L'interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei
problemi, discontinuità della giurisprudenza costituzionale
di
Roberto Bin
1. Dal nuovo testo del Titolo V è stato espunto qualsiasi
riferimento all’’”interesse nazionale”, mentre il giudizio di merito di fronte
alle Camere è stato cancellato: la dottrina si sta ormai da tempo interrogando
sul significato di queste esclusioni. Vi è chi ha subito assunto una posizione
“scettica”, propensa a ritenere che il Parlamento abbia inteso, non già
liberare le Regioni dal “limite” degli interessi nazionali, ma semplicemente
scaricare per intero il peso della difesa di essi sulla Corte costituzionale
(cfr. A. BARBERA, Chi è il custode
dell'interesse nazionale?, in Quad.cost. 2001, 345 s. e Scompare l’interesse nazionale?, nel “Forum di Quaderni cost.”). Vi è chi invece
rilegge la recente riforma
costituzionale in chiave di continuità, ritenendo perciò che la definizione
degli interessi nazionali resterà comunque affidata alla collaborazione tra il
Parlamento e la Corte costituzionale, al primo essendo demandata la concreta
precisazione del riparto delle funzioni tra i diversi livelli d’interesse,
attraverso i tanti varchi lasciati aperti dagli artt. 117 e 118, e alla seconda le “piccole correzioni”
necessarie al mantenimento dell’equilibrio e la verifica dei “titoli
giustificativi” dell’intervento statale (cfr. R.TOSI, A proposito dell’interesse nazionale,
nel “Forum di Quaderni cost.”). Vi
è infine – ed è forse l’atteggiamento più diffuso - chi assume la riforma come
una svolta netta rispetto al passato e nega che l’interesse nazionale possa più
essere fatto valere come un limite generale della legislazione regionale,
poiché nel nuovo testo del Titolo V esso sarebbe stato riconosciuto e tradotto
in specifiche riserve di competenza dello Stato (per esempio, i “livelli
essenziali”, le “norme generali”, il “coordinamento informatico” di cui,
rispettivamente, alle lett. m, n e r dell’art. 117.2, i “princìpi
fondamentali” di cui all’art. 117.3, i meccanismi perequativi dell’art. 119
e – ma su questo punto cruciale le opinioni divergono fortemente – le ipotesi
di intervento sostitutivo del Governo ex art.120), le quali andrebbero
considerate quindi come “titoli esclusivi” su cui soltanto si potrebbe basare
l’intervento statale a protezione dell’interesse nazionale (in questo senso,
per esempio, G. FALCON, nell’intervento a questa tavola rotonda, oltre a
C.PINELLI, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e
i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario,
in Foro it. 2001, V, 194 ss., 199; P.CAVALERI, La nuova autonomia
legislativa delle regioni, ivi 199 ss., 202).
Sono punti di vista molto diversi, che convergono solo nella comune notazione che sulla questione se l’interesse nazionale sia ancora un limite generale delle attribuzioni regionali, se possa o meno legittimare interventi trasversali dello Stato non riferibili ad uno specifico titolo scritto nei nuovi articoli della Costituzione, se sia ancora concepibile la funzione di indirizzo e coordinamento, si gioca buona parte del significato che assumerà nei fatti la riforma costituzionale.
2. L’intenzione del legislatore costituzionale appare piuttosto chiara. L’originale previsione dell’art. 127 – per altro, come ben noto, mai attuata di fatto – per cui in caso di “contrasto di interessi” il Governo poteva “impugnare” le leggi regionali davanti alle Camere per questioni di merito, è stata eliminata; della funzione di indirizzo e coordinamento – ignota al costituente del 1947, ma non certo a quello del 2001 – non si fa alcuna menzione; anche la riserva di legge statale a tutela di “imprescindibili interessi nazionali”, prevista nel testo licenziato dalla Commissione Bicamerale, è stata stralciata. La voluntas legis sembra dunque chiara, ma non è certo un argomento decisivo.
