Il principio di leale cooperazione nei rapporti tra
poteri
Roberto Bin
1. I princìpi e la loro
costituzionalizzazione
Quando il legislatore italiano sapeva ancora come vanno scritte le disposizioni costituzionali, non c’era rischio che cedesse alla tentazione di immettervi riferimenti ai grandi princìpi elaborati dalla dottrina. Magari, essendo un organo politico, si mostrava indulgente con le norme programmatiche, frammento di un manifesto politico inserito nel contesto costituzionale, ma per il resto c’era grande sobrietà. Così la nostra costituzione può vantarsi di non contenere riferimenti allo Stato di diritto, al principio di legalità, al principio di divisione dei poteri e, naturalmente, al principio di leale cooperazione: per non dire della sussidiarietà e dei suoi assi cartesiani.
Questi princìpi, come è giusto che sia, non sono proclamati, esibiti come medaglie sul petto, ma sono tradotti in istituti giuridici e in regole specifiche. Ed è proprio risalendo da questa traduzione che gli interpreti ricostruiscono istituti e regole e li riassumono sotto una comune etichetta, il principio. Potrei proporre un piccolo teorema: il legislatore ricorre all’enunciazione esplicita di un principio solo quando non sa tradurlo in norme operative. Si potrebbe aggiungere un corollario: il principio, quando è solo enunciato, sta in potenziale e necessario conflitto con le altre norme del medesimo testo, fatte per “implementare” non quel principio, ma gli altri princìpi, già consolidati. Si pensi, appunto, alla sussidiarietà e al suo inserimento nei recenti testi di riforma costituzionale.
Benché la Costituzione non vi accenni, è difficile credere che il nostro ordinamento non sia ispirato al principio di legalità o a quello di divisione dei poteri; anche se si può ovviamente discutere a lungo sulla misura in cui essi siano stati concretizzati dal complesso delle disposizioni costituzionali e dalle leggi che le hanno attuate. Lo stesso vale, a me sembra, per il principio di cooperazione interorganica.
Noi, a posteriori, possiamo chiamare ‘principio di leale cooperazione’ una norma generalissima che riassume le rationes di un esteso numero di disposizioni costituzionali e di leggi ordinarie. Non voglio iniziare il catalogo dall’istituto della fiducia parlamentare, perché esso è un tratto distintivo dell’intero sistema di governo parlamentare che non può essere spiegato riducendolo al solo principio di collaborazione. Ma penso, per esempio, al doppio legame che la controfirma ministeriale, da un lato, e il potere di emanazione (e di non emanazione) degli atti governativi, dall’altro, creano tra Presidente della Repubblica e Governo: quel rapporto di collaborazione costante e informale di cui scriveva Luigi Einaudi. Un’altra zona tipica di collaborazione, direi, necessaria sono i rapporti tra le due Camere[1] Ma anche la promulgazione della legge è una proiezione della necessaria collaborazione tra il Presidente della Repubblica, le Camere e, in fondo, il Governo, chiamato alla controfirma. Proviamo a pensare cosa accadrebbe se il Governo, non volendo la legge, rifiutasse la controfirma sul decreto di promulgazione e se il Presidente, non volendo rinviare la legge, rifiutasse di firmare il messaggio. Oppure cosa accadrebbe se il Governo negasse la controfirma al decreto di scioglimento delle Camere che il Presidente ha firmato dopo il colloquio con i Presidenti delle stesse. Oppure se il Parlamento (o le supreme magistrature o il Presidente della Repubblica) lasciasse morire la Corte costituzionale, non nominandone i membri di propria competenza.
Si dirà: non c’è bisogno di tirare in ballo il principio di cooperazione per spiegare queste ipotesi; si tratta di casi emblematici di conflitti tra poteri dello Stato, della sottospecie dei conflitti “per interferenza” o “menomazione”. Proprio qui sta il punto.
