ñ ñ

 

Roberto Bin

La disciplina dei gruppi parlamentari

 

1. I diversi profili della disciplina dei gruppi

Bastano due dati per delineare subito il volto molteplice della disciplina dei gruppi: da un lato, la comune affermazione per cui i gruppi parlamentari sono la "naturale (anche se non inevitabile) proiezione dei partiti nelle istituzioni parlamentari", dall’altro il dato normativo - espresso dai regolamenti parlamentari, come da quelli di tutte le altre assemblee elettive italiane - che impone la necessaria appartenenza del deputato ad un gruppo. Per un verso, dunque, i gruppi hanno sinora rappresentato, nel nostro sistema costituzionale, il principale, se non unico, strumento attraverso cui i partiti diventano organi istituzionali; dall’altro verso, i gruppi hanno sinora rappresentato, nel nostro sistema parlamentare, il principale, se non unico, strumento attraverso cui si è cercato di ridurre la complessità di una rappresentanza elettorale pletorica e di consentire perciò un funzionamento accettabile delle Camere.

È inevitabile quindi che anche la disciplina normativa dei gruppi parlamentari abbia più profili:

    1. vi è un profilo attinente alla disciplina dei gruppi in quanto organi delle Camere, indispensabili al loro funzionamento come organi decisionali;
    2. vi è poi una disciplina "funzionale" del gruppo, che ne segna la rilevanza sia interna ai lavori delle Camere sia ad essa esterna, in quanto collegata alla vita dei partiti politici ed al sistema elettorale in senso ampio;
    3. infine vi è l’aspetto dei rapporti tra il gruppo ed i suoi appartenenti.

Inutile dire che i tre aspetti sono fortemente intrecciati e che trovano tutti la loro principale fonte di disciplina nei regolamenti parlamentari: ma, se la disciplina dei gruppi come organi è riservata al solo regolamento parlamentare, per gli altri due aspetti ciò non è detto. La disciplina delle funzioni dei gruppi non sta solo nei regolamenti delle Camere, perché si estende anche alla normazione che tocca i partiti e il sistema elettorale, legislazione "di contorno" inclusa; la disciplina dei rapporti tra gruppo e suoi componenti è scarsamente toccata dai regolamenti parlamentari e può essere invece contenuta in atti di regolamentazione interna ai gruppi o ai partiti e forse, in prospettiva, nella stessa legislazione elettorale.

 

2. I rapporti tra gruppo e suoi appartenenti: vincoli "positivi"

Togliamo di mezzo quest’ultimo profilo, almeno per il momento, che apparentemente è il più semplice. Aderisco all’opinione dominante per cui gli impegni che il deputato assume nell’àmbito del partito o del gruppo non danno luogo ad obbligazioni giuridiche, non sono perciò azionabili davanti ad alcun tipi di organo giurisdizionale. È questo il "contenuto minimo" del principio del divieto di mandato imperativo, principio che qui do per postulato e che non intendo sottoporre a critica.

La libertà del parlamentare da ogni mandato è divenuta - come è a tutti noto – un problema di grande rilievo politico negli ultimi tempi, a seguito di proposte tese ad introdurre limitazioni alla libertà di movimento dei deputati da un gruppo all’altro e, soprattutto, dalla opposizione alla maggioranza e viceversa. Gli impressionanti fenomeni migratori che hanno caratterizzato le ultime legislature, l’ascesa del gruppo misto a terzo gruppo della Camera (dove raccoglie quasi il 16% dei deputati) mentre è addirittura il secondo al Senato (dove raccoglie quasi la stessa proporzione di senatori), l’instabilità politica e il trasformismo conseguenti (o precedenti?), hanno giustificato la ricerca di misure di contenimento, sino, appunto, alla proposta di vincolare il mandato parlamentare all’appartenenza al movimento o allo schieramento politico in cui il deputato è stato eletto. Non sono proposte del tutto originali, per il semplice motivo che i problemi da cui esse nascono non sono affatto nuovi. A parte più lontani precedenti, sono noti il dibattito e le proposte di legge che accompagnarono in Germania le vicende di prassi "trasformistiche" durante gli anni della grosse Koalition e in quelli immediatamente successivi (Zanon 1991, 151 ss.). Ma come allora in Germania, anche oggi in Italia mi sembra che prevalga nettamente, almeno in dottrina, l’opinione che il divieto di mandato imperativo sarebbe leso da simili misure.

