Roberto BIN
Vorrei intervenire su entrambe le relazioni. Il prof. Shefold notava l’enorme numero di eccezioni di incostituzionalità rivolte ogni anno alla Corte costituzionale italiana. Mi chiedo se questo non derivi dall’enorme numero di leggi che c’è e continua a prodursi ogni anno in Italia, un numero di cui, come sappiamo, non siamo in grado di stabilire con certezza neppure l’ordine di grandezza. In questo caos legislativo, i problemi di interpretazione - l’individuazione delle norme vigenti, la soluzione delle antinomie, l’attribuzione di un significato univoco a disposizioni eterogenee e scoordinate ecc. - sono enormi. Grava sul giudice il compito di riportare ad unità il sistema normativo, in relazione al caso concreto che è chiamato ad affrontare: per assolvere questo compito, il ricorso alla Corte costituzionale si presenta come uno strumento di grande importanza, molto spesso indispensabile.
È abbastanza usuale che nel processo principale la parte stringa il giudice in una forbice argomentativa: o tu mi interpreti la legge in questione in senso conforme a costituzione (e quindi mi riporti il sistema normativo ad unità con gli strumenti dell’interpretazione), oppure, se ritieni che la lettera della legge lo impedisca, mi eccepisci l’incostituzionalità della legge, chiedendo alla Corte di rimuovere l’ostacolo che ti impedisce di svolgere il tuo compito istituzionale. Questa frequente tattica processuale è il segno della grande vicinanza (e spesso sovrapposizione) che c’è tra l’attività di interpretazione, che spetta al giudice, e il sindacato di legittimità, che spetta alla Corte per iniziativa del giudice. La collaborazione tra i due organi è indispensabile, vitale per entrambi: ne hanno bisogno i giudici, perché solo la Corte può togliere quel tanto di “testo” legislativo che impedisce la loro opera di razionalizzazione del sistema normativo; ma ne ha bisogno anche la Corte, perché essa proprio nella collaborazione dei giudici, nel consenso che essi esprimono nei confronti della sua opera, trova la principale fonte della sua legittimazione.
Mi domando allora se l’ introduzione del ricorso diretto alla Corte costituzionale, suggerita da Valerio Onida, non possa rivelarsi controproducente e rischiosa. Essa potrebbe creare almeno due effetti negativi: da un lato, ridurre la percezione da parte dei giudici della loro responsabilità quali organi remittenti, dato che il privato avrebbe un altro canale per porre alla Corte le questioni attinenti alla difesa dei propri diritti; dall’altro, e soprattutto, innescare una certa conflittualità tra la Corte e i giudici, visto che non è affatto improbabile - e l’esperienza della Corte europea dei diritti dell’uomo ce lo dimostra - che la gran parte dei ricorsi diretti riguardino proprio i giudici, l’inefficienza del sistema giudiziario, la lunghezza esasperante dei giudizi, l’abuso di determinati strumenti giudiziari. C’è, insomma, il rischio che tra la Corte e i “suoi” giudici sorga una forte concorrenza, per così dire, funzionale e strutturale: funzionale, perché va a toccare la funzione giurisdizionale così come è svolta in Italia; strutturale, nel senso che la Corte finirebbe con essere giudice del caso concreto, sullo stesso piano del giudice di merito, in alternativa ad esso. Forse, come suggeriva Gianfranco Mor, i grandi problemi che fanno guardare con interesse alla prospettiva dell’introduzione del ricorso diretto, potrebbero trovare una soluzione in un’opera di correzione delle tecniche di produzione legislativa, piuttosto che nell’ introduzione di uno strumento nuovo i cui effetti potrebbero incidere negativamente sulla statica di alcuni pilastri su cui regge l’assai delicato edificio della giustizia costituzionale. Ed è questa la domanda che intendevo rivolgere a Valerio Onida.
Sui conflitti di attribuzione. Se la costituzione “rigida” serve a regolare la politica tramite il diritto, e se lo strumento del conflitto (ma tutte le funzioni della Corte, in fondo) è quella di tutelare la prevalenza del diritto sulla politica, cioè di porre un argine al gioco della politica, sottoponendolo a regole: allora mi domando se sia insorto in Italia anche un solo conflitto che non rispondesse a pieno a questa funzione. È vero che per molti decenni solo i giudici hanno investito la Corte per conflitto di attribuzione, ma questo era un sintomo dello stato di sofferenza in cui i giudici, come tutori della legalità, si trovavano nei confronti di un potere politico, che non stava dentro le regole e dei lacci della legalità voleva liberarsi. L’esempio più evidente è dato dall’astioso ricorso al conflitto da parte della Corte dei conti, che è venuto incrementandosi (e invelenendosi) man mano essa si è vista spuntare gli strumenti di controllo sulla “politica”.
Se è vero che per molto tempo la mediazione politica ha impedito che sorgessero conflitti entro il palazzo della politica - e per questo si è mantenuto vivo a lungo un certo scetticismo nei confronti delle strumento rappresentato dalla soluzione giurisdizionale dei conflitti di attribuzione - ultimamente i conflitti sono scoppiati con clamore. Non è certo un buon segno, perché sono convinto che un sistema costituzionale tanto meglio funziona quanto meno si litiga sulle regole. In effetti i conflitti non sorti (quello che ha opposto Cossiga al Parlamento, per esempio), quelli rientrati (il “caso Curcio”) e quelli esplosi (il grappolo di conflitti promossi da Mancuso) sono stati segni precisi del progressivo deteriorarsi della capacità di mediazione interna del sistema politico. Ma il sistema politico non si è ancora stabilizzato, e se la formula su cui si stabilizzerà sarà vicina al sistema maggioritario, credo che sia da prevedere che la potenzialità dello strumento del conflitto di attribuzione sarà enorme. Le regole della costituzione sono fatte per disciplinare la competizione tra maggioranza e minoranza: e quindi il conflitto di attribuzione, se dovrà essere lo strumento di soluzione dei conflitti sulle regole del gioco, sorgerà sui punti di frattura tra maggioranza e minoranza. Non potrà non entrare, dunque, in Parlamento, per garantire il rispetto delle regole costituzionali proprio là dove, in un sistema maggioritario, si apre il principale teatro di scontro politico. La parcellizzazione dei conflitti e dei “poteri dello Stato” non potrà che accentuarsi e la dottrina o dovrà ricredersi sulle critiche mosse in passato alla Corte per non aver difeso il “tono costituzionale” del conflitto e non aver definito con precisione cosa sia il “potere dello Stato”, oppure dovrà rinunciare a indicare nella Corte costituzionale il difensore della prevalenza del diritto sulla politica, cioè, se le mie premesse sono corrette, il garante della legalità costituzionale. E questo non aiuterà affatto il sistema politico a consolidarsi e a riabituarsi a preferire la mediazione al conflitto sulle regole.