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Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi

 

Roberto Bin

 

 

1. Affrontando un tema così vasto, non procederò cercando di ricostruire l’ambito materiale della potestà legislativa delle regioni, ma di capire se la valanga di riforme che si è abbattuta sulle regioni, dopo tanti anni d'inerzia, abbia cambiato qualcosa nello "spessore" nelle loro attribuzioni.

Sono sempre stato convinto che le riforme costituzionali ed anche quelle legislative dovrebbero proporsi di risolvere i problemi che l'esperienza ha evidenziato. Poiché nel campo del diritto regionale i problemi si traducono quasi sempre in contenzioso, io mi aspetterei, forse ingenuamente, che le riforme servano a ridurre il contenzioso che da noi, nelle relazioni tra Stato e regioni, raggiunge livelli tanto esorbitanti da lasciare in genere sbalordito l'osservatore straniero. Se così fosse, se davvero le riforme mirassero a disinnescare tale contenzioso, bisognerebbe che fosse chiaro quali siano i difetti di sistema che quel contenzioso generano.

Per quanto riguarda la potestà legislativa, ciò che genera contenzioso è ben noto. Tutti sappiamo quali sono i principali problemi: accenno ai principali per vedere poi se e in che modo le riforme recenti (e in parte ancora in corso) lascino presagire qualche miglioramento della situazione.

 

2. Come si sa, il disegno costituzionale originario era debole e la prassi istituzionale lo ha sgretolato. Le regioni sono state “inventate” sia geograficamente (le isole a parte) sia politicamente, ma di questo al costituente non si può certo fare una colpa. Il difetto principale imputabile al disegno costituzionale risiede invece nella configurazione giuridica dei rapporti tra lo Stato e i nuovi enti. Lo schema costituzionale si impernia sulla separazione dualista delle competenze dello Stato e delle Regione: uno schema già antiquato allora e sicuramente inadatto ad organizzare oggi le relazioni centro - periferia in Italia. Per di più questa separazione si regge su un equivoco: le sfere di attribuzione della potestà legislativa - che poi si trascina le attribuzioni amministrative - sono separate da una linea di demarcazione costituzionalmente "munita", il cui rispetto è infatti vigilato dalla Corte costituzionale. Ma questa linea di demarcazione è segnata da paletti invisibili, che non hanno maggior persistenza ed efficacia della leggendarie briciole di Pollicino. Da un lato vi è la separazione per materia, linea che però solo in parte è accennata dalla costituzione, dato che la definizione del concreto contenuto delle etichette impiegate per indicarla è rinviata alla legge ordinaria. Dall'altro, la separazione avviene per "livello" di normazione, basandosi sulla contrapposizione tra "principio" (variamente individuato come "principio generale dell'ordinamento", come "norma fondamentale" o come "principio fondamentale") e "norme di dettaglio". Entrambe le strategie di apposizione dei cippi confinari sono aleatorie e finiscono con generare una continua e inevitabile conflittualità tra gli enti limitrofi. Se il riempimento delle etichette delle "materie" è lasciato alla legge ordinaria dello Stato, alla cui formazione le regioni non hanno alcuna concreta, efficace e garantita possibilità di partecipare, è chiaro che altra difesa ad esse non è consentita se non rivolgersi a chi è chiamato a presidiare il confine, e quindi alla Corte costituzionale. Non meno ardua è l'altra strategia, perché distinguere ciò che è principio da ciò che è dettaglio è una questione metafisica, non giuridica. Tutti sappiamo che i principi non esistono in natura né sono distinguibili in virtù di operazioni meramente logico-formali: definire una norma come principio è frutto di una scelta politica, scelta politica che nel linguaggio della Corte costituzionale è indicata dalla nozione di "interesse nazionale" o di "intereresse unitario non frazionabile", "interesse meramente locale".

Questa nozione - che in altro contesto il costituente ha impiegato per indicare uno strumento tutto politico, cui lo Stato può ricorrere come extrema ratio per affermare la sua supremazia sulle regioni - è invece divenuto l'unico, concreto e ordinario metro di valutazione "giuridica" del riparto di attribuzioni. Il che ha prodotto due conseguenze: che le regioni, deboli politicamente e prive di strumenti istituzionali di contestazione politica delle decisioni del legislatore statale, hanno dovuto assestare la propria difesa esclusivamente sul terreno del contenzioso giurisdizionale di fronte alla Corte costituzionale; ma che questa, posta dalla costituzione sulla torretta che controlla il rispetto dei confini, deve amministrare la sua funzione non con gli strumenti che le sono propri, ma attraverso valutazioni la cui natura politica è mal celata in vesti di argomentazione giuridica. Ciò provoca incertezza e innesca ulteriore contenzioso.

 

3. Tutto ciò ha generato un fenomeno inquietante, la sostanziale desuetudine di un intero titolo della Costituzione, quello che riguarda l’autonomia regionale. Da quando le regioni hanno incominciato a funzionare, agli studenti non si può più insegnare il diritto regionale in base alla Costituzione, ma esclusivamente in base a giurisprudenza, prassi, legislazione; vuol dire che l'autonomia regionale è stata decostituzionalizzata, pur se è curiosamente rimasta in vigore la difesa giurisdizionale di essa di fronte al giudice costituzionale. E il giudice costituzionale ha dovuto riscrivere, un punto alla volta, il sistema dei rapporti tra Stato e regioni, inventando categorie che non sono scritte in Costituzione, come la leale cooperazione, oppure erigendo a sistema alcuni spunti sparsi nel testo costituzionale.