A tale opinione aderisco interamente: comprendo l’esigenza di superare i fenomeni descritti, ma a me sembra che essi non siano che la conseguenza di processi assai più complessi che altrove andrebbero interrotti. La disciplina dei gruppi parlamentari è l’ingranaggio che congiunge ciò che attualmente sta (quasi interamente) fuori dal diritto costituzionale, cioè la disciplina dei partiti politici, con ciò che invece sta interamente dentro ad esso, cioè il ruolo e le prerogative del parlamentare, da un lato, e l’organizzazione e il funzionamento delle Camere, dall’altro. Da questa sua delicata posizione attuale, il gruppo parlamentare deriva la sua incerta collocazione tra i soggetti "privati" assimilabili alle associazioni non riconosciute, e quindi ai partiti, e i soggetti istituzionali in senso proprio, quali sono gli organi delle Camere. È una posizione di equilibrio imposta dall’attuale assetto, non costituzionale, ma della legislazione ordinaria, e non altrimenti necessaria: ma che non può essere cambiata agendo né solamente né principalmente sulla disciplina dei gruppi. Qualsiasi passo che si volesse compiere sulla strada del rafforzamento della disciplina interna ai gruppi, che vada oltre al semplice – ed inutile – richiamo che l’art. 53.7 Reg. Senato fa a quegli atti semiclandestini che sono i regolamenti interni dei gruppi, richiederebbe anzitutto un passo preliminare verso una regolazione giuridica dei partiti. Le ragioni di un’affermazione così perentoria si chiariranno a conclusione di questa relazione.

 

3. Vincoli "negativi"

Vi sono però alcuni aspetti delle relazioni tra parlamentare e gruppo di appartenenza che possono e, almeno in parte, già sono soggetti a disciplina giuridica molto restrittiva. Infatti, se i parlamentari non possono essere soggetti a vincoli "positivi" di mandato politico, forti però sono i vincoli "negativi" al libero esercizio del loro mandato. Anzi, l’intero apparato regolamentare, volto alla programmazione dei lavori e alla razionalizzazione dei tempi, grava sul ruolo del parlamentare uti singulus come un intenso limite costrittivo. Non c’è da meravigliarsene: è proprio il ruolo del gruppo parlamentare, come cellula organizzativa indispensabile al "governo" dei lavori delle Camere, a far retrocedere di un passo il parlamentare singolo. Si può dire, anzi, che la continua riscrittura dei regolamenti di entrambe le Camere abbia progressivamente stratificato l’organizzazione interna potenziando i gruppi e i loro rappresentanti, a discapito del ruolo del deputato singolo, ridotto a backbencher o, con una espressione più usuale da noi, peon. Questa è una tendenza che sembra rafforzarsi man mano si senta più forte l’esigenza di snellire e rendere efficiente la macchina decisionale.

Qualche esempio. L’art. 23 del Reg. Camera, profondamente modificato nel 1997, attribuisce alla Conferenza dei capigruppo il compito di definire il programma bi- o trimestrale dei lavori della Camera, indicando gli oggetti da trattare, l’ordine delle priorità e i tempi. L’intera partita è giocata tra Governo e gruppi, anche perché è a questi soggetti che è riservato il diritto di proposta: il programma è approvato dalla Conferenza a maggioranza qualificata (che si calcola per pacchetti di voto espressi dai capigruppo) e diventa definitivo dopo la comunicazione all’Assemblea. Ma anche in aula, nell’eventuale discussione sul programma, sono possibili solo gli interventi svolti in nome dei gruppi. Fuori dall’intermediazione del proprio gruppo, insomma, l’iniziativa del singolo deputato è destinata ad un assai probabile insabbiamento. Anche il calendario trisettimanale dei lavori è dominato dal ruolo dei Gruppi, e segue modalità di proposta e di approvazione simili: l’unica misura che tuteli il ruolo dei singoli deputati, fuori dell’organismo che li rappresenta, è che un quinto del tempo complessivo che il calendario concede per la discussione di un argomento deve essere riservato "agli interventi che i deputati chiedano di svolgere a titolo personale, comunicandolo prima dell'inizio della discussione" (art. 24.7 Reg. Camera). Di riflesso, regole simili valgono per la programmazione dei lavori nelle Commissioni (art. 79 Reg. Camera, modificato nel 1997). Ancora, la presentazione di interpellanza urgenti è riservata ai gruppi (o comunque a soggetti collettivi, come poi si vedrà: § 8), con esclusione dell’iniziativa del deputato singolo (art. 138-bis Reg. Camera, introdotto nel 1997); le interrogazioni a risposta immediata, sia in Aula che in Commissione, possono essere presentate solo attraverso il capogruppo (art. 135-bis e ter Reg. Camera).

