VERI E FALSI PROBLEMI DEL FEDERALISMO IN ITALIA
1. Regionalismo e federalismo: un falso dilemma
Non vi è nessun indice preciso che consenta di distinguere un sistema federale da uno regionale: entrambi cercano di combinare una certa misura di unità con una certa misura di diversità[1]. La distinzione guarda essenzialmente al passato, al modo in cui il sistema, lo stato, si è formato. I sistemi federali nascono dalla trasformazione del foedus, del rapporto di diritto internazionale che lega originariamente alcuni stati, in un soggetto nuovo, lo Stato federale appunto: gli esempi di federazione che vengono più facilmente in mente hanno tutti questa origine (così gli Stati uniti, la Svizzera, la Germania - sia pure in un modo del tutto particolare -, l'Argentina; non così, però, l'Austria e il Belgio, che nascono dalla scomposizione di uno stato centralizzato). I sistemi regionali sono invece il frutto di un processo di decentramento delle funzioni di uno stato centralizzato (così l'Italia, la Spagna, la Francia).
Naturalmente qualche traccia della diversa origine resta nell'organizzazione del sistema: ma tali residui sono determinanti nel caratterizzare il sistema in senso federale o in senso regionale? Direi di no. I sistemi istituzionali si staccano dalla loro origine e vivono dinamiche evolutive molto intense, subiscono forti deformazioni rispetto ai modelli originari causate dall'esigenza di adattamento a situazioni che erano imprevedibili in origine. Tutti i sistemi decentrati, siano stati essi in origine federali o regionali, hanno dovuto adattarsi ai grandi cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi 50 - 70 anni nell'organizzazione, nella funzione, nella stessa filosofia dello stato moderno; poiché le sollecitazioni sono state più o meno le stesse, in Italia come in Svizzera, in Germania come negli Stati uniti, più o meno gli stessi sono stati anche i problemi che i sistemi di relazione centro-periferia hanno dovuto affrontare e le stesse anche le risposte che hanno elaborato. E' un dato importante, perché il panorama che si apre è molto interessante, dal momento che è lecito uscire dalla nostra piccola esperienza ed viaggiare nelle esperienze di altri paesi. Ma, naturalmente, viaggiare è bello, ma richiede un certo grado di consapevolezza.
2. Alcuni pregiudizi da superare
Più di mezzo pianeta è organizzato in modo federale o regionale, ed in una buona parte di questo mezzo pianeta si registrano quei requisiti minimi di democrazia, che costituiscono le condizioni ambientali necessarie allo sviluppo di un effettivo federalismo (intendendo il termine in un'accezione molto vasta, comprendente anche i sistemi regionali). In questo cospicuo spicchio di mondo si possono condurre indagini comparate sul modo di funzionare dei sistemi centro-periferia, e di risolvere i problemi che si sono posti alle democrazie moderne, come se ci si trovasse di fronte a sistemi omogenei, in cui gli elementi di analogia predominano su quelli di diversità.
Anzi, il primo dato che l'esame comparativo ci dimostra con evidenza è che (a) il federalismo non richiede, come condizione "ambientale", una specifica forma di governo (intendendo con questa locuzione il modo di organizzare i rapporti tra gli organi costituzionali) e che (b) né il grado di autonomia degli enti federati, né il grado di efficienza del sistema centrale variano in funzione del tipo di forma di governo adottato.
In Europa, il federalismo si mostra oggi quasi esclusivamente associato a forme di governo di tipo parlamentare, nelle sue diverse varianti (Germania, Austria, Belgio e, sia pure nella forma più attenuata di un regionalismo avanzato, Spagna ed Italia), con la sola eccezione della Svizzera, che ha la sua irripetibile forma di governo (elezione del governo da parte dell'Assemblea nazionale; irrevocabilità del governo e sua collegialità, in assenza di figure "presidenziali" di rilievo costituzionale). Sistemi federali coniugati con il governo presidenziale si stanno affacciando però ora nell' Est europeo (Russia).
Fuori d'Europa, il federalismo ha attecchito nelle ex colonie inglesi, coabitando con le forme di governo più diverse, anche se tutte in qualche modo derivate dalla costituzione inglese, nei diversi stadi del suo sviluppo. In Canada e Australia il federalismo si sposa con un governo parlamentare con caratteristiche di tipo "Westminster" (sistema maggioritario; il leader del partito che vince le elezioni è automaticamente investito della responsabilità di governo; governi tendenzialmente monopartitici; ecc.); negli Stati Uniti d'America con il governo presidenziale. L'esempio americano è poi ripreso, anche nella struttura federale, da diverse costituzioni del mondo latino-americano (Argentina, Brasile, Messico, Venezuela).