2. La leale cooperazione come
“rovescio” della separazione dei poteri
(I) tre poteri dovrebbero rimanere
in stato di riposo. Ma siccome, per il necessario movimento delle cose, sono
costretti ad andare avanti, saranno costretti ad andare avanti di concerto[2]
Non occorre scomodare i padri del pensiero politico per vedere se già nella teoria della separazione dei poteri c’era, almeno in nuce, il principio di leale cooperazione. I classici, per una volta, non hanno proprio nulla da dirci. Perché il principio di collaborazione esprime l’ovvia esigenza che i meccanismi della forma di governo funzionino con accettabile efficienza, esigenza che, sia o meno contemplata dalla teoria, s'impone con tutta evidenza nella pratica. Qualsiasi sia la forma di governo.
Non solo i sistemi parlamentari, basati su un rapporto stabile di collaborazione tra Governo e Parlamento, ma anche sistemi d’ispirazione “dualista”, imperniati su una più netta separazione dei poteri, non possono non essere temperati dal principio di collaborazione. Nel sistema statunitense non mancano infatti situazioni che impongono la collaborazione tra i poteri. Si pensi all’“advice and consent” del Senato cui sono sottoposte centinaia di nomine presidenziali. Non a caso è uno dei temi più duramente dibattuti dalla letteratura americana, e non v’è posizione così purista nella difesa del principio di separazione dei poteri da negare l’esigenza che il sistema non si inceppi. Oppure s’immagini che il Presidente opponga sistematicamente il veto alle leggi approvate dal Congresso, senza neppure specificare i motivi, in modo che sia impossibile per il Congresso adeguare la legge. Strauss e Sunstein[3] indicano ipotesi di questo tipo per sottolineare il “dovere”[4] delle istituzioni “to make the Constitution a workable scheme”; del resto è normale rileggere il sistema costituzionale “dualista” come un sistema in cui the institutional interplay tra il potere legislativo e quello esecutivo domina il sistema di checks and balances[5] (forma attenuata della pura e mitologica divisione dei poteri). L'institutional interdependence[6] sembra riassumere meglio della functional independence l'idea americana di proteggere la libertà attraverso la frammentazione del potere[7].
Anche nell’unico sistema presidenziale e dualista che abbia alle spalle una vita costituzionale abbastanza stabile da costituire un paragone significativo, anche lì dunque non è concepibile che gli organi costituzionali agiscano senza piegarsi al dovere di collaborare[8]. Per quanto la macchina e i suoi ingranaggi possano essere diversamente progettati, non funzionano mai senza lubrificante. Non vi sono sistemi di governo che si basano sulla collaborazione tra gli organi costituzionali e sistemi che invece la ignorano. Solo i “modellini” delle forme di governo – quelli per cui esiste una “forma di governo presidenziale” che astrae dal sistema statunitense, o una “forma di governo semipresidenziale” diversa da quella della Va Repubblica – solo essi, impegnati a disegnare gli ingranaggi, ignorano la collaborazione interorganica, il grasso che quegli ingranaggi fa scorrere.
3. La leale cooperazione nella
giurisprudenza costituzionale
E allora, la Corte costituzionale italiana ha “inventato” o “scoperto” il principio di collaborazione interorganica? Ne ha inventato solo il nome.
Come è noto, la Corte parla di “rapporto di collaborazione” tra diversi poteri dello Stato già nelle sent. 168/1963. Ne parla in termini “difensivi”, essendo investita di una questione di legittimità costituzionale: la divisione dei poteri (nel caso la questione riguardava i rapporti tra C.S.M. e Ministro guardasigilli) “non esclude… che, fra i due organi, nel rispetto delle competenze a ciascuno attribuite, possa sussistere un rapporto di collaborazione”[9]. Il che significa che la legge ordinaria, prevedendo prassi di collaborazione tra poteri diversi, laddove gli interessi che essi hanno rispettivamente in cura parzialmente sormontino, non è illegittima sin quando la “collaborazione” non intacchi l’autonomia degli organi in questione.