Tralascio le numerose norme che tendono a razionalizzare la discussione e la presentazione degli emendamenti in Aula come in Commissione: in linea di principio è sempre garantito al parlamentare singolo il diritto di esprimere la propria opinione quando sia in dissenso con il gruppo di appartenenza (vedi artt. 83.1 Reg. Camera per l’esame delle leggi in assemblea; 85-bis.3 Reg. Camera per gli emendamenti; 118-bis.4 Reg. Camera per la discussione del documento di aggiornamento del DPEF); ma è anche vero che questa garanzia è fatta spesso dipendere dalla valutazione discrezionale del Presidente, al quale spetta stabilire "le modalità e i limiti di tempo degli interventi" (art. 83.1 Reg. Camera), oppure valutare la "rilevanza" degli emendamenti presentati dai singoli (art. 85-bis.3 Reg. Camera). Vi è poi un parere della Giunta per il regolamento (del 14 luglio 1993) sulla possibilità di intervento dei deputati dissenzienti in sede di contingentamento, che conferma "la piena correttezza della prassi applicativa secondo cui anche gli interventi dei deputati dissenzienti devono mantenersi nei limiti di tempo complessivamente assegnati" alla trattazione dell’argomento, così da rendere efficace il meccanismo antiostruzionistico.

Al Senato le cose non sono troppo diverse, anche se è il regolamento leggermente meno "gruppocentrico". È vero che nella formazione del programma dei lavori la Conferenza dei capigruppo deve tener conto anche delle priorità indicate dai singoli senatori (oltre a quelle indicate dal Governo e dai gruppi: art. 53.3 Reg. Senato), ma è anche vero che il metodo della programmazione si applica a tutte le principali attività del Senato, demandando alla Conferenza il compito di definire il calendario dei lavori (che viene discusso in aula solo se non si sia raggiunta l’unanimità in Conferenza e con interventi solo a nome del gruppo: art. 55.3 Reg. Senato), di determinare la ripartizione dei tempi di discussione tra i gruppi (art. 55.5 Reg. Senato), di fissare i termini per la presentazione degli emendamenti alla legge finanziaria e di bilancio (art.128.5 Reg. Senato), di indicare le materie su cui si svolgono le interrogazioni a risposta immediata, che sono comunque formulate da un senatore per gruppo (art. 151-bis Reg. Senato). A favore del parlamentare uti singulus sta ciò, che al Senato è chiaramente stabilito che "i Senatori che dissentano dalle posizioni assunte dal Gruppo di appartenenza sull'argomento in discussione hanno facoltà di iscriversi a parlare direttamente ed i loro interventi non sono considerati ai fini del computo del tempo assegnato al loro Gruppo" (art. 84.1 Reg. Senato); altrettanto possono fare in sede di dichiarazione di voto " purché il loro numero sia inferiore alla metà di quello degli appartenenti al Gruppo stesso" (art. 109.2 Reg. Senato).

 

4. La dimensione minima dei gruppi

Rimarco questi profili non certo per accingermi a contestare la scelta dei regolamenti di rafforzare il ruolo dei "soggetti collettivi" nell’organizzazione dei lavori parlamentari, perché questa pare anzi una condizione necessaria del ricupero di efficienza, specie in un Parlamento incurabilmente ipertrofico come il nostro. Ma siamo di fronte all’effetto paradossale di un circolo vizioso. Man mano che il Parlamento perde efficienza a causa del dissolvimento dei partiti e la frantumazione degli schieramenti, le misure di antidoto introdotte spingono proprio nella direzione di rafforzare il ruolo dei gruppi, cioè dell’immagine istituzionale dei partiti, quasi questi potessero possedere una vita autonoma da quella dei partiti da cui promanano. Da qui nasce l’esigenza di attribuire per via regolamentare ai gruppi, e ai loro portavoce, quella forza di espressione politica unitaria che in realtà, per la crisi del sistema dei partiti, per lo più hanno perso: è la manovra tradizionale, di salvaguardare, irrigidendolo per legge, il potere che si è venuti perdendo di fattoma è una manovra fallimentare, come quando si cerca di bloccare l’invecchiamento falsificando i dati anagrafici. Oltretutto, potenziandone il ruolo e irrigidendone il modo di esprimersi, si pone sotto stress la tenuta dei gruppi stessi, cioè se ne accentua la tendenza allo sfaldamento, e quindi alla proliferazione.