La giurisprudenza costituzionale ha sin dall’inizio fondato il “limite” degli interessi nazionali e la funzione di indirizzo coordinamento (che ne è il “risvolto positivo”, come la definì la “storica” sent. 39/1971) sul principio di prevalenza delle “esigenze di carattere unitario”, che “trovano formale e solenne riconoscimento nell'art. 5 della Costituzione” (ancora sent. 39/1971). Questo articolo non è stato toccato dalla riforma e quindi i princìpi che esso incorpora restano accreditati. Naturalmente ciò non significa che, insieme al principio, resti “pietrificato” anche tutto l’arsenale di strumenti con cui in passato esso è stato fatto operare. Bisogna considerare infatti se e come la riforma del Titolo V abbia strumentato quel principio. Proviamo perciò ad esaminare le decisioni storiche della Corte costituzionale per saggiare quali delle affermazioni in esse contenute possano sopravvivere al mutare del testo costituzionale e quali no:
a) la cura delle esigenze unitarie si attua anzitutto “attraverso la esplicita enunciazione dei ‘principi fondamentali’, di cui allo stesso art. 117” (sent. 39/1971). Ma, dopo la riforma, lo strumento dei “princìpi fondamentali” resta disponibile solo per la potestà concorrente, di cui all’art. 117.3. Per quanto riguarda la potestà “residuale” dell’art. 117.4, le esigenze unitarie, dunque, non possono essere assicurate per questa via, dato che, a prendere alla lettera la legge di riforma, su tali materie lo Stato avrebbe perso competenza legislativa;
b) lo stesso obiettivo può essere perseguito anche “in altre e diverse forme, che non si risolvano in una preventiva e generale riserva allo Stato di settori di materie”: questa è la porta che la sent. 39/1971 ha aperto per consentire l’ingresso, nel sistema dei rapporti tra Stato e regioni, della funzione di indirizzo e coordinamento. Essa veniva legittimata come congegno sostitutivo della “riserva preventiva e generale allo Stato” di “ritagli” di materia. Si potrebbe elaborare, su questa base, un teorema per cui, tanto più sono estese le materie e le funzioni trasferite alle Regioni e tanto meno esse sono intersecate da riserve e interferenze dello Stato, tanto più è giustificabile che a questo siano riconosciute “altre e diverse forme” di indirizzo e di coordinamento. È un sistema di contrappesi: per cui se la riforma del Titolo V amplia la sfera delle attribuzioni legislative regionali e limita le “riserve preventive e generali” alla legge statale, allora si rafforza l’esigenza di trovare strumenti e forme attraverso cui garantire le esigenze unitarie e di coordinamento. Di queste forme però il nuovo Titolo V non fa menzione.
c) “Non si può affermare… che per la definizione delle materie elencate nell'art. 117 Cost. sia sempre sufficiente il ricorso a criteri puramente formali e nominalistici. Anche se nel testo costituzionale solo per alcune di esse viene espressamente indicato il presupposto di un sottostante interesse di dimensione regionale, per tutte vale la considerazione che, pur nell'ambito di una stessa espressione linguistica, non e' esclusa la possibilità di identificare materie sostanzialmente diverse secondo la diversità degli interessi, regionali o sovraregionali, desumibile dall'esperienza sociale e giuridica” (sent. 138/1972). Questa affermazione della Corte sembra fatta apposta per rispondere a chi sostiene la tesi che, nel nuovo testo del Titolo V, l’interesse nazionale troverebbe completo ed esclusivo fondamento nelle funzioni “trasversali” riconosciute allo Stato dagli artt. 117 e ss. Che cosa induce a ritenere che i criteri interpretativi “formali e nominalistici” respinti dalla Corte nel 1972, siano riesumabili trent’anni dopo?
3. Rispondere a questa domanda è di cruciale importanza. Potremmo essere indotti a ritenere che, in questi trent’anni di concreta esperienza, la trasformazione del “limite di merito” in una vasta tipologia di vizi di legittimità abbia prodotto la progressiva calcificazione dell’interesse nazionale in molteplici riserve preventive allo Stato: nella riscrittura del Titolo V, pertanto, si potrebbe vedere la fissazione in disposizioni di ciò che, attraverso la caotica applicazione legislativa e giurisprudenziale, è progressivamente emerso come lo strumento indispensabile attraverso cui si esprimono le esigenze unitarie.