Fondamentale, sotto questo secondo profilo, la categoria del "variabile livello degli interessi": essa esprime la valutazione, prettamente politica, di quale sia il livello ottimale dove allocare le competenze, indica il metodo con cui distribuirle tra i livelli statale, regionale e locale. Grazie all’invenzione di questa figura teorica, la Corte ha anticipato uno dei temi che oggi vanno tanto di moda, quello della sussidiarietà. La sussidiarietà, dunque, esiste in Italia da tempo, anche se la versione casereccia della sussidiarietà ha il nome, in genere assai meno gradito, che le è stato coniato dalla giurisprudenza costituzionale, il variabile livello di interessi. L'esigenza che la Corte ha voluto soddisfare con questa categoria è esattamente quella che si esprime nel termine sussidiarietà: che le funzioni siano collocate, nella piramide dei livelli di governo, sì verso il "basso", ma laddove ottimale, in termini di efficienza, sia il livello del loro esercizio. E quale sia il livello ottimale lo si può stabilire esclusivamente attraverso giudizi che poco hanno di "giuridico", ma riposano su considerazioni di opportunità, quali sono quelle riassunte, appunto, nelle locuzioni "interesse unitario", "esercizio non frazionabile" ecc. da tempo coniate dalla giurisprudenza costituzionale.

L’altra soluzione elaborata dalla Corte, e che ha retto in questi anni il riparto di competenze, è il prototipo anch’essa di un’idea che è diventata di moda nel dibattito sulle riforme di questi anni, il regionalismo asimmetrico. In Italia, almeno a partire dalla metà degli anni ottanta, l’asimmetria si è imposta non come semplice indirizzo di politica legislativa, ma come realtà giuridica delineata dal legislatore ordinario e supportata dalla giurisprudenza. Mi riferisco anzitutto alla famosa sentenza della Corte 214/1985, che ha legittimato le leggi cornice a dettare norme di dettaglio, con ciò dichiarando che la legge regionale non gode di una competenza costituzionalmente riservata, ma che vi è solo - per usare la terminologia dell'ultimo Crisafulli - una "preferenza" per la legge regionale; lo Stato, dettando la nuova disciplina, riesce a imporre la sua legge su tutto il territorio regionale e le regioni, se vogliono usare le loro potestà, possono sostituire le norme di dettaglio delle leggi dello Stato con proprie leggi di dettaglio. Ciò ha reso l’uso della potestà legislativa regionale meramente facoltativo.

Ho sempre ritenuto che questa fosse una soluzione intelligente in quel quadro costituzionale, perché risolveva due problemi strettamente intrecciati: quello teorico, ma anche fortemente politico, di come consentire allo Stato di imporre le riforme legislative anche laddove le regioni, per scelta o per inerzia, non si adeguino ad esse; e quello, strettamente politico, di come rompere l'"egualitarismo" nel trattamento delle regioni. Dovendo trattare tutte le regioni con lo stesso metro, lo Stato era infatti costretto a parametrare le funzioni da trasferire alle regioni sul livello della Regione meno affidabile o meno efficiente, dovendo evitare che vi fossero zone della Repubblica in cui l'inefficienza dell'ente regionale potesse comportare un'insufficiente tutela dei diritti dei cittadini o dei beni collettivi.

Ma non è stata questa l’unica mossa della Corte verso il regionalismo asimmetrico. Si pensi a quante volte la Corte costituzionale ha rigettato il ricorso delle regioni dicendo che non possono lamentare l’invasione di competenza se non hanno già esercitato le competenze in questione: anche questo è un passo verso l'asimmetria, perché corrisponde all’idea che la Regione è quello che vuole o può essere, che ci possono essere regioni che vogliono e possono esercitare competenze ad un certo livello ed altre regioni che invece, inerti, lasciano allo Stato il compito di legiferare. Abbiamo avuto persino sentenze della Corte costituzionale che, nei conflitti di attribuzione, hanno dichiarato invalidi atti amministrativi dello Stato per singole regioni: è il caso, per esempio, del regolamento di polizia mortuaria, dichiarato illegittimo per la sola Lombardia perché solo la Lombardia aveva emanato un proprio regolamento (sent. 174/1991); oppure il caso dello sci nautico nelle acque interne, dove il Piemonte è stato esentato dal rispettare il regolamento statale perché aveva già emanato un proprio regolamento (sent. 378/1995).

 

4. Tutto sommato, bisogna riconoscere che alcuni degli slogan che hanno dominato negli anni novanta, dalla Bicamerale in poi, quali il regionalismo differenziato e la sussidiarietà non fanno altro che appellare con parole nuove e (più o meno) eleganti fenomeni già in atto perché avviati dalla così tanto vituperata giurisprudenza costituzionale. Ma chiunque abbia senno deve aspettarsi che questi fenomeni, già confusamente anticipati grazie alla prassi e al contenzioso costituzionale, trovino finalmente una sistemazione chiara e stabile nelle leggi e, soprattutto, nelle norme costituzionali.

È dunque rispetto a questa aspettativa che mi accingerei a valutare ora i due eventi normativi più importanti, la c.d. "riforma Bassanini" e la riforma del titolo V della Costituzione, attualmente sospesa in attesa del referendum.