È solo con il conflitto di attribuzioni che la possibilità di una collaborazione tra poteri diversi diventa necessità, e come tale regola dei rapporti reciproci. Il passo chiave, ai nostri fini, si trova nella ben nota sent. 379/1992, che insiste ancora sul concerto tra C.S.M. e Ministro guardasigilli:
Sotto il profilo della leale cooperazione e, in particolare, sotto quello della correttezza nei rapporti reciproci, l'attività di concertazione deve svolgersi secondo comportamenti coerenti e non contraddittori…Le parti, inoltre, non possono dar luogo ad atteggiamenti dilatori, pretestuosi, ambigui, incongrui o insufficientemente motivati, di modo che il confronto possa avvenire su basi di correttezza e di apertura alle altrui posizioni[10].
Questo passo rappresenta, a mio avviso, una felice enunciazione del "principio di leale cooperazione" ed anche la sua specificazione in una serie di regole specifiche, fraseggiate come divieti. E proprio coniugando il principio, la Corte ne mostra la natura profonda e quasi, in un certo senso, pre-giuridica. Il principio dice solo che i rapporti tra gli organi devono ispirarsi a “correttezza e lealtà, nel senso dell’effettivo rispetto delle attribuzioni a ciascuno spettanti”[11]. Come dire che il principio di leale collaborazione non è altro che lo stesso principio di separazione dei poteri: è la sua declinazione per i casi in cui i poteri divisi abbiano zone di contatto e interferenze reciproche. In questi casi il rispetto dell’altrui sfera di attribuzione si manifesta nel modo in cui un potere agisce nei rapporti con l’altro: e “lealtà e correttezza” sono un’endiadi che la Corte impiega per indicare la condotta doverosa e ispirata al rispetto, in quei casi, del principio di divisione dei poteri.
Come si vede, mentre il principio di separazione dei poteri acquista rilievo nei conflitti di attribuzione basati su vindicatio, l’altra sua faccia, il principio di leale cooperazione, entra in gioco nei conflitti per interferenza[12]. Infatti sono molti i ricorsi in cui è esplicito l’appello alla leale cooperazione[13]. Ma costituisce un parametro efficace, una guida utile per il giudizio?
4. La leale cooperazione e il
giudizio “caso per caso”
Né parametro né guida per il giudizio. Il principio di leale cooperazione, come altri princìpi costituzionali (quello di eguaglianza, per esempio) introduce un tipo di giudizio, che ha modalità sue proprie. Il giudizio introdotto dal principio di leale cooperazione si svolge in relazione al caso concreto, guarda al concreto comportamento delle parti nella specifica vicenda; un giudizio che “non può mai prescindere dall’esatta ricostruzione del comportamento contestato, dei suoi presupposti, delle sue conseguenze”[14]. Ciò che deve essere verificato è se le parti hanno agito con correttezza reciproca e se si è prodotto un “corretto bilanciamento tra le opposte esigenze”[15], ossia tra i compiti che i due poteri sono chiamati ad assolvere. Questo è il connotato tipico del “giudizio di leale cooperazione” che, come è evidente, deriva dalla stessa struttura del conflitto per interferenza, conflitto che ha un carattere necessariamente concreto, specie dove la Corte sia costretta a scendere all’esame del modo d’esercizio del potere[16].
Ma quando il giudice costituzionale s’impegna in un giudizio concreto, larghi settori della dottrina s’allarmano, quasi che la concretezza facesse perdere di vista il necessario parametro costituzionale e spingesse la Corte a giudicare “caso per caso”, l’orlo dell’abisso: si pensi a come viene ancora accolto il ricorso al bilanciamento degli interessi nel giudizio di legittimità. Non c’è dubbio che tra il giudizio di leale cooperazione e il giudizio di bilanciamento degli interessi ci sia un certo isomorfismo, benché il secondo debba pur sempre svilupparsi in relazione all’astratta previsione della legge impugnata mentre il primo è esplicitamente legato al caso di specie. Ma anche nel conflitto per interferenza l’astratta previsione della legge gioca un ruolo che ora conviene esaminare.
