. Capisco, potrebbero sembrare idee un po’ originali, ma è vietato mettere negli Statuti idee originali? Continuo a leggere bozze di Statuti prive di idee innovative, zeppe invece di cose che vengono dal passato e che non c’è alcun motivo di strascinare nel futuro. Sono Statuti che vorrebbero – penso – contribuire all’affermazione in Italia di un sistema autenticamente federale: ma, siccome la nostra esperienza istituzionale è invece tutta irrimediabilmente segnata da un ferreo centralismo, è chiaro che verso il federalismo non si può procedere nel segno della continuità, senza idee e visioni innovative.

L’assenza di una visione autenticamente “federale” delle istituzioni è il nostro vero dramma. In questo Paese, in cui si parla tanto di federalismo, “teste federali” ce ne sono davvero poche. Il Governo parla di “devolution”, ma la legge finanziaria ignora la riforma del Titolo V e le altre leggi proposte sono un monumento al centralismo. E le Regioni? Capisco benissimo quello che diceva Giovanelli, ci sono delle Regioni che proprio non concepiscono il federalismo perché nulla sono disposte a togliere dai cassetti della loro amministrazione. Ma anche gli Enti locali non danno prova migliore. Gli atteggiamenti dell’ANCI sono gli stessi di tutti i sindacati: quando c’è una trattativa da fare, la si porta a Roma, lì si decide e non si accettano soluzioni “a pelle di leopardo” (cito un’illuminante espressione che ho preso dai lavori parlamentari per la legge quadro dell’artigianato di anni fa). È questa logica, tutt’altro che federale, a spingere l’ANCI a chiedere e ottenere  dal Governo che la sostituzione dei Comuni che non approvano il bilancio la faccia il Prefetto. Un’associazione che pretende di rappresentare le autonomie è si sceglie sempre come suo interlocutore privilegiato il Ministero degli Interni, e come tutore il Prefetto, dimostra una semplice cosa: che in questo paese si parla di fare il federalismo, ma nessuno ci crede o sa che cosa sia. E’ questo è l’aspetto che più suscita preoccupazione. Basta, a dissolverle, intestare ogni documento e ogni atto normativo al principio di sussidiarietà?