La riforma Bassanini ha tanti meriti: per esempio, il tentativo, non sempre riuscito, di snellire la macchina amministrativa  ha qualcosa di eroico. Ma c’è anche qualche demerito. Il principale (a parte il contributo alla degenerazione del lessico giuridico italiano) è forse di avere massicciamente contribuito ad una legislazione sempre più simbolica e sempre meno regolativa. La stessa legge Bassanini è zeppa di simboli il cui impatto normativo è difficile da apprezzare. Si pensi all'escamotage di anticipare simbolicamente la riforma della tecnica costituzionale di enumerazione delle materie (non sono più enumerate le materie di competenza regionale, ma quelle di competenza statale, invertendo il senso della clausola residuale), capovolgendo l'elenco degli "oggetti" della delega (non più l'elenco in positivo degli oggetti delegati, ma quello negativo degli oggetto sottratti); si pensi al concetto nebbioso di "conferimento", che appare quasi come un messaggio simbolico di superamento della tradizionale (e costituzionale) dicotomia tra trasferimento e delega (che già la giurisprudenza costituzionale aveva però reso meno drastica); si pensi al ruolo paritario attribuito al governo locale nel disegno del c.d. federalismo a costituzione vigente, generando una compresenza di conferimenti a regioni e enti locali che ha prodotto i noti riflessi sulla riformulazione delle leggi regionali di trasferimento.

La più stringente (ed evocativa) definizione della riforma Bassanini - produzione di leggi a mezzo di leggi - rappresenta felicemente la sensazione provocata da una legge che innesca una valanga di altri atti legislativi il cui risultato concreto, operativo, ancora non si vede con chiarezza:  abbiamo avuto leggi di delega, decreti delegati, leggi regionali, decreti sostitutivi, decreti integrativi o correttivi, riformulazioni di testi unici regionali, DPCM… ma quante siano le funzioni transitate in concreto non è ancora valutabile con chiarezza. Almeno io non sono in grado di dare indicazioni dell’impatto "netto" della riforma Bassanini sull’ampiezza delle competenze regionali, anche se ho l’impressione che non si tratti di molto più che un arrotondamento dell’impianto del d.P.R. 616: e che forse il risultato non meritava questa valanga di atti. Contemporaneamente alla valanga legislativa si è innescata però una controvalanga di delegificazione, il che può sembrare leggermente contraddittorio, anche perché delegificazione e semplificazione stanno diventando un ulteriore motore di aumento del "saldo netto" di norme vigenti e del livello di complicatezza dell'intero sistema.

Questo si riflette in modo allarmante sullo "spessore" della potestà legislativa regionale. La legge di semplificazione prevede (o forse semplicemente allude all'ipotesi) che i regolamenti del Governo si applichino direttamente anche alle regioni, nelle materie di loro competenza, e spero che la Corte sarà ferma nel ribadire la sua giurisprudenza ventennale, dichiarando che ciò non è ammissibile: la legittima volontà del Governo di raggiungere un risultato politicamente più che apprezzabile non può giustificare uno strappo alla legalità costituzionale. La Costituzione non è un impiccio formale, è il limite, sostanziale e procedurale, alla volontà politica: minare il limite significa svalutare la funzione della costituzione. Il rispetto della legalità costituzionale è certo un freno alla volontà politica (serve proprio a questo, anzi), ma rompere il freno in nome del "federalismo a legislazione invariata" o della semplificazione è, oltretutto, anche contraddittorio: il risultato, infatti, è l'ulteriore scoloritura dei connotati costituzionali dell'autonomia regionale (il regolamento governativo che s'impone sulla legge regionale, l'autonomia degli enti locali che è parificata a quella regionale); ma anche l'attenuazione dei valori di chiarezza e prevedibilità che sono insiti nella legalità costituzionale, perché danno un ordine preciso al sistema delle fonti normative. Inoltre, questo trend sembra in palese contrasto con quello che emerge dal testo di riforma del Titolo V, il cui art. 117.5 circoscrive la potestà regolamentare dello Stato alle sole materie di sua competenza esclusiva, così sembrando voler arginare (opportunamente) la moltitudine di regolamenti che vogliono infiltrarsi (abusivamente) nelle materie di competenza regionale, provocando la delegificazione coatta di esse[1].

 

5. Un punto della riforma Bassanini che mi sembra sicuramente importante e positivo è il rafforzamento della conferenza Stato Regione e l'istituzione delle altre conferenze. Potrebbe sembrare che ciò non c'entri con il tema della mia relazione, la potestà legislativa, ma non è così. E’ un tentativo interessante di dare una risposta a quelle che  sono le reali e non simboliche esigenze della sussidiarietà, ed anche di trovare sedi istituzionali che diano continuità al rapporto di intensa collaborazione tra Stato e regioni, che è forse stato l’aspetto più interessante del “processo Bassanini”.

Sono sempre stato convinto che la sussidiarietà sia un concetto di scarso significato giuridico, ma di grande peso politico. Come altre grandi idee - dalla democrazia, alla solidarietà, alla liberazione dal bisogno e dalla paura, ecc. - segna un problema o un programma di politica legislativa: la sussidiarietà assegna al legislatore l'obiettivo di superare finalmente le attuali fittizie barriere di separazione delle competenze dei diversi livelli di governo. Tutte le funzioni pubbliche vengono rimesse in un unico calderone e poi si deciderà dove collocarle in base al livello variabile degli interessi, a valutazioni di opportunità e di efficienza, con l'impegno di preferire il livello più basso, quello più vicino ai cittadini. Ma questo programma ha, in Italia, una ovvia e tacita premessa, che venga superato il sistema dualistico di separazione delle competenze, previsto dalla Costituzione del’48: sistema che deve essere sostituito da un meccanismo cooperativo di decisione sull’allocazione concreta delle competenze. Se la sostituzione fosse compiuta, non ci sarebbe allora più bisogno di dire in astratto, con la strumentazione dell'interpretazione giuridica, se per esempio la fiera di Milano o il porto di Messina siano di competenza statale o regionale, perché la decisione verrebbe assunta in concreto, codecisa in sede politica, discutendo e valutando dove convenga a tutti che la funzione sia collocata e in che modo vada esercitata come un obiettivo comune.