Insomma, uno degli assunti correnti - un forte federalismo richiederebbe, per essere bilanciato, un rafforzamento dei poteri centrali, e quindi una forma di governo presidenziale a livello nazionale - è quindi smentito dai dati dell'esame comparato. Esistono sistemi federali molto efficienti (Germania, per esempio) o molto accentuati nell'articolazione dei poteri decentrati (Belgio, per esempio, dopo la riforma del 1993), che si sviluppano nell'àmbito del governo parlamentare, così come sono esistiti (in Sud America e, almeno in passato, nell'Est europeo, per esempio) sistemi federali "di carta" associati a forme di governo presidenziali; per converso, esistono numerosissimi esempi sia di sistemi parlamentari (gli stati scandinavi e il Giappone, per esempio, oltre al Regno Unito e all'Olanda), che di sistemi presidenziali o semi-presidenziali (Finlandia, Francia; Georgia), privi di qualsiasi elemento di federalismo. La stessa premessa, per cui il governo presidenziale di per sé valorizzerebbe la "forza" delle istituzioni centrali, è indebita, perché trascura il fondamentale dato che la forza e l'efficienza di una formula di organizzazione del potere pubblico sono garantite, non dall'astratto modello adottato, ma da un'insieme di variabili esterne ed interne all' organizzazione stessa: "il paradosso del presidenzialismo è che, mentre le sue caratteristiche maggioritarie creano grandi aspettative sulla forza dell'esecutivo, le spinte competitive all'interno del sistema fanno sì che queste aspettative non siano realizzate"[2].
Per non dire poi dello scarso significato connotativo che hanno etichette come presidenzialismo, parlamentarismo, ecc., che sono riferibili a modelli di rapporti tra gli organi costituzionali molto generali, del tutto astratti rispetto alla attuazione e alla prassi istituzionale, suscettibili perciò di innumerevoli variazioni, spesso decisive per la concreta qualificazione di un sistema costituzionale. Per di più, questi modelli, una volta calati in un sistema istituzionale concreto, che è una costruzione enormemente complessa venuta a sedimentarsi in secoli di storia nazionale e di prassi istituzionale, acquisiscono caratteristiche tipologiche così proprie del sistema in cui vivono da diventare esempi irripetibili in altre realtà politiche. Si pensi al sistema presidenziale e federale statunitense, arcaico nel suo disegno originale, ispirato ad una visione leviathanica del potere statale, perennemente sull'orlo dell' impasse istituzionale: epperò vitale, per i delicati meccanismi sviluppati in due secoli di vita istituzionale e per la tenuta, in tutto questo periodo, del sistema politico nel suo complesso. Che possibilità avrebbe questo sistema di funzionare efficientemente in assenza delle particolari caratteristiche del sistema politico americano?
Una delle variabili da cui dipende la funzionalità di un assetto costituzionale è indubbiamente il sistema elettorale. Ma neppure per il sistema elettorale si può dire che vi sia una soluzione preferibile in presenza di un assetto federale. Come è noto, esistono Stati federali che adottano, almeno per le istituzioni centrali, sistemi proporzionali più o meno corretti (Germania, Belgio, Austria, Svizzera; tra quelli regionali, Spagna e Italia, almeno prima della recente riforma), ed altri che sono invece legati al sistema maggioritario, anch'esso con varianti notevoli (USA, Canada, Australia). E siccome un discorso serio sui sistemi elettorali non potrebbe certo limitarsi alla solita contrapposizione proporzionale - maggioritario, ma dovrebbe prendere in considerazione tutte le altre variabili rilevanti, dalla grandezza dei collegi al sistema di selezione dei candidati, dalla struttura dei partiti alle regole della campagna elettorale, anche ogni illazione circa la preferibilità di un sistema elettorale in un contesto federale appare velleitaria.
Il panorama comparativo ci libera dunque da qualsiasi pregiudizio, che pure affiora spesso in Italia nel dibattito sulla riforma delle regioni. In primo luogo, dirsi federalisti o antifederalisti, regionalisti o neoregionalisti ha ben poco senso: non esiste un modello di federalismo, così come non esiste un modello di regionalismo da contrapporgli. In secondo luogo, tale è la diversità delle esperienze istituzionali che abbiamo di fronte, che viene seccamente smentita qualsiasi affermazione circa supposte relazioni necessarie che sussisterebbero tra riforma in senso federale dello stato e assetti istituzionali o elettorali. Oltretutto, questo è un fatto positivo perché facilita la comparazione. I sistemi federali (o regionali) si sviluppano con un'eccezionale capacità di far tesoro delle esperienze degli altri sistemi federali (o regionali): spesso l'evoluzione di un sistema federale nella prassi o nella giurisprudenza viene "trascritta" in testo normativo in altro sistema. I tre sistemi federali di lingua tedesca si sono evoluti "copiando" a turno l'uno dall'altro; le esperienze regionali in Italia, che avevano avuto come unico possibile precedente storico la sfortunata Costituzione spagnola del 1931, sono state attentamente studiate per la Costituzione spagnola del 1978; ed ora, le esperienze costituzionali spagnole sono (assieme all'esperienza federale soprattutto tedesca) uno dei punti di riferimento indispensabili del dibattito italiano attorno alla riforma costituzionale. Riforma che, proprio per quanto riguarda l'assetto dei poteri locali, si fa assai urgente, perché, se c'è un dato su cui tutte le opinioni concordano, quel dato è proprio il fallimento dell'istituto regionale.