Capita con grande frequenza che la Corte, nell’affrontare il conflitto per interferenza, svolga il suo giudizio in stretta considerazione della disciplina dettata dal legislatore ordinario o persino della prassi. È un fatto ben noto[17] che può essere facilmente spiegato proprio in relazione alla concretezza del giudizio della Corte. Essa infatti giudica dell’assetto delle competenze come si è consolidato in concreto[18], perché quello è il contesto entro il quale si è compiuta la rottura denunciata. Naturalmente potrebbe esserci un contesto diverso (una diversa disciplina legislativa, per esempio), ma l’ipotesi, come è ovvio, non potrebbe entrare nel giudizio della Corte, perché si tradurrebbe in un’indebita intromissione nella funzione legislativa[19]; oppure il contesto può rivelarsi già di per sé sbilanciato, e in questo caso la Corte solleverebbe davanti a sé la questione di legittimità della legge ordinaria che lo ha previsto.
Insomma, ancora una volta il sindacato di legittimità e il conflitto di attribuzioni rivelano ampie zone di adiacenza. La sent. 403/1994[20], per esempio, è tutta giocata sull’interpretazione delle norme ordinarie che regolano i procedimenti aventi ad oggetto i c.d. “reati ministeriali”, per individuare la norma che regola in astratto i rapporti tra i soggetti in conflitto (collegio inquirente per i reati ministeriali e Camera dei deputati), valutare se essa fissi un punto di bilanciamento accettabile tra le due esigenze in conflitto e quindi risolvere il conflitto. Ma è chiaro che il conflitto viene risolto attraverso un ragionamento che ha come premessa maggiore la norma di legge ordinaria, quale astratto bilanciamento delle esigenze espresse dai due “poteri” in conflitto, e come premessa minore il comportamento del soggetto chiamato in giudizio, comportamento che deve rappresentare una “leale” applicazione della norma stessa. Anche nella recente “sentenza Previti”[21] preliminare alla risoluzione del conflitto è la ricostruzione della normativa ordinaria che disciplina l’esercizio del potere giurisdizionale, perché il compito che la Corte si prefigge è valutare se il giudice, nell’applicazione delle comuni regole processuali sugli impedimenti a comparire, abbia debitamente tenuto conto anche degli interessi delle istituzioni parlamentari, operando il “necessario bilanciamento” tra esse[22].
D’altra parte, in uno Stato di diritto, l’esercizio del potere pubblico non può essere privo di una disciplina (almeno) legislativa. A parte i rari casi in cui già la Costituzione esprime regole compiute sull’esercizio delle funzioni (per esempio, il rinvio delle leggi da parte del Presidente della Repubblica), è evidente che le modalità con cui un soggetto pubblico opera devono essere in qualche modo disciplinate, perché lo impone il principio di legalità. Anzi, conflitto di attribuzione può sorgere se e solo se l’atto o il comportamento che origina il conflitto sia esente da vizi rispetto alla disciplina legale della funzione. A ben vedere, dunque, la “leale cooperazione” è un canone che regola il modo di applicare la regola legislativa, esattamente come lo sono tante altre clausole generali disseminate nell’ordinamento, come la buona fede, la diligenza del buon padre di famiglia ecc. Essa si traduce nell’obbligo, da parte di chi esercita una funzione pubblica in base alle leggi che la regolano, di tenere presente le prerogative dell’altro “potere” con cui si trovasse occasionalmente ad interagire. Le regole che la Corte trae dal principio di leale cooperazione sono integrative delle regola fissate dal legislatore, e riguardano il modo con cui esse vanno applicate quando c’è interferenza tra poteri dello Stato. Come osservano i classici del costituzionalismo inglese, la condotta di un soggetto può essere ‘legale’ e non essere ‘costituzionale’, perché il diritto costituzionale è fatto anche di regole che non sono regole giuridiche in senso stretto, ma si pongono come “rules of constitutional morality, or constitutional practice, the customs of the constitution, the conventions of the constitution, or again constitutional understandings”[23]: a questo tipo di regole possono iscriversi probabilmente le regole che la Corte trae dal principio di leale cooperazione.