I regolamenti parlamentari portano segni evidenti di questo stress. Come è noto, le due Camere non hanno ceduto alla tentazione di abbassare il numero minimo di parlamentari necessario alla costituzione "di diritto" di un gruppo autonomo, che è rimasto di dieci al Senato e venti alla Camera. Anzi, hanno rifiutato di applicare le deroghe pur previste dai loro rispettivi regolamenti (artt. 14.2 Reg. Camera e 14.5 Reg. Senato), per i gruppi "autorizzati", la cui costituzione può essere consentita dal Consiglio di Presidenza se promossa da "partiti organizzati nel Paese": deroghe elargite in passato con grande generosità, al fine di consentire che formassero gruppo tutti quei partiti che erano tradizionalmente radicati nel paese e che, attraverso il gruppo, partecipassero alla ripartizione del finanziamento pubblico. Si è però ritenuto che le norme regolamentari in questioni non fossero più applicabili, dopo che il mutamento della legge elettorale ha reso inservibili i criteri impiegati per determinare il livello di radicamento nazionale del partito; ma a ciò si è aggiunta anche una notevole dose di preoccupazione che si finisse con favorire la frammentazione politica, magari provocata ad arte per raggiungere risultati logistici, amministrativi o finanziari.

Proprio perché l’intera organizzazione dei lavori parlamentari si regge sui gruppi, la loro proliferazione rischia infatti di far saltare delicati meccanismi organizzativi. Per esempio, già oggi i gruppi che hanno un numero di componenti inferiore al numero delle Commissioni permanenti finiscono con essere in esse sovrarappresentati: in particolare al Senato, dove le commissioni permanenti sono tredici e il quorum minimo per formare il gruppo è dieci (e dove 323 senatori "effettivi" devono far fronte a 613 "ruoli", tra commissioni, giunte ecc.), ciò può accadere anche in presenza di soli gruppi "di diritto". Per cui il moltiplicarsi di gruppi "autorizzati" di piccole dimensioni rischia di distorcere la rappresentanza proporzionale nelle Commissioni (e non solo in quelle permanenti), rendendo impossibile la formazione di maggioranze. Non è certo un caso, infatti, che in diversi consigli comunali, dove si è consentita la formazione persino di "gruppi monocellulari" - un tipico ossimoro del linguaggio politico italiano - sia invalsa la prassi per cui in Commissione non si vota mai!

 

5. L’ipertrofia del gruppo misto

Tenuta ferma la dimensione minima dei gruppi, lo stress si è trasferito perciò sul gruppo misto, che ha raggiunto il livello di rigonfiamento di cui si è detto in precedenza, divenendo la sede di passaggio o di permanenza definitiva di tutti i parlamentari che danno vita a nuove formazioni politiche o che appartengono a formazioni che subiscono scissioni o erosioni. La reazione che le due Camere hanno avuto a questo fenomeno sono solo parzialmente diverse.

Le recenti modificazioni del regolamento, hanno portato nella Camera dei deputati ad un riconoscimento quasi pieno di tutte le componenti politiche del gruppo misto:

I deputati appartenenti al Gruppo misto possono chiedere al Presidente della Camera di formare componenti politiche in seno ad esso, a condizione che ciascuna consista di almeno dieci deputati. Possono essere altresì formate componenti di consistenza inferiore, purché vi aderiscano deputati, in numero non inferiore a tre, i quali rappresentino un partito o movimento politico, la cui esistenza, alla data di svolgimento delle elezioni per la Camera dei deputati, risulti in forza di elementi certi e inequivoci, e che abbia presentato, anche congiuntamente con altri, liste di candidati ovvero candidature nei collegi uninominali. Un'unica componente politica all'interno del Gruppo misto può essere altresì costituita da deputati, in numero non inferiore a tre, appartenenti a minoranze linguistiche tutelate dalla Costituzione e individuate dalla legge, i quali siano stati eletti, sulla base o in collegamento con liste che di esse siano espressione, nelle zone in cui tali minoranze sono tutelate (art. 14.5 Reg. Camera)

La disciplina dei gruppi assume alla Camera un aspetto schizofrenico: il secondo comma dell’art.14 disciplina le autorizzazioni in deroga alla costituzione dei gruppi che sono sotto la soglia numerica con riferimento al vecchio sistema elettorale, per cui la deroga è ritenuta inapplicabile e il numero minimo per costituire un gruppo resta 20 deputati (ossia il 3,17% dei componenti la Camera); il quinto comma, invece, è stato formulato di recente per consentire la formazione di "componenti politiche" anche estremamente piccole (tre deputati, ossia lo 0,48% dei componenti la Camera), in base a criteri riferiti al nuovo sistema elettorale.

Si noti che il numero di 20 è un numero che risponde ad un’esigenza razionale, cioè che ogni gruppo abbia forze sufficienti per essere presente con un proprio rappresentante in ognuno degli organi necessari della Camera, dall’Ufficio (o Consiglio) di presidenza, alle Commissioni permanenti, alle Giunte (mentre così non avviene nel Senato, con i problemi di sovrarappresentanza ricordati in precedenza). Per cui le "componenti politiche" del gruppo misto, benché legittimitate a svolgere alcune funzioni, per le loro stesse dimensioni non possono surrogarsi in tutte le funzioni tipiche dei gruppi. Il regolamento della Camera ha dovuto perciò rimodellare più di un meccanismo alla nuova realtà del gruppo misto.