3. Chi ha ucciso le regioni?
Le regioni sono nate molto gracili; ma la burocrazia, con la complicità del sistema politico, le ha lentamente e inesorabilmente soffocate. Questa potrebbe essere la trama della crime story che si sta per raccontare, la triste storia delle regioni italiane.
Esse sono il frutto originale della fantasia del nostro costituente. Il quale, non potendo (per l'assenza delle premesse storiche) né volendo (per la forte esigenza di mantenere l'unità nazionale) optare per un sistema federale, scelse una strada intermedia tra quel sistema e la tradizione accentrata che aveva caratterizzato lo stato italiano sin dalla sua formazione. Si trattava di una strada inesplorata, perché in Spagna la guerra civile aveva impedito un effettivo funzionamento del sistema regionale. Ma, in fondo, non erano le condizioni del suo funzionamento ad interessare il nostro costituente, che al decentramento regionale guardò essenzialmente per vederci uno strumento di frantumazione del potere, una linea di divisione territoriale che tagliava ortogonalmente le linee orizzontali tracciate dalla teoria classica della separazione dei poteri. Il "velo d'ignoranza", che impediva allora alle forze politiche di prevedere chi per primo avrebbe occupato i centri di potere che la costituzione andava disegnando, persuase tutti - comprese le sinistre, inizialmente assai preoccupate per il pericolo che le regioni finissero con istituzionalizzare le vandee della periferia italiana - ad introdurre contropoteri territoriali e a fissare essenzialmente le difese della loro autonomia.
Date le premesse, si capisce bene perché il costituente ebbe attenzione esclusivamente per gli aspetti, per così dire, "negativi" del rapporto tra stato e regioni, per la divisione delle loro competenze, anziché per i meccanismi del loro coordinamento. In ciò essi seguivano la più gloriosa tradizione dei sistemi federali, ignorando però le vicende che, proprio in quegli anni, stavano segnando un netto cambiamento nella storia delle relazioni federali, a partire dalla stessa culla in cui quella storia iniziò, gli Stati uniti.
Il federalismo americano - come quello svizzero, come il regionalismo dei nostri costituenti - era, in origine, di tipo dualistico, tutto proteso cioè alla ricerca della divisione del potere. Lo schema dualistico è strumentale ad uno stato minimo, ad una netta separazione della sfera pubblica e della società civile: da un lato, il divieto di ostacolare la circolazione di persone merci e capitali, e le regole delle concorrenza imposta dal mercato, limitano le possibilità d'intervento da parte delle singole autorità locali, mentre la enumerazione costituzionale delle competenze limita la capacità d'intervento dello stato centrale[3].
Se quella versione del federalismo era legata ad una visione liberale dello stato e dell'economia, di questa ha seguito la parabola discendente. L'imporsi dei grandi interventi di politica economica e sociale (la ricostruzione postbellica, la programmazione economica, la politica previdenziale, l'occupazione, la riconversione industriale, la politica dell'ambiente, ecc.) spacca le premesse di fondo del federalismo dualista e spinge verso decisioni coordinate. La tendenza è forte, e gioca tutta a favore del centro. Ciò è avvenuto ovunque, lanciando una sfida al tutte strutture del decentramento. Ma in alcuni Paesi la struttura federale è sopravvissuta, trasformandosi; la risposta istituzionale alle esigenze dello stato sociale è stata il "federalismo cooperativo"[4]. In esso la divisione delle competenze ha perso tutto o quasi il suo significato di regola fondamentale dell'organizzazione dei rapporti tra centro e periferia, ed è stata superata dal principio della collaborazione e del coordinamento dei diversi centri di decisione.
4. Le colpe della Costituzione e le colpe del sistema politico
La Costituzione italiana non dice una parola sui metodi della collaborazione e del coordinamento. Si preoccupa solo di dividere le attribuzioni: per cui la sua capacità di essere la regola effettiva dei rapporti tra centro e periferia scema con la stessa velocità con cui si affermano le esigenze del federalismo cooperativo.
Dove stanno scritte le nuove regole? Dappertutto, meno che in Costituzione. Le nuove regole vengono scritte dalle leggi dello stato e dalla Corte costituzionale, invocata dalle regioni, arroccate sulla linea antistorica di difesa della separazione, per giudicare la legittimità di esse. Ma la legittimità rispetto a che cosa: non certo rispetto ad una Costituzione che ha del tutto ignorato il problema. Quindi, le nuove regole si sono sviluppate fuori da un contesto preciso di regole costituzionali, seguendo e inseguendo esigenze e considerazioni di opportunità. Quanto è opportuno mantenere certe competenze in capo alle regioni? Per rispondere ragionevolmente a questa domanda non serve guardare alla Costituzione, ma bisogna interrogarsi su che cosa di fatto siano le regioni.