Ciò spiega perché sia assai più difficile che la Corte utilizzi il principio di leale cooperazione quando manchino regole da integrare. Mentre nei conflitti tra Stato e Regione la Corte ha sistematicamente fatto ricorso a sentenze additive con cui introdurre ex novo meccanismi procedurali di cooperazione (oltre a graduare l’intensità di quelli esistenti), altrettanto non sembra disposta a fare nei conflitti interorganici[24]. Così, per esempio, nella sent. 309/2000[25] la Corte si trova di fronte al ricorso di un giudice contro il Governo che non si era costituito in un conflitto tra Stato e Regione che aveva ad oggetto un suo provvedimento: il giudice lamenta di non essere stato neppure sentito, e quindi una violazione del principio di leale cooperazione. La Corte riconosce le ragioni del ricorrente ma, considerato che “nella configurazione attuale di tali conflitti” non è previsto alcun limite procedurale o sostanziale all’autonoma determinazione del Governo, ritiene di non poter introdurre, in via interpretativa, un complesso di regole procedurali del tutto nuovo. Manca, si potrebbe dire, il tertium comparationis.
Il fatto è che il giudizio di leale cooperazione ha forti analogie con il giudizio di ragionevolezza, di cui forse non è che una sottospecie[26]: ed è probabile che gli stilemi elaborati dalla massiccia giurisprudenza che si è formata sul primo esercitino una forte suggestione nella ricerca degli argomenti con cui strutturare il secondo[27]. Ma non mi sembra affatto sbagliato che la Corte si attenga con particolare rigore ad un atteggiamento di self restraint nel creare regole nuove, coprendo spazi normativi del tutto vuoti su cui si affacciano i “poteri dello Stato”[28] senza poter giustificare il suo operato con la rassicurante metafora delle “rime obbligate”. Certo avrebbe potuto impugnare davanti a se stessa la legge 87/1953, e dichiararne l’illegittimità “nella parte in cui” non si prevedono regole di “leale cooperazione” nei conflitti intersoggettivi ecc.[29] Ma – a parte l’impatto di una dichiarazione di illegittimità che tocca la stessa disciplina legislativa della Corte - dove avrebbe trovato le “rime” da completare per scrivere le nuove regole? Nel principio di leale cooperazione? La leale cooperazione è il grasso indispensabile a far girare gli ingranaggi: ma con il grasso non si possono costruire ingranaggi nuovi.
5. Conclusioni
Riassumendo:
a. il principio di leale cooperazione non è che il rovescio del principio di separazione dei poteri. È tanto fondato in costituzione quanto lo può essere l’esigenza che la macchina istituzionale, attentamente progettata in alcuni suoi particolari, alla fine funzioni come un complesso efficiente. E una questione di buon senso, anzitutto, percepita in qualsiasi sistema costituzionale. La Corte ne ha inventato solo il nome: ‘correttezza’, ‘rispetto reciproco’ e, guardando dall’angolatura del risultato, ‘bilanciamento tra le opposto esigenze’ esprimono altrettanto bene il concetto;
b. il principio di leale cooperazione aggiunge una postilla alla regola che disciplina l’esercizio di una pubblica funzione: il soggetto agente deve applicarla tenendo in debito conto le esigenze e le prerogative degli altri soggetti, configurabili come “poteri delle Stato”, con cui occasionalmente si trovi ad interferire, così come la condotta degli altri soggetti deve tenere in debito conto le prerogative costituzionale del soggetto agente;
c. il giudizio di leale cooperazione affonda il proprio esame sempre nel concreto, perché è necessario saggiare atteggiamenti e comportamenti reciproci delle parti in conflitto. Introduce un giudizio sul comportamento che le parti contendenti hanno di fatto reciprocamente adottato: valuta se i soggetti agenti nel caso concreto abbiano tenuto una condotta rispettosa delle istanze e prerogative proprie della parte avversa. Gli elementi comuni con il giudizio di bilanciamento degli interessi e, più in generale, con il giudizio di ragionevolezza sono del tutto evidenti. Si potrebbe dire che il giudizio di leale cooperazione è il giudizio di bilanciamento degli interessi applicato ai conflitti di attribuzione “per interferenza”;
d. la particolare delicatezza dei conflitti che vengono risolti in nome della leale cooperazione impone alla Corte di adottare una condotta più prudente di quella impiegata nei normali giudizi di ragionevolezza. Il compito della Corte è di imporre la legalità costituzionale anche ai comportamenti degli organi politici. Se la Corte impone regole che non hanno un fondamento positivo (quanto meno del tipo “rime obbligate”), avremmo che il difensore delle regole giuridiche è anche produttore delle stesse: sarebbe difendibile la sua legittimazione agli occhi del “politico”?