Perciò la sussidiarietà diventa giuridicamente rilevante nel momento in cui il programma politico si trasformi in regole e istituzioni della codecisione. Dopo che la Bicamerale si era arenata, e non era perciò escogitabile una forma costituzionale di partecipazione delle regioni alle decisioni - e, anzitutto, alla formazione delle leggi - dello Stato, l’unica soluzione possibile, l’unica soluzione realistica e realizzabile con legge ordinaria, è stata il potenziamento delle conferenze: un disegno che ha molti limiti e difetti, ma ha individuato l'organo, integralmente e dichiaratamente politico, di contrattazione attraverso cui passano le decisioni che interessano i diversi livelli di governo. L'unico, debole, strumento giuridico della sussidiarietà attualmente esistente.

È chiaro che il disegno della Bassanini era inizialmente concepito come l’anticipo in via legislativa di quella che sarebbe dovuto essere la riforma costituzionale: poi la riforma non c’è stata, perciò la riforma in via di legislazione ordinaria è rimasta lì, con tutte le debolezze che conosciamo. Mi sembrerebbe quindi lecito guardare alla riforma costituzionale del titolo V con questo interrogativo in mente: vi sono nella riforma per cui è stato chiesto il referendum costituzionale le soluzioni dei problemi rimasti aperti?

 

6. La risposta è francamente assai difficile. Tutti hanno detto male della tecnica legislativa di questa legge di riforma, ed io non posso che unirmi al coro. Siamo di fronte ad un corpo normativo talmente informe e molle che non credo sia lecito né giusto procedere alla sua analisi con il sottile bisturi dell’elegante esegesi giuridica. Si possono tracciare soltanto valutazioni di massima, che per di più muovono da una premessa: che quanto è scritto nel nuovo testo del titolo V non va preso troppo sul serio, a partire dal nuovo art. 117, cui una innocente e svagata scrittura fa dire che anche le leggi dello Stato sono soggette agli obblighi internazionali. Dopo 50 anni che i giudici italiani, sobillati dalla dottrina (per lo più da quella internazionalistica), si rivolgono alla Corte costituzionale per farle dire che un trattato non può essere abrogato dalle leggi ordinarie, è facile immaginare come anche solo questa disposizione innescherebbe un contenzioso esplosivo.

Comunque, se noi scorriamo il testo del titolo V possiamo valutare tale riforma dal punto di vista della potestà legislativa regionale sia sotto il profilo dell'estensione delle competenze, sia sotto quello dello spessore e della profondità di esse.

Per quanto riguarda l’estensione, non c’è dubbio che questa riforma porta alle regioni, almeno sulla carta, una quantità di competenze nuove. Anzi da questo punto di vista è una promessa di allargamento enorme delle competenze regionali, quasi preoccupante. Infatti, ci sono regioni intelligenti che sono già preoccupate di come far fronte alla massa di nuovi compiti: mentre poi ci sono regioni e forze politiche meno intelligenti che si cincischiano con referendum consultivi ridicoli o con l’ultimo yo-yo d’importazione dal nome esotico (naturalmente per chi non conosca il senso e l’etimo delle parole) di devolution. Io vorrei però occuparmi in primo luogo dell’altro profilo, cioè dello spessore della competenza. Mi domando se veramente ci sarà un vero miglioramento della potestà legislativa regionale per quanto riguarda la capacità di innovazione; se cioè la riforma permetterà al legislatore regionale di diventare un motore legislativo vero, autorizzato a porre norme nuove, a sperimentare modelli diversi da quelli previsti dalla legislazione statale; e poi se consentirà alla legge regionale di essere la vera base legale dell’azione amministrativa regionale, o se questa continuerà ad essere di continuo reindirizzata dalle decisioni di questa o di quella autorità statale. Perché io credo che è su questi parametri che debba essere misurato il ruolo della legislazione regionale, non sulla base della quantità di etichette che designano materie e sottomaterie che spesso non hanno alcun spessore

Da questo punto di vista è difficile dare una risposta, ci sono tante cose che lasciano perplessi. L’impianto è noto a tutti. L’art. 117, riscritto, elenca una serie di materie di competenza esclusiva dello Stato; c'è poi una seconda serie di materie che sono definite, con formula dottrinale, di "competenza concorrente", ed una norma a carattere aperto e residuale, che attribuisce le altre innominate materie alla potestà legislativa regionale, potestà che però non è definita in una maniera precisa, anche se dovrebbe intendersi, per ragioni logico-sistematiche, che si tratti di potestà assoluta.