Insomma, la garanzia degli interessi regionali, non potendosi agganciare ad una norma superiore, è rimasta affidata soltanto alla capacità di contrattazione delle regioni stesse. E' quindi inevitabile che il discorso giuridico-formale sulle competenze delle regioni si sia contaminato con considerazione di natura schiettamente politologica sulla forza contrattuale delle regioni e sulla loro autonomia politica: sulla credibilità della regione come ente di governo e dei suoi dirigenti come classe politica adeguata ai compiti. Il fatto determinante però, si noti, è che queste valutazioni non potevano condursi caso per caso, distinguendo le sorti delle regioni più "mature" da quelle meno affidabili: la possibilità di una considerazione differenziata di esse, ovvia sotto il profilo dell'analisi politologica, non si sarebbe potuta tradurre in concrete soluzioni istituzionali, perché lo impedisce uno dei princìpi-cardine del quadro costituzionale dell'autonomia regionale, cioè la assoluta eguaglianza giuridica delle regioni tra loro per tutto quanto riguarda l'assetto delle loro attribuzioni, salva ovviamente la "specialità" eventuale del loro Statuto.
Si è innescato così un classico circolo vizioso, per cui l'inaffidabilità politica delle regioni, nel loro complesso, ha legittimato l'estensione del "protettorato" statale su di esse; ma l'estensione del "protettorato" ha contribuito a mantenere modesto il senso politico dell'istituto regionale. Sicché non c'è da stupirsi che non si sia sviluppata una classe politica regionale. Che gli stessi partiti (alla pari di tutte le altre organizzazioni di interessi) non si siano dotati di una struttura regionale concepita davvero come un livello superiore e dirigente rispetto al tradizionale livello comunale o provinciale. Che perciò le scelte politiche fondamentali (inclusa la costituzione delle maggioranze di governo) siano state tutte sistematicamente avvocate dalle segreterie nazionali. Che ogni conflitto significativo tra interessi organizzati abbia sistematicamente cercato una composizione nelle sedi istituzionali nazionali, con la conseguenza che, raggiunta la faticosa mediazione, questa avrà la "veste" di norma statale, che dovrà essere rispettata dal legislatore locale, per evitare che il conflitto si riapra a livello periferico o che si impongano, come si suolo dire, soluzioni "a pelle di leopardo". Che le regioni non abbiano sviluppato una propria classe politica, perché nella carriera politica le cariche regionali non sono un obiettivo finale, ma una tappa di un unico cursus honorum, nel quale il sindaco del capoluogo conta di più dell'assessore regionale, e per il presidente della giunta regionale è del tutto concepibile abbandonare la sua carica per il seggio parlamentare, sperando di raggiungere un sottosegretariato (entrando in quella "stanza dei bottoni" da cui l'autonomia regionale riceve di continuo limiti e condizionamenti); la stessa regione è spesso scavalcata come livello di intermediazione con lo Stato, poiché sul suo territorio subisce la concorrenza del deputato locale, più avanti in grado nel cursus honorum del partito. E, d'altra parte, si può lasciare a regioni così deboli il governo della salute, dell'ambiente, delle risorse culturali o di quelle finanziarie, quando molte di esse non sono niente di più che un'espressione geografica?
5. Imparare dagli altri e dai propri errori
Tuttavia - lo dicevo poc'anzi - nessuna Costituzione era così lungimirante da prevedere il superamento del federalismo dualista: eppure in molti paesi federali i poteri decentrati non hanno subito il fallimento che ormai le regioni italiane dichiarano ufficialmente in tutti i loro documenti. Capirne i motivi è fondamentale per incominciare a guardare alle soluzioni.
Il segreto è presto svelato. I sistemi federali in cui gli interessi degli stati-membri erano meglio rappresentati in Parlamento hanno potuto evolvere con minore conflittualità e maggiore equilibrio tra centro e periferia. Lo stesso inserimento in Costituzione dei meccanismi di cooperazione e l'adeguamento degli elenchi costituzionali delle materie di competenza centrale sono stati resi possibili esclusivamente dall'accordo degli enti federati, espresso tramite la loro rappresentanza parlamentare. La presenza dei Länder, Cantoni ecc. nel Parlamento ha perciò garantito (a) il loro assenso all'emendamento costituzionale e (b) la loro presenza nei procedimenti decisionali attraverso i quali le nuove competenze assegnate sarebbero state esercitate a livello centrale; in prospettiva, quindi, ha assicurato anche (c) il bilanciamento della "centralizzazione oggettiva" delle competenze con un incremento di importanza della "camera federale".