In conclusione, il principio di leale cooperazione si presta poco ad una ricostruzione dommatica. Vano sarebbe cercarne il fondamento costituzionale, perché esso affonda in strati più profondi dello stesso edificio costituzionale; vana sarebbe la ricerca di una definizione dei suoi contenuti che vada al di là di quell’obbligo di correttezza reciproca, quanto alle procedure, e al bilanciato assetto delle esigenze dei diversi soggetti istituzionali, quanto all’obiettivo. Come per altri “princìpi” che dominano ampi settori della giurisprudenza costituzionale – la ragionevolezza né è l’archetipo[30] – la domanda a cui rispondere non è tanto “che cos’è?” ma “a cosa serve?”. È comprensibile perciò che la riposta a tale domanda si articoli di solito in un’accurata tassonomia dei casi giurisprudenziali.
Purtroppo però l’analisi capillare delle pronunce della Corte – e ancora una volta penso alla ragionevolezza e agli studi ad essa dedicati – ha di solito un esito mortificante, perché sembra ardua la ricostruzione di modalità unitarie di giudizio, di strutture argomentative comuni munite di sufficiente solidità. Da cui la deprimente conclusione che la giurisprudenza della Corte costituzionale procede caso per caso, tra scarse continuità e vistose discontinuità, che le valutazioni di opportunità prevalgono sull’applicazione di standard di giudizio consolidati. Perciò, quasi inevitabile, riaffiora la questione della legittimazione della Corte.
Chiedersi a che cosa serva un principio come la leale cooperazione comporta però qualcosa di più dell’analisi degli usi argomentativi di tale principio nelle varie sentenze. Se è vero che princìpi di questo genere non esprimono nulla di nuovo, ma danno un nome ed un volto normativo ad esigenze che stanno nello strato più profondo delle fondamenta su cui di eleva l’edificio costituzionale, è laggiù che bisogna scendere. Per risalire con delle ipotesi che gettino luce su aspetti teorici assai più lontani: a che cosa serva la costituzione rigida, a che cosa serva la Corte costituzionale, a che cosa servano i singoli strumenti con cui essa opera.
[1] L’argomento è oggetto di approfondita analisi da parte di D. NOCILLA, Autonomia, coordinamento e leale cooperazione tra i due rami di un Parlamento bicamerale, in Riv.trim.dir.pubbl. 1998, 935 ss,
[2] MONTESQUIEU, L’esprit de lois, I, lib. XI, cap. VI (tr. it. di B. Boffito Serra, Milano 1989, 318).
[3] On Truisms and Constitutional
Obligations: A Response, 71 Tex. L. Rev. 669 ss., 671 s.
[4] Parla, per esempio, di "constitutionally
mandated institutional interplay between the branches of government"
J.M. DICKEY, Judges As Legislators?: The Propriety of Judges Drafting
Legislation, 29 McGeorge L. Rev. 111,
[5] T.O. McGARITY, Presidential
Control of Regulatory Agency Decisionmaking, 36 Am. U.L. Rev. 443
ss., 468
[6] Ne parla, in una citatissima
opinione concorrente, il giudice Jackson in Youngstown Sheet & Tube Co.
v. Sawyer, 343 U.S. 579, 635: “while the Constitution diffuses power...
it also contemplates that practice will integrate the dispersed powers into a
workable government. It enjoins upon its branches separateness but
interdependence, autonomy but reciprocity”.