Il principale problema interpretativo si pone per queste ultime due. Che cos’è la potestà legislativa concorrente e cos’è questo terzo livello di competenza regionale? Riferito alla competenza concorrente c’è un elenco impressionante di materie, per molti versi completamente nuovo; per esempio, vi rientrano la ricerca scientifica, le professioni, l'istruzione, l’alimentazione, il governo del territorio, il trasporto e la distribuzione "nazionale" dell’energia… materie per le quali le regioni hanno fatto in passato lunghe lotte per rivendicare qualche mozzicone di competenza, e che oggi si trovano invece riccamente e generosamente riconosciute loro. Naturalmente con il limite della competenza concorrente, limite oggi riscritto rispetto alla vecchia versione del 117: nella “legislazione concorrente spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. Benché, come ho promesso, non intenda usare il bisturi, qualche interrogativo di massima me lo devo porre. Cosa vuol dire ‘salvo che per la determinazione dei principi fondamentali riservata alla legge dello Stato’? Dobbiamo prendere sul serio il fatto che il legislatore abbia mutato la formula, rispetto alla famosa formulazione originale, ‘nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato’? Come pensiamo che verrà consolidata l’interpretazione di questa disposizione nella giurisprudenza della Corte?

Possono essere date letture diverse della disposizione. La più temibile, per le regioni, e che, se la determinazione dei principi è espressamente affidata alla legge dello Stato, il nuovo limite dovrebbe essere più pregnante rispetto a quello originalmente contenuto nel 117: nel senso che la legislazione regionale concorrente non potrebbe essere mai innovativa, dato che la vera innovazione, cioè la posizione dei principi, sarebbe sempre riservata allo Stato. Lo spazio della legge regionale sarebbe comparabile a quello del decreto legislativo delegato. Siccome molti di noi hanno sostenuto in passato la tesi che i principi della legislazione dello Stato subiscono un processo di obsolescenza per cui il principio negli anni perde la sua forza di limite e consente alla legislazione regionale di proporre innovazioni, sino al punto di divenire il propulsore che spinge proprio lo Stato a fare nuove leggi, a porre nuove norme di principio (come in effetti è molte volte accaduto), ci si può chiedere se alla fine il nuovo testo non sia da considerare, più che la posizione di un limite, una netta separazione di competenza. Se così fosse, in nessun caso le regioni sarebbero in grado di produrre leggi innovative.

 

7. Per quanto riguarda il terzo livello, la potestà legislativa regionale “residuale”, ho già sottolineato che essa non è espressamente definita come "esclusiva". Ma è chiaro che, se queste materie - tra cui rientrano quelle elencate nell'attuale 117 - non sono comprese nella competenza esclusiva dello Stato, né in quelle a competenza concorrente, sia inevitabile inquadrarle nella competenza esclusiva delle regioni. Il che è simbolicamente di grande effetto, ma il mio naturale scetticismo mi induce a prudenza quanto alla valutazione del significato reale. Come si fa a pensare che la legislazione in queste materie si sviluppi senza un coordinamento legislativo? Abbiamo davanti problemi seri, materie dalla ricca storia di contenzioso, come la classificazione alberghiera e la disciplina delle agenzie turistiche, la caccia, l'urbanistica, ecc. Saranno liberamente disciplinabili dalle regioni senza alcuna forma di coordinamento normativo?

Nella nuova formulazione costituzionale tutto sembra privo di lacci e limiti, ma la realtà è che i problemi sostanziali non vengono affrontati. Esaminiamo da vicino la pretesa potestà legislativa esclusiva delle regioni: significa veramente qualcosa? Ho provato ad immaginare una materia tipica, l’urbanistica, che, non essendo nel nuovo elenco di potestà ripartita, deve rientrare nel terzo ambito, quello della competenza residuale e assoluta delle regioni: ma che senso operativo ha questa nuova collocazione?

L’urbanistica ha confini enormi e frastagliati, ha interconnessioni molto forti: vi è, anzitutto, un aspetto civilistico, tipico della conformazione della proprietà privata e del regime vincolistico, e un aspetto penalistico, connesso alla repressioni degli illeciti urbanistici e edilizi: entrambi “tagliano” e condizionano pesantemente la potestà legislativa della Regione, paralizzandola. Poi c’è la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, che sarebbero “materia” riservata in via esclusiva allo Stato, e la cui proiezione sull’urbanistica e vastissima; il governo del territorio è invece materia concorrente, per cui i princìpi della legislazione dello Stato vincolano la legge regionale in quella materia: ma c’è un confine netto tra urbanistica, ambiente, beni culturali, governo del territorio? Ovviamente no.

Ma vi è pure un altro profilo: le funzioni fondamentali degli Enti locali, assegnate da leggi dello Stato. Ed è noto che i Comuni sono per tradizione intestatari di pressoché tutte le funzioni amministrative “attive” in materia urbanistica ed edilizia (anche se poi spessissimo le esercitano nel peggiore dei modi, come mostra il generale scempio prodotto dall’inurbazione di età repubblicana), sicché alla potestà legislativa regionale cosa resta da disciplinare? Ci sarà, in una materia chiave come l’urbanistica, qualcosa di diverso da domani, cioè da quando le regioni potessero rivendicare potestà esclusiva in materia? Francamente ne dubito. Potrebbe, per esempio, una Regione, correttamente interpretando il principio di sussidiarietà, avocare a sé una serie di decisioni strategiche di urbanistica, quelle che solo in un paese folle come il nostro sono affidate in toto ai Comuni, compresi i piccoli comuni – polvere delle ultime zone non inurbate del nostro paese, che, privi di qualsiasi supporto tecnico, e con la debolezza politica che deriva dalla marginalità economica devono discutere i piani di speculazione turistica proposti dalla Fiat o dall’Aghà Khan? Oppure potrebbero intervenire sulla chiusura al traffico dei centri storici, avocando ad un livello “sussidiario” più adeguato decisioni che la maggior parte dei comuni non riesce a prendere? Sarebbe lesa maestà comunale se non venisse rispettato il riparto di competenze fissato dalle leggi dello Stato. E allora, di quale potestà “esclusiva” stiamo parlando?