Come si vede, la "federalizzazione" del Parlamento rende meno drammatico il problema di adattare la ripartizione costituzionale delle competenze all'evoluzione storica. Ma - va aggiunto - la presenza delle regioni o degli stati-membri nel Parlamento nazionale rende meno drammatico il problema stesso della ripartizione costituzionale delle funzioni. Laddove, come in tutte le esperienze federali e regionali europee (e non solo europee), il compito di tracciare la linea di ripartizione delle competenze sia per ampi tratti affidato alla legge ordinaria dello stato centrale (la legge cornice, la legge quadro, la legge organica, la legge di riforma economico-sociale, la legge di indirizzo o di programmazione ecc.) o a concetti generali non definibili a priori, ma che devono essere "riempiti" dalla legislazione statale ("principio", poteri "impliciti", interesse nazionale, "necessità" di una regolazione federale, leale cooperazione ecc.), nessuna stabilità del quadro costituzionale può essere assicurata se non introducendo a pieno titolo gli stati-membri o le regioni nella sede, il Parlamento, in cui si producono tali decisioni. Le incertezze che minano tutti i tentativi di pre-definire una volta per tutte la ripartizione delle competenze si rimediano soltanto attraverso lo strumento dinamico della co-decisione: sono incertezze inevitabili, perché quelle definizioni rimandano tutte a decisioni squisitamente politiche.
6. Un banco di prova: la "sussidiarietà"
Da quando lo ha fatto proprio il Trattato di Maastricht[5], in Italia la parola magica che sembra poter risolvere il problema delle regioni e compendiare le prospettive del federalismo è: sussidiarietà. Non mi importa ricordare le origini di questo principio, che appaiono affondare nel solidarismo cattolico, ma solo valutarne il significato come regola di distribuzione dei compiti tra centro e periferia. Essa è affermata in Germania, all'interno di un contesto federale efficiente; è riaffermata come principio cardine dell'Unione europea, intesa lì come baluardo contro le spinte centralistiche degli organi della Comunità.
In contesti di tipo federale, l'appello al principio di sussidiarietà richiama un meccanismo di ripartizione dei compiti tra centro e periferia fortemente elastico e antagonista rispetto a rigide (e indifendibili) ripartizioni per materie. E' la ricerca del livello di governo più adeguato, più efficiente rispetto agli obiettivi, ricerca ispirata ad un' idea diametralmente opposta a quella del catalogo delle "materie" assegnate separatamente ai diversi livelli di governo, delle rigide (e indifendibili) gabbie della separazione delle competenze. Proprio perché è rivolta a rendere elastica e mobile la linea di ripartizione delle funzioni tra enti, spiantando i tracciati predefiniti e le relative protezioni, l'idea di sussidiarietà ha come suo "carattere ineliminabile" una strutturale ambivalenza[6], perché può valere sia nel senso di un'espansione delle attribuzioni dell'ente maggiore che nel senso dell'espansione delle funzioni dell'ente minore. In questi termini, la sussidiarietà non si presenta come un criterio di attribuzione delle competenze, ma, anzi, come la negazione della possibilità stessa di predefinire criteri formali di attribuzione, poiché essa rinvia ad un giudizio di opportunità[7] che non può che svolgersi caso per caso e in relazione ad un complesso di variabili destinate a mutare nel tempo.
La sussidiarietà non esprime un'idea nuova. Essa riassume in una parola l'assetto delle relazioni centro-periferia tipiche del "federalismo cooperativo": in Italia, essa si è chiamata "variabile livello degli interessi"; in Spagna, "interesse generale sovracomunitario", e così via. Eppure, quando si chiamavano così, non piacevano affatto alle regioni e ai loro avvocati. Perché cambiando nome dovrebbe cambiare la sostanza?
Non è così, infatti. La sussidiarietà è un criterio che rinvia necessariamente a valutazioni condotte in termini di efficienza dell'intervento, che a loro volta rinviano a valori e a obiettivi politici (cose del tutto diverse essendo, per esempio, l'efficienza rispetto alla liberalizzazione del mercato, rispetto alla garanzia di livelli accettabili di prestazione dei servizi, rispetto all'economicità di gestione del servizio ecc)[8]. Introdurre criteri di ripartizione delle competenze basati su concetti esplicitamente elastici e valutativi, anziché su criteri apparentemente giuridici come quelli fissati dalle "vecchie" costituzioni "dualistiche" (di cui un buon esempio è dato dall'art. 117 dell'attuale Costituzione italiana), serve proprio a chiarire definitivamente che della loro determinazione si deve dare carico l'apparato politico. Si tratta di decretare la rinuncia, anche formale, a regole giuridiche, tassative, preventive, circa l'attribuzione di questa o quella competenza, per sostituirle con valutazioni di opportunità da svolgersi di volta in volta.