[7] L.H. TRIBE, American Constitutional
Law, 2nd ed., Mineola, N.Y. 1988, 20.
[8] Ibidem, 19.
[9] Sent. 168/1963, in Giur.cost.
1963, 1644 ss., 1678.
[10] Sent. 379/1992, in Giur.cost.
1992, 2996 ss., 3015.
[11] È quanto affermato dalla sent. 110/1998 (in Giur. cost. 1998, 929 ss., 940) e ribadito dalle sent. 410/1998 e 487/2000 e dall’ord. 344/2000 a proposito del conflitto insorto tra autorità giudiziaria e il Governo per il segreto di Stato.
[12] Questa connessione è evidente alla dottrina: cfr. A. MENCARELLI, Conflitto da menomazione, bilanciamento di interessi e principio di leale cooperazione tra autorità giudiziaria e Camere in tema di insindacabilità parlamentare, in Giur.it. 1996, I, 438 ss.
[13] Si vedano, per esempio, l’ord. 131/1997 (sulla fissazione della data del referendum abrogativo), ord. 102/2000 (“caso Previti”), ord. 178/2001 (“caso Matacena”), sent. 309/2000 (mancata costituzione in giudizio del Governo in un conflitto Stato-Regione in cui era coinvolta la Procura), sent. 487/2000 (segreto di Stato).
[14] P. VERONESI, I poteri davanti alla Corte, Milano 1999, 231.
[15] Così si esprime la “sentenza Previti” (sent. 225/2001).
[16] Cfr. P. VERONESI, I poteri cit., 105 ss. e 252 s.
[17] Che ho approfondito in L’ultima fortezza, Milano 1996, 29 ss.
[18] Così S. GRASSI, Conflitti costituzionali, in Digesto disc.pubbl. III, Torino 1989, 362 ss., 384.
[19] Non mi sembra condivisibile perciò il rilievo di A. CARIOLA, A proposito della sentenza sul conflitto di attribuzione tra C.S.M. e Ministro Guardasigilli: questione giuridicizzata ma non spoliticizzata, in Giur.cost. 1992, 3044 ss., 3057 s., che intravede il rischio che la Corte, risolvendo il conflitto attraverso l’interpretazione congiunta di norme costituzionali e leggi ordinarie, produca la “pietrificazione” di queste ultime e le elevi ad un rango superiore a quello del “tipo” cui appartengono. La Corte non può ignorare l’assetto degli interessi fissato dal legislatore ordinario, purché esso non delinei un assetto sbilanciato, e perciò incostituzionale; ma certo questo non comporta né l’impossibilità che il legislatore muti l’assetto legislativo né che esso venga in seguito, in altro contesto, dichiarato illegittimo.
[20] In Giur.cost. 1994, 3561 ss.
[21] Sent. 225/2001.
[22] G. BRUNELLI, La sentenza Previti: una decisione
“ritagliata” sul caso, in Forum di Quaderni costituzionali: http://www.mulino.it/html/riviste/quaderni_costituzionali
[23] F.W. MAITLAND, The Constitutional History of England, Cambridge 1908, 527, ma lo spunto è chiaramente tratto da Dicey.
[24] Cfr. C. PADULA, Indipendenza della magistratura, indipendenza del potere esecutivo e principio di “leale cooperazione”: un bilanciamento mancato, in Giur.cost. 2000, 2339 ss., 2340 s.
[25] In Giur.cost. 2000, 2332 ss.
[26] Cfr. R. BIN, L’ultima fortezza, cit. 124.
[27] Per un accenno, cfr. A. CARIOLA, A proposito cit., 3057.
[28] Di contrario avviso è invece C. PADULA, Indipendenza cit., 2343.
[29] È quanto suggerisce C. PADULA, Indipendenza cit., 2341.
[30] Ad una sua analisi “destrutturante” ho dedicato il saggio Ragionevolezza e divisione dei poteri, (Relazione al Convegno "La ragionevolezza nel diritto" Catanzaro, 1 dicembre 2000), in corso di stampa negli atti del Convegno, ma che si può leggere alla pagina ragionevolezza.htm