Ma non può essere così. Il problema non si pone tanto per le materie “concorrenti”, perché per esse l’interferenza programmatica dei “princìpi fondamentali” può rappresentare uno strumento più che sufficiente ad assicurare le esigenze unitarie: ma lo stesso non varrebbe per le competenze “residuali” delle regioni.
La rigida separazione tracciata dall’art. 117 appare un argine troppo netto e troppo poco elastico per poter resistere alla spinta degli interessi unitari. Per quanto severo possa essere il giudizio sulla passata giurisprudenza della Corte costituzionale, in cui si sono fatti valere gli interessi nazionali sotto le sembianze di limiti di legittimità, credo sia difficile concludere che, nelle materie del “vecchio” art. 117, l’affermazione delle esigenze unitarie fosse sempre pretestuosa e del tutto infondata: eppure quelle materie sono oggi tutte refluite nella potestà legislativa residuale delle regioni, per la quale allo Stato nessun intervento è consentito né per legge, né per regolamento, né sul piano amministrativo. E le esigenze di coordinamento, gli interessi infrazionabili, la programmazione generale, con quali strumenti potranno essere tutelati o realizzati?
Ma c’è di più: l’aver enumerato le competenze dello Stato e attribuito tutto il resto alla potestà legislativa regionale significa che tutto il peso dell’innovazione legislativa dovrà gravare sui legislatori regionali, senza alcun coordinamento se non quello che le stesse regioni volessero spontaneamente organizzare orizzontalmente. Ciò vale anche per le materie “nuove”, i nuovi fenomeni da sottoporre a disciplina. È convincente questo assetto?
A me non sembra convincente né sostenibile: mi sembra che la tecnica della netta separazione delle potestà legislative, non compensata da adeguate forme di coordinamento e da efficienti sedi di concertazione politica, sia una tecnica che costruisce paratie troppo schematiche, astratte e fragili per poter contenere l’impeto della realtà di una società moderna; e di conseguenza mi immagino che, se dovesse affermarsi questa interpretazione dell’assetto dei rapporti tra Stato e regioni, dovremo assistere assai presto alla rimodellazione delle paratie, alla creazione di sfoghi imprevisti, lavorando ancora una volta con materiali non adatti a quella progettazione. Fuor di metafora, ogni “titolo” che la nuova costituzione offre per giustificare l’interferenza dello Stato sarà dilatato oltre qualsiasi ragionevole interpretazione per l’incontenibile esigenza di assicurare gli interessi unitari. Saranno estese le “etichette” delle materie dell’art. 117.2 (si pensi all’”ordine pubblico”, all’”ordinamento civile” o all’”ambiente”), amplificati i concetti di “livelli essenziali”, di “prestazione”, di “diritti civili e sociali”, tolto ogni argine ai “princìpi fondamentali” nella competenza “concorrente”, scoperto che anche i poteri sostitutivi di cui all’art. 120.2 possono avere un “risvolto positivo”. Quante volte sono state le stesse Regioni a chiedere l’intervento dello Stato per fissare norme generali comuni? Saremo precipitati nella situazione di prima: il legislatore statale e il Governo che si infilano, con prepotenza o “su invito”, nelle fessure delle paratie sino a sfondarle, la Corte costituzionale che deve cercare di ridisegnare un quadro credibile dei rapporti senza disporre di materiali adeguati, continuamente esposta alla necessità di tradurre in argomentazioni giuridiche valutazioni che sono essenzialmente politiche. È conveniente?