Ne discende che anche la garanzia dei ruoli rispettivi del centro e della periferia cambia radicalmente, se alla ripartizione preventiva delle attribuzioni si sostituisce la sussidiarietà; perché la garanzia non starà più nella vigilanza e protezione dei propri confini, svolta secondo le tecniche della difesa giudiziaria. Non essendo questione di diritto, non è questione per i giudici. Lo testimonia l' atteggiamento della Corte costituzionale federale tedesca che, pur in presenza di riferimenti costituzionali espliciti (§ 72.2) e impliciti (§ 28.2) alla sussidiarietà come regola dei rapporti tra Bund e Länder, e tra questi e gli enti locali minori, si è manifestata contraria a giudicare in una materia che essa fa rientrare nel campo delle valutazioni politiche[9]; ma lo testimonia non di meno l'atteggiamento della nostra Corte costituzionale, sempre così in difficoltà quando si tratta di giudicare del "livello degli interessi".
In altri termini, la sussidiarietà promette di operare più come principio politico, programma per il legislatore futuro, invitato a allocare verso il basso l'esercizio delle funzioni pubbliche, che come principio giuridico, criterio "giustiziabile" di ripartizione delle funzioni. Ma ciò non può che significare che le garanzie del rispetto del principio debbano essere essenzialmente politiche, poiché al giudice non residua che un intervento estremo, diretto a colpire solo i casi più macroscopici di "irragionevole" allocazione delle funzioni. L'esperienza tedesca ci indica, ancora una volta, quali possono essere le garanzie politiche e come esse possano funzionare da valido meccanismo equilibratore, capace cioè di evitare che attraverso il principio efficientistico della sussidiarietà si compia un sistematico travaso di funzioni verso il centro.
La soluzione sta tutta in un procedimento di codecisione. Come bene afferma un recente documento del CNR, "il principio di sussidiarietà trova attuazione attraverso la predisposizione di adeguati meccanismi procedurali e il procedimento, allora, rappresenta il metodo per applicare, con le adeguate garanzie, il principio stesso"[10].
A
livello statale, ciò significa prendere in considerazione anzitutto il problema
della "regionalizzazione" del Senato, problema che, infatti, è oggi
al primo posto in tutte le proposte serie di revisione dell'assetto regionale
italiano. Le soluzioni astrattamente possibili sono diverse (sono esaminate
nella relazione all'articolato di questo progetto), ma non tutte promettono di
essere efficienti rispetto all'obiettivo di ritrovare nel meccanismo di
codecisione le garanzie di stabilizzazione dei rapporti tra centro e periferia.
La rilevanza dell'argomento fa sì che assai spesso i discorsi che lo affrontano
siano dominati dai riflessi politici della questione, lasciando nell'ombra gli
aspetti tecnici, cioè le implicazioni che le diverse soluzioni possono avere
per il modo di funzionare dell'organo e per la sua capacità di rispondere alle
esigenze di un assetto stabile dei poteri. Sinché il dibattito sarà dominato da
rutilanti prese di posizione su vuote etichette (gli "ismi" che
rievocano scolastiche classificazioni di massima dei regimi politici o delle
forme di governo), nulla lascia presagire che questo primo passo - delicato e
decisivo - verso il riassetto delle regioni venga compiuto, e venga compiuto
con la necessaria consapevolezza.
7. "Neo-regionalismo, neo-municipalismo e sussidiarietà
Ma
vi è un altro versante della sussidiarietà, quello dei rapporti tra regioni ed
enti locali.
Benché molte forze politiche fingano di non accorgersene, federalismo o neo-regionalismo, da un lato, e neo-municipalismo, dall'altro, non sono movimenti compatibili. Come ci insegna ancora la comparazione, i sistemi federali sono tanti, diversi per forma di governo, sistema elettorale, organizzazione politica ecc.: ma in nessuno si è affermato un assetto a tre punte, basato sulla pari-ordinazione tra federazione, entità federate e enti locali. Nessuno può pensare che questo prodigio si compia in Italia. O il sistema abbraccia una strada o l'altra: o si costruisce uno stato centrale molto forte, che dialoga direttamente con il sistema locale senza una reale intermediazione politica delle regioni, oppure il sistema si regge sulla dialettica tra governo federale ed enti federati, senza che in essa vi sia spazio per l'interposizione dei governi locali.
La scelta tra le due vie è drastica e ricca di conseguenze interessanti, purché vengano percorse con coerenza. Gli ibridi, in questo caso, saranno certamente sterili.