La prima conseguenza si riflette sull’organizzazione dell’Ufficio di Presidenza, da sempre in "delicato equilibrio fra rappresentatività e proporzionalismo". In passato il problema era costituito dal numero dei gruppi "autorizzati", i piccoli gruppi che andavano ad aggiungersi a quelli "di diritto", in deroga al limite quantitativo minimo posto dal regolamento. Perciò i regolamenti delle Camere avevano introdotto norme che consentivano di aumentare il numero dei segretari - componenti dell’Ufficio - in modo da garantire che anche i gruppi "autorizzati" vi fossero rappresentati. Ma l’allargamento della rappresentanza nell’Ufficio di Presidenza a tutti i gruppi, comporta un appiattimento di essa e quindi l’esigenza di aumentare il numero delle sue componenti al fine di ristabilire un minimo di corrispondenza proporzionale tra componenti dell’Ufficio e componenti dei gruppi: perciò nel 1987 la Camera tolse il limite massimo di "segretari aggiunti", che non poteva essere più di tre (mentre esso è ancora di due al Senato: art. 5.7 Reg. Senato).

Oggi, nella XIII legislatura, il problema è costituito invece dall’esigenza di dare spazio alle componenti politiche del gruppo misto. I gruppi costituiti sono infatti "solo" nove (in media quindi con quanto è accaduto in entrambe le Camere nelle prime otto legislature), ma il gruppo misto conta infinite anime. La Camera, che ha dettato la disciplina riprodotta poco fa, conta ben 9 diverse componenti politiche nel gruppo misto, che organizzano il 75% dei deputati che ne fanno parte. Il Senato invece non detta una disciplina specifica; ma in almeno una norma l’esistenza "ufficiale" di esse traspare. È l’art. 156-bis Reg. Senato, aggiunto già nel 1988, che parifica "i rappresentanti delle componenti politiche del Gruppo misto" ai Presidenti dei Gruppi parlamentari per quanto riguarda la presentazione di interpellanze a nome del gruppo. Di fatto, dai dati pubblicati dal Senato stesso, risultano ben 15 componenti politiche in cui si dividono i 51 senatori del gruppo misto: non essendoci discipline limitative, gli aderenti a tali componenti vanno da un minimo di uno a un massimo di sette aderenti, mentre solo l’1,37% dei senatori non dichiara appartenenze (dato significativo, se si pensa che tra essi vi sono anche gli ex presidenti della Repubblica, con la sola solita eccezione di Cossiga).

Alla Camera, poi, la disciplina esplicita delle componenti politiche del gruppo misto ha consentito di regolarne la partecipazione ai diversi momenti decisionali dell’organo:

    1. alla Conferenza dei Presidenti possono essere invitati: "ove la straordinaria importanza della questione da esaminare lo richieda, può altresì invitare a partecipare un rappresentante per ciascuna delle componenti politiche del Gruppo misto alle quali appartengano almeno dieci deputati, nonché un rappresentante della componente formata dai deputati appartenenti alle minoranze linguistiche". Tuttavia, per le deliberazioni concernenti l'organizzazione dei lavori, si considera soltanto la posizione espressa a nome del Gruppo misto dal suo presidente (art. 13.2 Reg. Camera);
    2. una precisa disciplina è dettata per l’organizzazione interna del gruppo misto:
    3. - le dotazioni attribuite al Gruppo misto "sono determinate avendo riguardo al numero e alla consistenza delle componenti politiche in esso costituite, in modo tale da poter essere ripartite fra le stesse in ragione delle esigenze di base comuni e della consistenza numerica di ciascuna componente" (art. 15.3 Reg. Camera);

      - gli organi direttivi del Gruppo devono rispecchiare le varie componenti politiche del medesimo Gruppo, e i membri così eletti rappresentano la componente alla quale appartengono nei rapporti con gli altri organi della Camera (art. 15-bis.1 Reg. Camera). Il "rappresentante di componente" è dunque una nuova figura che si affaccia alla scena parlamentare;

      - gli organi direttivi del Gruppo misto assumono le deliberazioni di loro competenza tenendo proporzionalmente conto della consistenza numerica delle componenti politiche in esso costituite; questa regola è garantita dalla possibilità per le componenti di ricorrere al Presidente della Camera avverso tale deliberazione (art. 15-bis.2 Reg. Camera)

    4. nella discussione in aula, ai rappresentanti delle componenti del gruppo misto è riconosciuto il diritto di parola sia nelle fasi del procedimento legislativo (artt. 83.1, 85.5, 85.7 Reg. Camera), che sulla questione di fiducia (art. 116.3 Reg. Camera), nella sessione di bilancio (art. 118-bis.4), nelle questioni comunitarie e internazionali (art. 125.2 Reg. Camera). In tutti questi casi è nella discrezionalità del Presidente stabilire modalità e tempi degli interventi.