4. Penso che non lo sia affatto. Ho sempre creduto che l’unica parte della Costituzione che esigesse davvero una riforma fosse proprio il Titolo V. Nato troppo astratto e già vecchio quanto a modelli culturali di riferimento, ha perso nel tempo qualsiasi capacità regolativa; sicché le relazioni tra Stato e Regioni si sono sviluppate fuori e contro le regole costituzionali, attraverso leggi ordinarie e prassi cui la Corte costituzionale ha cercato di donare un minimo di veste sistematica. Che vi sia un tratto così importante delle istituzioni costituzionali privo di una disciplina costituzionale effettiva è molto grave, un vulnus al principio di legalità costituzionale. Ora la riforma è stata fatta: male, molto male a mio avviso, ma è stata fatta. Sarebbe gravissimo che essa non segnasse un momento di discontinuità nella storia delle relazioni tra Stato e Regioni, gravissimo perché ciò rafforzerebbe l’opinione, assai diffusa purtroppo, per cui la Costituzione serve a poco, può essere non solo cambiata con una certa disinvoltura, ma anche ignorata. Certo, abbiamo una riforma che è scritta con un linguaggio che sembra più la continuazione del lessico della politica che la premessa del linguaggio giuridico, ma questa è la posizione ancestrale delle costituzioni, a metà tra il manifesto politico e la norma giuridica. Spetta agli interpreti, e alla Corte costituzionale anzitutto, riclassificare il testo della riforma e trasformarlo in regole precise.
Una riforma costituzionale di raggio così vasto, se presa sul serio, deve portare ad una cesura netta con il passato. Ma questa cesura non può “tagliare” i problemi, negando che essi sopravvivano, malgrado che la riforma non li abbia affatto risolti. Il nuovo Titolo V ha “dimenticato” il problema del coordinamento e della collaborazione; del dittico “supremazia – collaborazione” ha preso in considerazione la prima parte, attenuandone la portata, ma ha del tutto trascurato la seconda. I problemi delle esigenze unitarie, degli interessi infrazionabili, del coordinamento, della collaborazione restano problemi irrisolti e perciò perennemente iscritti all’ordine del giorno. L’interpretazione del nuovo testo che muove per argomenti “formali e nominalistici” (per riprendere l’espressione della sent. 138/1972) alla erezioni di paratie stagne tra le attribuzioni regionali e le “interferenze” statali, chiude gli occhi sui problemi irrisolti: perciò, mossa dall’intenzione di prendere sul serio la riforma, apre la porta ad un’applicazione di essa che sarebbe più nel segno della continuità che della discontinuità. Gli stessi problemi, senza strumenti costituzionali per risolverli; le stesse soluzioni, nel segno della continuità della giurisprudenza.
5. Proviamo perciò ad invertire il percorso: invece di nasconderci il problema del coordinamento, cerchiamo nel testo della riforma elementi utili alla sua soluzione. A ben vedere, elementi non ne mancano:
a) il fatto che il legislatore costituzionale abbia cancellato tutti i riferimenti all’interesse nazionale contenuti nel testo originale della Costituzione non significa necessariamente che abbia ignorato il problema: semplicemente ha cancellato le “vecchie” soluzioni che si sono rivelate insoddisfacenti. Il meccanismo del “giudizio di merito”, che il Parlamento avrebbe dovuto svolgere sulle leggi regionali, era la traduzione in meccanismi procedurali del principio di supremazia dello Stato (e dei suoi interessi politici) sulle Regioni. Che il Governo fosse chiamato ad esercitare il controllo e l’iniziativa a difesa della superiorità sia dell’ordinamento giuridico dello Stato che dei suoi interessi politici, era perfettamente coerente con l’impianto, che era gerarchico come lo può essere un ordinamento che contrappone il generale (l’ordinamento e gli interessi nazionali) al particolare (l’ordinamento e gli interessi regionali). Tutto il sistema ruotava attorno a questo asse: si prenda ad esempio il meccanismo del controllo preventivo delle leggi regionali, contrapposto all’impugnazione successiva delle leggi statali; la totalità dei “vizi” deducibili dal Governo di fronte alla Corte costituzionale, contrapposta alla sola difesa delle proprie attribuzioni consentita alle Regioni; la cura degli interessi generali presupposta nell’impugnazione statale, contrapposta alla richiesta alla Regione di dimostrare (anche per opera) il proprio concreto interesse al ricorso ecc. A ben vedere, tutto questo oggi non c’è più: è stato cancellato dalla riforma.