Un sistema basato sui municipi acquista coerenza nella costruzione al centro di un'amministrazione ministeriale vasta ed efficiente, capace non soltanto di svolgere le funzioni di indirizzo e di coordinamento, indispensabili data la polverizzazione dell'amministrazione locale, ma anche di gestire strutture amministrative e servizi decentrati sul territorio, ad un livello sovracomunale. In questo schema, le Regioni non possono pretendere di fare più di quanto fanno le regioni francesi. In compenso, la rappresentanza politica dei Comuni, e di quelli di maggior peso soprattutto, non trova difficoltà ad emergere in un Parlamento eletto con un sistema di tipo maggioritario, che tende ad esaltare il localismo (la compatibilità tra la carica di sindaco e quella di parlamentare rafforzerebbe dunque la coerenza del disegno). Se la rappresentanza parlamentare è dominata dal localismo, l'efficienza del sistema centrale si ricupera soltanto attraverso l'elezione diretta del capo dell'esecutivo, come prescrive ancora il modello francese. La dialettica tra centro e periferia sfrutta dunque i canali della dialettica tra governo e parlamento e ciò consente stabilità e funzionalità del sistema.
Un sistema di tipo federale si basa invece su una millimetrica dosatura della distribuzione dei poteri tra federazione e federati, che a sua volta si regge su un'attenta progettazione dei congegni di partecipazione e di controllo da parte degli enti federati nei confronti degli organi e dei processi decisionali della federazione. La forza del modello tedesco, per esempio, sta proprio nella coerenza di questa costruzione. Il suo perno è il Bundesrat, composto da membri degli esecutivi dei Länder: la partecipazione del Bundesrat a tutte le decisioni che incidono sul riparto di competenze (comprese quelle che si assumono a livello europeo), dà senso a quel blanket che è la sussidiarietà, perché impedisce la progressiva avulsione delle competenze dei Länder in nome, come direbbe la nostra Corte costituzionale, delle "prevalenti esigenze di carattere unitario". Anche nel modello tedesco la dialettica centro - periferia doppia le linee classiche della separazione dei poteri, ma per ragioni del tutto diverse: la presenza dei Länder, in quanto enti e non come collettività, nel Parlamento federale fa di questo organo e dei suoi procedimenti la culla della collaborazione tra centro e periferia, spostando verso la federazione il baricentro della legislazione. Ma se il potere legislativo è attratto prevalentemente verso il livello federale, quello esecutivo, per contro, defluisce in larga parte verso la periferia. Entrambi i movimenti sono causati dall'esistenza del Bundesrat e della sua capacità di incidere sui procedimenti decisionali. Ma perché il Bundesrat abbia tale capacità, è necessario che esso abbia la rappresentanza del sistema dell'amministrazione locale nel suo complesso.
Guardando dal punto di vista dei Comuni, non si può dire in astratto quale dei due modelli meglio possa garantire i poteri degli enti locali. La diffidenza che i Comuni italiani manifestano nei confronti delle Regioni è più che giustificata per l'esperienza concreta passata, ma non lo è affatto se si ragiona di modelli astratti. La costruzione di un sistema federale non si ferma affatto alla riprogettazione degli apparati centrali: se è necessario che il centro abbia interlocutori forti (c'è chi dubita che tali possano essere le Regioni, nella dimensione attuale: si può immaginare che lo siano i Comuni?), ciò non significa affatto che il sistema amministrativo a scala regionale non debba essere costruito con la stessa attenzione e le stesse efficienti garanzie della sussidiarietà. L'infausta esperienza delle Regioni italiane (la costruzione di grossi apparati burocratici regionali, lo scarso e sporadico uso delle deleghe, l'inattuazione della legge 142 ecc.) è da imputare all'eccessiva debolezza, non alla eccessiva forza dell'ente regionale. E la causa della strutturale debolezza delle Regioni ha la stessa origine dei disagi che oggi denunciano i Sindaci: essa risiede infatti nelle burocrazie ministeriali (di quei ministeri che neppure i referendum che li hanno formalmente "abrogati" sono riusciti realmente a scalfire), nella dissennata legislazione nazionale, permeabile a qualsiasi interesse ma (o forse: e perciò) del tutto insensibile alle esigenze dell'autonomia, nel sistema della finanza.
Insomma,
neo-municipalismo e neo-regionalismo vincono insieme o perdono insieme.
Sicuramente perdente è l'idea di una pari rappresentazione dei due livelli di
governo al centro, sia che si manifesti (in una prospettiva, come si dice,
"a costituzione invariata") nella richiesta che sia la legge dello
Stato a fissare direttamente le attribuzioni degli enti locali, sia che si
concreti (nella prospettiva di riformare la costituzione) nella proposta di
istituire una Camera, non delle Regioni, ma delle autonomie - una specie di
CNEL del governo locale, votato a sicura paralisi, come mostrano (oltre alla
storia personale del CNEL) le esperienze del Senato, la camera di
rappresentanza territoriale, in Spagna (che infatti si vorrebbe ora convertite
al modello Bundesrat) e (più recenti.
ma già significative) del Comitato delle regioni in Europa. Perché, in entrambi
i casi, sarebbero gli apparati centrali, i veri responsabili della attuale
condizione di Regioni ed enti locali, a tenere il banco.