 

6. L’organizzazione "per schieramenti": promesse…

Una risposta al processo di frantumazione politica, risposta interessante ancorché per il momento solo embrionale, può essere forse ricercata nel processo di istituzionalizzazione di un livello organizzativo superiore rispetto agli stessi gruppi, ossia la maggioranza e le opposizioni. Le innovazioni introdotte nei regolamenti parlamentari che vanno in questa direzione sono ben note. Più evidenti sono, ancora una volta, quelle della Camera: l’istituzione del Comitato per la legislazione, organo che, rompendo la tradizionale regola della proporzionalità, è composto "in modo da garantire la rappresentanza paritaria della maggioranza e delle opposizioni" (art. 16-bis Reg. Camera); gli spazi garantiti nel calendario dei lavori agli argomenti proposti dai gruppi di opposizione (art. 24.3 Reg. Camera); il maggior favore accordato ai gruppi di opposizione nella distribuzione dei tempi di discussione dei disegni di legge del Governo (art. 24.7 Reg. Camera) e le garanzie per i relatori di minoranza (artt. 24.10, 86.5, 86.7 Reg. Camera). Ma riserve di tempo nella programmazione dei lavori sono previste per le opposizioni anche nel Senato (art. 53.3 Reg. Senato), accanto ad altri meccanismi di riequilibrio tra maggioranza e opposizioni (artt. 43.2, 151.4 Reg. Senato).

È chiaro però che queste innovazioni sono ispirate dall’esigenza di adeguare l’organizzazione dei lavori parlamentari ad una logica di tipo bipolare, e non già all’obiettivo di superare il "gruppocentrismo" dei regolamenti parlamentari. Il metodo della programmazione dei lavori e della pianificazione dei tempi comporta momenti decisionali "bipartitici" e quindi un certo livello di istituzionalizzazione dell’opposizione, cui devono essere concesse garanzie di spazi di iniziativa e di presenza in cambio del consenso a regolare con più precisione i lavori parlamentari. La riduzione della "sovranità" dei gruppi parlamentari è solo un prodotto laterale rispetto al perseguimento di questo progetto principale. Ma è ovvio che questo progetto si realizza solo se e nella misura in cui maggioranza e opposizioni riescano a "tenere" i gruppi che ad esse fanno rispettivamente riferimento, quindi solo se e nella misura in cui il bipolarismo riesca ad affermarsi e vincere l’egoismo di partito. Rafforzare il bipolarismo e rafforzare il "gruppocentrismo" sono azioni incompatibili.

Come è inevitabile, i modi di organizzazione interna alle Camere dipendono dai modi in cui si organizzano le forze politiche nella società. Nei regolamenti del Parlamento italiano la disciplina dei gruppi, con i suoi tratti caratteristici rimasti identici sinora (necessità della loro costituzione e dell’appartenenza del parlamentare ad uno di essi; limiti dimensionali minimi e loro eccezionale derogabilità, ecc.), risale al 1920 ed è conseguenza diretta dell’introduzione del sistema elettorale proporzionale e dell’imporsi, anche nel parlamento, dei partiti di massa. L’affermarsi – sul piano della regolazione formale dei lavori parlamentari - di un’organizzazione politica diversa, legata agli schieramenti elettorali bipolari, dipende oggi dalla capacità del bipolarismo di radicarsi nel sistema politico. Ma, come è noto, questa prospettiva non si sta affatto realizzando né avvicinando in Italia. Per cui le innovazioni dei regolamenti parlamentari sono sì finestre aperte sul sistema politico, ma non sono di per sé elementi sufficienti a segnarne l’evoluzione.

Si sa per certo soltanto che la vecchia rappresentazione dei gruppi parlamentari, come proiezione di un sistema pluripartitico consolidato e stabile, è oggi in crisi. La riprova è che sono state cancellate le norme che proiettavano l’organizzazione interna corporis sul piano dell’ordinamento generale. L’antico sistema partitico utilizzava i gruppi parlamentari come sua immagine, maschera, persona in senso etimologico, che agiva sul piano delle istituzioni formali: serviva come soggetto attraverso cui raccogliere il finanziamento pubblico, partecipare con una veste formale alle consultazioni dell’istituzione - Presidente della Repubblica in vista della formazione dell’istituzione – Governo, semplificare le modalità di presentazione delle liste per l’elezione delle istituzioni elettive, ecc. La natura ambigua dei gruppi, sospesi tra pubblico e privato, era perfettamente rispondente alla funzione ad essi assegnata. Ora queste norme sono state quasi tutte abrogate, e nella legislazione italiana i gruppi parlamentari hanno perso gli antichi riferimenti. Ma non si tratta di un’evoluzione lineare senza ripensamenti, come mostra la vicenda della legge sulla c.d. par condicio.