b) Non è vero che il nuovo testo del Titolo V abbia pretermesso volutamente ogni riferimento all’interesse nazionale: semplicemente ha cancellato l’ordinamento gerarchico di cui si è detto. Ma il “variabile livello degli interessi”, non più ordinato in gerarchia, è oggi ben presente nel testo costituzionale, tradotto nel principio di sussidiarietà, richiamato di continuo dalla riforma. ‘Sussidiarietà’ significa appunto questo: che le funzioni non sono assegnate una volta per tutte in base a criteri astratti, ma collocate al livello di governo più vicino possibile agli amministrati, purché “adeguato”. “Sussidiarietà” e “adeguatezza” (che l’art. 118.1 Cost. opportunamente associa) viaggiano insieme come le due cabine di una funivia, equilibrando i propri pesi. Essi richiedono che la scelta di dove allocare le competenze sia compiuta secondo una valutazione concreta della dimensione degli interessi: le “antiche” distinzioni tra interessi frazionabili e interessi non frazionabili, nonché tra interesse nazionale, regionale e “esclusivamente locale”, sono quindi, non superate, ma riassunte nei concetti di sussidiarietà e di adeguatezza. È però avvenuto questo, che la ripartizione per livelli di interesse è stata sottratta ad una logica di tipo gerarchico: “sussidiarietà” ed “adeguatezza” esprimono una logica di tipo paritario che rafforza il secondo elemento del dittico “supremazia – collaborazione”. Opportunamente, dunque, l’art. 120.2 associa il “principio di sussidiarietà” al “principio di leale collaborazione”, offrendoci la chiave per continuare.
c) La legge costituzionale di riforma inizia con quella criticatissima disposizione che dice: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Cercando di dare un significato giuridico a questa disposizione, tale da portarci un po’ più in là della mera elencazione di una serie disomogenea di enti, si è detto che in essa si può scorgere una chiara carica paritaria, per cui lo Stato non è più entità sovrapposta alle altre, ma pari ordinata ad esse. Ma sembra lecito compiere un passo ulteriore: non è lo Stato a “comprendere” gli altri livelli di governo; essi e lo Stato sono tutti compresi nella Repubblica. Qui, dunque, le considerazioni svolte nei due punti precedenti si saldano dialetticamente. Lo Stato partecipa alla Repubblica in posizione di parità, e non più di supremazia gerarchica, rispetto agli altri enti; la tutela degli interessi nazionali e delle esigenze unitarie della “Repubblica” non è parte delle caratteristiche di supremazia dello Stato, ma deve essere frutto dell’unico modo in cui dei soggetti di pari grado possono decidere, attraverso l’accordo, la “leale cooperazione”.
6. Se la linea interpretativa che ho tracciato è credibile, essa ci porta finalmente ad una conclusione assai distante dal punto da cui abbiamo preso le mosse. L’apparente disinteresse del legislatore costituzionale per le esigenze unitarie e di coordinamento, che sono fortemente sentite in ogni sistema costituzionale moderno, non deve necessariamente portare a concludere per una costruzione rigidamente dualistica dei rapporti tra Stato e Regioni: quasi che il legislatore del 2001 volesse portare antistoricamente a compimento il disegno, ancora imperfetto nella versione originale, di una netta separazione delle sfere di attribuzione del centro e della periferia. Tutto all’opposto: si sono ridefinite le sfere di attribuzione, ma soprattutto si è rivoluzionato il criterio di fondo dell’ordinamento dei rapporti tra Stato e Regioni: non più enti disposti lungo una linea gerarchica, tale per cui all’ente generale era riconosciuto e riservato il potere-dovere di curare gli interessi generali, ma enti pari ordinati, tenuti a collaborare per tutto ciò che attiene agli interessi comuni, gli interessi della loro casa comune, la “Repubblica”.