8. Opzioni e
compatibilità
Chi si proponga di disegnare il nuovo assetto dei poteri regionali in Italia può muoversi, dunque, con una notevole libertà di opzioni e un buon bagagliaio di esperienze, autoctone e di importazione, a cui attingere. Può dedicarsi a rimodellare il sistema delle relazioni centro-periferia senza troppo occuparsi di che cosa accada a livello di governo centrale, perché, come si è visto, l'assetto centralistico o federale di un paese non è in stretta e necessaria relazione con l'assetto costituzionale e politico dell'apparato centrale. Non è in questa direzione, insomma, che vanno cercate le premesse del proprio lavoro. Benché l'attuale dibattito politico italiano sembri smentirlo, la questione del regionalismo o del federalismo, cioè della forma di stato può procedere, almeno sino ad un certo punto, indipendentemente dalla questione della forma di governo centrale e del sistema elettorale.
Ma vi è di più. La questione della forma di governo è resa estremamente complicata dalla evidente sovrapposizione tra il discorso di riforma costituzionale e la gestione della quotidianità politica, poiché di ogni congegno istituzionale che venga proposto si possono subito calcolare le conseguenze in termini di spostamento degli attuali equilibri politici. Oltretutto, al contrario di quel che potrebbe sembrare, forse non è neppure una questione urgente. Non voglio certo suggerire che nulla ci sia da cambiare nell'assetto attuale della forma di governo italiana: tutt'altro. Il fatto è, però, che le pecche del nostro sistema di governo non dipendono che in minima parte da quello che la costituzione prescrive, che è, fortunatamente, molto poco: il problema è come i congegni costituzionali sono fatti funzionare dal sistema politico, e su questo la riforma della costituzione incide assai poco. Per esempio, e per incominciare dalla madre di tutti i problemi, l'acquisita stabilità del sistema politico e la riduzione del suo frazionamento in decine di partiti si tradurrebbero immediatamente in stabilità del governo, senza bisogno di spostare una virgola del testo costituzionale; ma nessun aggiustamento del testo costituzionale, neppure il più radicale, potrebbe ridurre di qualcosa l'instabilità o il frazionamento del sistema politico. Ovviamente ciò non significa che non vi possano essere meccanismi costituzionali che favoriscono un processo di stabilizzazione dell'assetto politico e altri che non lo favoriscono: ma anche se sulla carta lo possono favorire, nei fatti non bastano di per sé a determinarlo.
La riforma dell'assetto costituzionale dei poteri locali è invece urgente, "neutra" e indispensabile. Urgente, perché l'assetto attuale si è stabilizzato al di fuori di ogni disciplina costituzionale e non è efficiente: ma di ciò ho già detto. E' "neutra", perché non minaccia di incidere direttamente sul gioco politico, se non nel senso di alleggerirlo, di rendere meno drammatiche le scelte compiute al centro. D'altra parte, la riforma delle regioni non può fare molto percorso senza modificare il testo della Costituzione, e non solo del Titolo V, mentre la modifica costituzionale può essere causa efficiente e sufficiente della modifica dell'assetto reale.
Per di più, al contrario che per la riforma del governo centrale, le opzioni di fondo per la riforma delle regioni non sono molte, e preciso è il quadro delle compatibilità - incompatibilità che esse innescano. L'opzione per il federalismo cooperativo appare indubbiamente come quella che oggi gode di maggior credito. Ma se è il federalismo cooperativo che si vuole, le regole tecniche che lo rendono possibile sono abbastanza chiare e certe. A queste regole abbiamo cercato di dare espressione in questo lavoro.
ROBERTO BIN
[1] "Gli
schemi federali, parlando in termini generali, cercano di combinare una certa misura
di unità con una certa misura di diversità" (C.J. Friedrich, Governo costituzionale e democrazia,
tr.it., Vicenza s.d., 275)
[4] In esso
"lo Stato centrale e gli Stati membri lavorano di massima insieme in molti campi, al primo spetta
in genere di delineare tutte le normative, vuoi per principi da sviluppare,
vuoi anche, se necessario, con regole di dettaglio, le quali appaiono opportune
al governo dell'economia, alla ridistribuzione perequativa della ricchezza,
all'attuazione dei diritti sociali; ai secondi toccando di operare o per lo
svolgimento e per la realizzazione delle direttive impartite dal primo o per
una più o meno autonoma regolamentazione dei campi o dei settori di campo che
il primo lasciasse, per calcolo di opportunità, temporaneamente non occupati
dall'intervento proprio. Nel tipo cooperativo, il riparto delle competenze è,
di massima, fondato su un principio di concorrenza": BOGNETTI, op.cit., 1104-1105.
[10] CNR-IDG, Per un nuovo regionalismo, 1994, 32.