 

7. … e smentite

Hanno ragione i critici: la legge 28/2000, infatti, rivela e rafforza tutte le ambiguità dell’attuale situazione del sistema politico. In essa i "gruppi parlamentari" non sono affatto citati: si parla sempre indistintamente di ‘soggetti politici’; ma per i "messaggi autogestiti" i "soggetti politici" sono quelli "rappresentati" in Parlamento, nel Parlamento europeo e nelle assemblee elettive regionali e degli enti locali (art. 3.6), mentre per le comunicazioni in campagna elettorale, prima della presentazione delle liste, i "soggetti politici" sono quelli "presenti nelle assemblee da rinnovare, nonché … quelli in esse non rappresentati purché presenti nel Parlamento europeo o in uno dei due rami del Parlamento" (art. 4.2, lett. a). Non solo i gruppi (quindi, i partiti) storici rientrano in questo ombrello protettivo, ma anche le componenti del gruppo misto, in quanto "soggetti politici rappresentati". Se si somma a questo dato il fatto che tra essi gli spazi sono distribuiti garantendo condizioni di parità, si capisce perché i critici accusino a ragione questa legge di aver messo in moto un meccanismo di incoraggiamento alla moltiplicazione dei "soggetti politici", che va a sommarsi ai meccanismi insiti nelle pieghe delle regole parlamentari relative alla distribuzione delle risorse logistiche, amministrative e finanziarie tra i gruppi.

Le tentazioni che serpeggiano nella legge non sono state stemperate dal regolamento deliberato dalla Commissione parlamentare di vigilanza. L’art. 2 definisce i "soggetti politici", per le trasmissioni a livello nazionale, elencando:

a) ciascuna delle forze politiche che costituiscono gruppo in almeno un ramo del Parlamento nazionale;

b) ciascuna delle forze politiche, diverse da quelle di cui al punto a), che hanno eletto con proprio simbolo almeno due rappresentanti al Parlamento europeo;

c) ciascuna delle forze politiche, diverse da quelle di cui ai punti a) e b), che hanno eletto con proprio simbolo almeno un rappresentante nel Parlamento nazionale o nel Parlamento europeo, e che sono oggettivamente riferibili ad una delle minoranze linguistiche indicate dall'articolo 2 della legge 15 dicembre 1999, n. 482;

d) limitatamente alle Tribune di cui all'articolo 4, il gruppo Misto della Camera dei Deputati ed il gruppo Misto del Senato della Repubblica. I rispettivi presidenti individuano, secondo criteri che contemperino le esigenze di rappresentatività con quelle di pariteticità, le forze politiche, diverse da quelle di cui ai punti a), b) e c), che di volta in volta rappresenteranno ciascun gruppo.

Come si vede la frantumazione politica è pienamente riconosciuta e supportata, se non incentivata, ed il gruppo parlamentare compare solo come uno dei possibili riferimenti attraverso di cui l’ordinamento giuridico interloquisce con il sistema politico, mentre la coalizione non compare mai. Solo per le trasmissioni di comunicazione politica autonomamente disposte dalla RAI è prevista la possibilità che esse siano dedicate alle coalizioni (art. 3.5), individuate attraverso una definizione davvero impervia:

Si intendono per coalizioni l'insieme dei gruppi parlamentari i cui componenti siano stati, interamente o in parte, eletti su quota maggioritaria nelle ultime elezioni politiche. L'appartenenza dei singoli gruppi alle coalizioni è certificata dai loro Presidenti, ovvero, per le componenti del gruppo Misto, dal Presidente della componente, ovvero, per le forze politiche che non costituiscono componente, dai parlamentari interessati appartenenti al gruppo Misto.

Anche la distribuzione degli spazi tra le coalizioni appare discutibile, non essendo guidata dal principio di parità, ma dalla regola per cui "lo spazio di ciascuna coalizione è quello risultante dalla somma degli spazi spettanti a ciascun soggetto che la compone". L’art. 3.4 dispone che, in via generale, per questo tipo di trasmissioni, "la ripartizione di massima del tempo disponibile tra i soggetti indicati all'articolo 2 è effettuata dividendo metà del tempo in parti uguali, e l'altra metà in proporzione alla consistenza di ciascuna forza politica [o coalizione: ma questo riferimento sembra limitato alle coalizioni per le elezioni regionali, di cui all’art. 2.2] nelle assemblee di riferimento". Il "parlamentino" costituito dalla Commissione di vigilanza, che annovera ben 40 membri, non sembra aver chiarito affatto tutti i punti oscuri della legge sulla "par condicio" né aver corretto la direzione in cui essa muove.