 

8. Inoltre il nostro legislatore costituzionale ha dimenticato il coordinamento. O peggio, se ne ricorda in ben quattro specifici punti del nuovo testo ("coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale": art. 117.2, lett. r; "armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario": art. 117.3; "forme di coordinamento" disciplinate con legge nelle specifiche materie immigrazione e ordine pubblico e nella tutela dei beni culturali: art. 118.2; un generico richiamo dei "princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario": art. 119.2), quasi a voler lasciare intendere che, per il resto, è escluso che lo Stato possa intervenire invocando un principio generale.

Capisco che questa sia stata la risposta alle istanze delle regioni, memori dell'abuso che il Governo ha fatto in passato degli strumenti di indirizzo e coordinamento (infatti la parola 'indirizzo' neppure compare nel nuovo testo). Ma quell'abuso era stato possibile proprio per l'assoluto silenzio della "vecchia" Costituzione: la Corte costituzionale aveva dovuto "estrarre" il principio del coordinamento dall'art. 5 Cost., che peraltro, non essendo stato emendato, continua ad esprimere la stessa istanza di unità. Se dovesse entrare in vigore il nuovo testo del titolo V, sono sicuro che saranno le stesse regioni a chiedere, magari in Conferenza, che il Governo detti qualche norma di coordinamento: e se poi il Governo ne abusa, come potrà la Corte opporsi? "Dimenticando" il coordinamento, il nostro legislatore ha dimenticato trent'anni di contenzioso costituzionale, e così è venuto meno alla sua principale funzione.

Oltretutto, nulla dicendo sui meccanismi di coordinamento, il nuovo testo rende ancor più incomprensibile il riparto dei compiti amministrativi tra i diversi livelli di governo. Come nel testo del ’48, il nuovo testo si occupa essenzialmente del riparto delle funzioni legislative: il vecchio e logoro principio del “parallelismo delle funzioni”, che in linea di massima governava il riparto delle funzioni amministrative, sembra sostituito dal principio del “parallelismo delle funzioni regolamentari”, espresso dalla limitazione del potere regolamentare dello Stato alle sole materie di sua competenza legislativa esclusiva e, sull’altro versante, dalla riserva agli enti locali della “potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite” (art. 117.6). Nulla però si dice di come si ripartiranno gli altri compiti amministrativi, di natura non normativa, e che fine faranno tutte le funzioni attualmente svolte dagli apparati dello Stato nelle materie diverse da quelle di sua competenza. L’art. 118.1 ribadisce e costituzionalizza il principio di sussidiarietà ed esprime una “preferenza” per l’attribuzione delle funzioni amministrative ai Comuni: ma, come già ho sottolineato, il principio di sussidiarietà, basandosi su valutazioni di opportunità e di efficienza, rende mobile la linea di riparto, sicché nulla esclude che esso giustifichi ampiamente la conservazione di tali vasti e capillari compiti amministrativi in capo allo Stato[2]. Non è forse un’altra seria premessa per un intenso contenzioso futuro?

 

9. Dimenticato il coordinamento, eliminato l’interesse nazionale, trascurato di dare una forma istituzionale precisa e seria alla “leale cooperazione” – perché la “soluzione ponte” individuata dall’art. 11 della legge cost. non è né precisa né seria, ma appartiene all’inesauribile serie di ardite soluzioni arredative delle Camere (le “due camere e camerino”, il “senato con gli strapuntini” ecc.) di cui gli “architetti” costituzionali ci hanno abituati dai tempi della “Bicamerale” (facendoci persino rimpiangere gli “ingegneri” costituzionali”) – la “nuova” Costituzione ha tirato un frego su trent’anni di storia del regionalismo in Italia. È rimasto però il potere sostitutivo, a cui la legge costituzionale ha dedicato una totale riscrittura.

Si tratta di un punto importante, al punto che sarei persino disposto a sottoscrivere il seguente teorema: tanto più le regioni acquistano una seria autonomia, tanto più ci si deve preoccupare di organizzare un forte potere sostitutivo. Il teorema si spiega in base a questo ragionamento: non possiamo permettere che intere regioni, perché affette da secessionismo politico o perché piombate in una crisi endemica, non siano in grado di assicurare alle loro popolazioni servizi e diritti fondamentali, sicurezza igienica e ambientale e così via. Un regionalismo che funzioni deve avere un corpo asimmetrico: che le regioni più forti e efficienti facciano pure quello che vogliono, ma ci deve essere un sistema  sostitutivo per le regioni che si bloccano e per quelle che deviano. Non si può lasciare depredare le coste, distruggere i monumenti, trasformare i fiumi in fogne industriali, crollare i quartieri popolari, trasmutati in discariche non controllate: per evitare tutto ciò o si centellinano le funzioni da trasferire (come è avvenuto nei primi decenni di storia regionale) o si introduce un potere sostitutivo esteso ed efficiente. Non è detto che lo debba esercitare il Governo da solo, lo si può far funzionare in maniera concertata, come già è previsto nella legge Bassanini, oppure si possono immaginare strutture interregionali di supporto: ma ci deve comunque essere un potere sostitutivo, forte, rapido, efficiente, concepito più come un’attività (e un’organizzazione) amministrativa suppletiva, che come un’attività di controllo[3].