Il legislatore della riforma costituzionale potrebbe quindi essere assolto dal rimprovero di aver dimenticato di risolvere i veri problemi che la riforma del Titolo V avrebbe dovuto risolvere. Sia pure implicitamente, la riforma ci dice dove e come le esigenze unitarie possono e devono trovare la loro tutela: nelle sedi e nelle forme paritarie della leale collaborazione, non in quelle di un intervento dello Stato ispirato a supremazia. Un cambiamento radicale di prospettiva, a cui non potrebbe non corrispondere un cambiamento radicale nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
In passato la Corte costituzionale aveva assecondato la trasformazione sistematica del limite di merito in limiti di legittimità: l’interesse nazionale si era infiltrato in ogni singolo limite di legittimità, dalla definizione della “materia” al territorio, dai princìpi fondamentali agli obblighi internazionali, per poi rovesciarsi in limite positivo nella “funzione” di indirizzo e coordinamento. Tutto ciò è stato possibile in un sistema dominato, come si è detto, dal principio di supremazia, che riconosceva nel Governo il soggetto deputato ad assicurare d’autorità il rispetto degli interessi nazionali. Oggi, con il principio di sussidiarietà, è venuta meno la giustificazione giuridica che consentirebbe di continuare su questa strada.
7. La Corte avrebbe perciò l’occasione per segnare una netta cesura con la giurisprudenza del passato. Con il nuovo Titolo V, cessata la supremazia dello Stato come tutore “preventivo” dell’unità dell’ordinamento giuridico (mentre gli è rimasto per ciò il solo strumento dell’intervento sostitutivo, anch’esso vincolato ai canoni della sussidiarietà e, soprattutto, della leale collaborazione), l’intera strumentazione della sussidiarietà e, nel suo àmbito, della tutela dell’interesse nazionale e delle esigenze di coordinamento è demandata alla cooperazione tra i diversi livelli di governo. Spetta alla loro contrattazione individuare le misure necessarie. È vero, il nuovo Titolo V non individua le sedi della contrattazione, ma ciò può significare soltanto che essa non ha (ancora) regole precostituite, non anche che può non esserci. La collaborazione deve esserci e deve essere leale, deve corrispondere ai criteri che la stessa Corte ha fissato in passato e che dovrebbe continuare a produrre in futuro.
In conclusione, la Corte potrebbe finalmente uscire dall’infausta situazione in cui è stata spinta da anni di regionalismo dominato dalla supremazia dello Stato sulle Regioni e dalle sue conseguenze giuridiche. Potrebbe finalmente opporre un rigoroso self restraint di fronte a tutte le – prevedibilmente assai numerose – questioni che sorgeranno nell’ampia zona lasciata in ombra dalla riforma: rifiutare di tessere ancora una veste giuridica per tutte le decisioni che dipendono da valutazioni squisitamente politiche. Verranno prodotti ancora atti di indirizzo, schemi tipo, norme di coordinamento tecnico, piani e programmi: la Corte potrà rifiutarsi di verificare se ognuno di essi e ognuna delle loro disposizioni incarni l’interesse nazionale o risponda all’esigenza di tutelare gli interessi non frazionabili; potrà limitarsi a verificare se quegli atti e quelle disposizioni sono il frutto di un procedimento di contrattazione che risponda alle regole della leale cooperazione. L’unico intervento che dovrebbe ancora garantire, insomma, è quello rivolto a tutelare il rispetto delle regole di leale collaborazione. In ciò, oltretutto, non sarebbe lasciata senza strumenti, perché, oltre al ricco strumentario elaborato dalla giurisprudenza passata, vi sono le regole poste dalla legislazione “Bassanini”, a partire dalle norme sulle Conferenze, sugli atti di indirizzo e coordinamento, sulla sostituzione.
La Corte potrebbe finalmente tornare a fare il custode delle regole del gioco, anziché essere costretta a riscriverle di continuo. E con il taglio netto con la sua precedente giurisprudenza dimostrerebbe anche che le riforme costituzionali si possono e si devono prendere sul serio.