Almeno questa esigenza non è stata dimenticata dalla riforma costituzionale. Il “nuovo” art. 120.2 prevede che il Governo possa sostituirsi agli “organi delle regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni” in diversi casi (mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria, pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica, tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali), prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. E poi rinvia alla legge ordinaria il compito di definire “le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”.

Vi sono però alcuni punti oscuri e cruciali. Il più delicato è determinare cosa significhi la locuzione ‘tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica’. La tutela dell’unità giuridica e economica è una cosa nuova che si affaccia nel nostro ordinamento, oppure è semplicemente un restyling del vecchio interesse nazionale? È un’espressione importata dalla Germania, la cui Costituzione (art. 72.2 GG) la usa però in un contesto molto più chiaro, per indicare uno dei caso in cui è legittimo l’intervento della legge federale nell’ambito della legislazione concorrente. In Italia, invece, dove indica uno dei presupposti dell’intervento sostitutivo dello Stato, il suo esatto significato è tutto da definire. Per esempio, riguarda solo l’attività amministrativa o è prospettabile anche una sostituzione nel potere legislativo delle regioni, così come ha cercato di fare la legge Bassanini con le regioni che non hanno emanato in tempo utile le loro leggi di “conferimento”, e così come si è fatto più di recente, in modo piuttosto pasticciato, per la sostituzione della Regione Sardegna, che non aveva adeguato il suo ordinamento alla riforma del commercio[4]? Ed è poi possibile che, in assenza di qualsiasi menzione dell’interesse nazionale e del potere di indirizzo e coordinamento, proprio partendo da questa formula imprecisa la Corte costituzionale inizi a tessere la stessa tela che ha prodotto in trenta anni di giurisprudenza sviluppando proprio il tema dell’unità dell’ordinamento, dell’esigenza di considerare l’interesse nazionale, del suo risvolto positivo ecc.? E poi, perché è previsto e disciplinato solo l’intervento sostituivo dello Stato e non anche quello della Regione? Anche per essa può sorgere l’esigenza di surrogare enti locali che, muniti di potere regolamentare, lo usano per “rompere” l’unità giuridica ed economica della Regione. Aver innalzato i comuni e gli altri enti allo stesso livello delle regioni, impone che la supremazia delle regioni trovi specifico fondamento e adeguata strumentazione in Costituzione: oppure qualcuno pensa che debba provvedere sempre il Governo, magari su richiesta della Regione interessata?

 

10. Confesso di avere l’impressione che la norma chiave di questa riforma del titolo V, quella che rischia di essere veramente una norma di grande portata, forse l’unica, sia l’eliminazione del controllo preventivo sulle leggi regionali. Il controllo preventivo viene eliminato e sostituito da uno successivo, secondo me non formulato nei migliori dei modi. Ma questo è un problema che considererò poi.

Perché è una norma rivoluzionaria? Ne sottolineo alcune conseguenze.

La prima riguarda la forma di governo, e quindi la formazione dei “nuovi” Statuti regionali: profilo importante che però non mi pare abbia attratto ancora molte riflessioni. Questa norma potrebbe avere un impatto fortissimo sulla forma di governo regionale, perché, insieme al controllo preventivo, sparisce anche la norma costituzionale che disciplinava l’obbligo di promulgare le leggi e la loro entrata in vigore. Per cui lo Statuto della Regione dovrà dettare una disciplina sostanziale e procedurale della promulgazione, il che obbligherà a riflettere se introdurre un meccanismo di controllo e di rinvio delle leggi da parte del Presidente della Giunta regionale, cosa che a me pare indispensabile. Se il Consiglio regionale, nella notte di un sabato di mezz’estate, decide di fare una legge, contraria all’indirizzo politico della giunta, che sfonda il bilancio, e che per di più infrange il diritto comunitario creando conseguente responsabilità, questa legge può essere bloccata dal Presidente della Regione? o meglio, può non esserlo? La configurazione dei poteri e dei doveri del Presidente nella promulgazione della legge regionale è un tassello assolutamente fondamentale per la definizione della forma di governo regionale: pesa moltissimo sull’equilibrio dei poteri tra esecutivo e assemblea elettiva; si porta dietro tutta una serie di possibilità di dare effettività a controlli sulla qualità della legislazione, di valutazioni di impatto normativo, di giudizi preventivi di legalità comunitaria, costituzionale e “statutaria”; è un pezzo fondamentale del procedimento legislativo, a cui gli Statuti devono prestare la massima attenzione.

L’altro aspetto un po’ inquietante della riforma è l’effetto destabilizzante che questa norma produce: perché le leggi regionali rimarranno in vigore per tutto il periodo necessario all’impugnazione, e poi, se impugnate, produrranno ancora effetti mentre penderà il giudizio della Corte costituzionale. Nel frattempo l’amministrazione regionale e i giudici cosa dovranno fare, applicarle come se fosse niente? Le conseguenze sia giuridiche che pratiche di questo meccanismo sono dense: in una situazione di conflittualità politica permanente tra il Governo e alcune Regione, è chiaro che quest’ultime potranno cercare di attaccare lo Stato con le loro leggi e lo Stato risponderà con l’impugnazione. Questo creerà, non singoli episodi, ma uno stato sistematico di instabilità legislativa, che interesserà estese porzioni di legislazione regionale, proprio quelle più politicamente rilevanti. Paradossalmente, il controllo preventivo sulle leggi, nell’evoluzione dei rapporti istituzionali, aveva assunto una forma per così dire “collaborativa”: naturalmente le regioni non rimpiangerebbero affatto quel tipo di collaborazione, che ha significato interferenze sistematiche e pressioni continue da parte del Governo. Ma togliere di colpo ogni armonizzatore tra la promulgazione della legge regionale e la sua impugnazione, anche se forse è l’unica soluzione possibile, non potrà che produrre, ancora una volta, un’impennata del contenzioso di fronte alla Corte[5].

Mentre, d’altra parte, la riforma costituzionale ha perso l’occasione di compiere un altro passo importante e “stabilizzante”, quello di introdurre un meccanismo generalizzato di impugnazione successiva, da parte del Governo, delle leggi regionali “non adeguate” alle innovazioni legislative introdotte dallo Stato: un meccanismo, insomma, del tipo di quello introdotto dai decreti di attuazione dello Statuto del Trentino-Alto Adige. Almeno avremmo avuto un fattore di maggior stabilizzazione dell’ordinamento, che consentirebbe allo Stato di “controllare” l’adeguamento delle regioni alle sue innovazioni e che, sull’altro versante, porrebbe la Regione al riparo dalla sistematica, diretta intrusione delle norme statali nel proprio ordinamento, assegnandole margini temporali certi per emanare norme di adeguamento.

 

11. Non mi soffermo sul ménage à trois dello Stato, delle regioni e degli Enti locali, perché è chiaro cosa significa. L’idea è che lo Stato faccia da arbitro tra gli altri due, mediando, distribuendo funzioni, togliendole, disciplinandole, applicando insomma il divide et impera o, se si vuole, praticando l’antichissimo gioco delle tre carte: è una cosa contro cui mi sono sempre battuto e che mi pare assolutamente incongrua rispetto a qualsiasi forma di “federalismo” che sia funzionante. Tanto per cambiare, appare come un’efficace fabbrica di contenzioso giurisdizionale futuro.

Voglio invece spendere due parole finali sulla questione, a mio avviso assai delicata, di come verrà applicata la riforma del titolo V della Costituzione, nell’ipotesi che entri in vigore. Servono decreti di trasferimento? Sicuramente sì, per ciò che riguarda l’attribuzione di sostanza alle etichette delle “materie”. Ma, per alcuni versi, la legge costituzionale potrebbe essere autoapplicativa, almeno dove è prevista la competenza esclusiva? Anche qui servono decreti di trasferimento? Forse no, anche perché ci sono materie in cui non ci sono strutture amministrative da trasferire, trattandosi materie “puramente normative”. E il contenzioso in corso, come si risolverà: secondo la vecchia Costituzione o secondo la nuova? Non possiamo non preoccuparci del contenzioso pendente, perché la cosa che più mi spaventa è che il valore regolativo del nuovo testo costituzionale, così indefinito e del tutto privo di norme transitorie e di attuazione, debba essere stabilito subito, forse già il giorno dopo l’entrata in vigore, dalla Corte costituzionale: la quale dovrà pur dire che cosa accade dei procedimenti in corso a seguito dell’entrata in vigore della riforma.

 Mi immagino poi che, se il clima politico non sarà più temperato dell’attuale, immediatamente alcune regioni cercheranno di forzare la lettera di qualche disposizione del nuovo testo e il Governo cercherà di bloccarle: tutto finirà alla Corte che, sin dai primi giorni dell’entrata in vigore sul contenzioso pregresso, e subito dopo su quello nuovo, dovrà iniziare a ricucire il filo del significato delle singole locuzioni costituzionali e del loro senso sistematico. Essa si troverà impegnata subito a riempire di contenuti un testo la cui scrittura è così vacillante, priva di alcun supporto. Si creeranno dei precedenti che poi sarà difficile rovesciare.

Questo potrà avere, sulla riforma, l’effetto di una brusca frenata. Perciò mi auguro che vi sia grande intelligenza politica da parte delle regioni, che le spinga a mettersi intorno ad un tavolo e raggiungere un accordo politico con il Governo su come fare entrare in vigore tale riforma: sui tempi, le condizioni, le modalità, gli atti necessari. E magari anche un accordo su come impostare un’altra legge costituzionale che risolva gli infiniti problemi che questa solleva, e che non possono essere nuovamente scaricati sulla Corte costituzionale.

 

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[1] O, come la definisce G.FALCON, Il nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in Le regioni 2001, 3 ss., 7.

[2] Cfr. in questo senso G.FALCON, op.cit., 9.

[3] Ho tratto spunto da quanto sostenuto da C.MAINARDIS nella sua tesi di dottorato, di cui si può leggere l’abstract  nel “Forum di QC”: http://www.mulino.it/html/riviste/quaderni_costituzionali.

 

[4] L’intricata vicenda è descritta da I.RUGGIU, Decreto Bersani: il Governo esercita il potere sostitutivo nei confronti della Regione Sardegna, in Le regioni 2000, 1153 ss.

[5] In questo senso cfr. anche A. BERBERA, Scompare l’interesse nazionale?, in Quaderni costituzionali 2/2001 (e nel “Forum di QC” cit.