 

8. Altri rimedi contro la frantumazione politica

Insomma, come si vede, l’idea che emergano come un riferimento nuovo e costante, non il gruppo parlamentare o la sua frazione, ma le coalizioni o gli schieramenti di maggioranza e di opposizione è per il momento ancora solo un’idea. Il sistema politico e l’ordinamento non sembrano muovere in questo senso. Lo stesso sistema elettorale "misto" non preme certo in questa direzione, così come non si qualifica affatto, nonostante ci venga quotidianamente ripetuto il contrario, come "maggioritario" (con ciò non intendo affatto significare che tra sistema politico bipolare e sistema elettorale intercorra un rapporto di necessaria interdipendenza). Incertezza e ambiguità connotano tutte e tre le sfere interconnesse, il sistema politico, il sistema elettorale e il sistema istituzionale: l’organizzazione del parlamento, e dei gruppi al suo interno, è sicuramente posta sul punto di connessione di queste tre sfere, ma non rappresenta certo l’ingranaggio che può determinare da solo la direzione del loro movimento.

Casomai è proprio il contrario. Come fanno le Camere a funzionare attraverso una forte organizzazione per gruppi parlamentari se la legislazione elettorale "allargata" consente (e, in certi punti, favorisce) la presenza di liste "fotografia", le cui insegne non sono altro che il nome e il cognome del leader (Lista Dini, Lista Pannella-Bonino, Lista Sgarbi ecc.)? Come si può immaginare che queste liste rinuncino alla loro "visibilità" annientandosi nelle coalizioni, una volta entrate in parlamento? Il problema degli incredibili movimenti migratori da un gruppo e da uno schieramento all’altro non sono che la conseguenza dell’esigenza di "visibilità", esigenza che impone di rendere trasparenti le pareti del gruppo misto e di "decentrare" alle sue componenti politiche buona parte delle funzioni attribuite ad esso in quanto gruppo.

Gli stratagemmi escogitati dai regolamenti parlamentari, e segnatamente da quello dalle Camera, sono chiari nel loro significato: cercare di dare al Governo la possibilità di governare a prescindere dallo stato di difficile governabilità delle assemblee, rafforzando il ruolo dei gruppi e della Conferenza dei capigruppo (ma in realtà - come è noto - è soprattutto con l’estensione ipertrofica della delega legislativa e con l'uso abnorme della delegificazione che questo obiettivo viene perseguito); riconoscimento della frammentazione politica attraverso la concessione di alcune prerogative alle componenti politiche del gruppo misto; contemporaneo ricupero del momento collettivo dell’azione parlamentare (ad ulteriore danno di quello individuale) imponendo un quorum minimo di adesioni per numerose iniziative.

Questo è un profilo che non avevo ancora toccato. Siccome il gruppo parlamentare non è sempre una dimensione organizzativa apprezzabile, data la frantumazione delle compagini politiche, i regolamenti della Camera hanno introdotto con una certa sistematicità la regola per cui alcune funzioni possono essere esercitate solo da una certa quota di deputati o da uno o più gruppi che rappresentino però la stessa quota: così è previsto che – riporto la formula canonica - "X deputati o uno o più Presidenti di Gruppi che, separatamente o congiuntamente, risultino di almeno pari consistenza numerica" possano presentare proposte difformi da quella avanzata dalla Giunta per le autorizzazioni (art. 18-ter.6 Reg. Camera: X = 20), possano proporre di discutere argomenti non contemplati dall’ordine del giorno (art. 27.2 Reg. Camera: X=30), possano chiedere la chiusura della discussione in Assemblea (art. 44.1: X=20), la votazione nominale (art. 51.2 Reg. Camera: X=20), di proseguire la discussione sulle linee generali della del progetto di legge (art. 83.2: X=20), possano presentare nel corso della seduta subemendamenti ad un progetto di legge (art. 86.5 Reg. Camera: X=30) o emendamenti ad una mozione o risoluzione (art. 114.1 Reg. Camera: X=20).

Queste innovazioni non sono recenti, ma risalgono alla novella del 1983, cioè alla fase in cui la "gruppocrazia" era trionfante. Allora servivano a stemperare l’impatto dei gruppi "autorizzati", cioè di quelli che, pur non raggiungendo il quorum minimo di appartenenti, rispondevano ai piccoli partiti "organizzati nel paese" (art. 14.2 Reg. Camera), creando per essi uno statuto minore, non interamente parificato a quello dei gruppi maggiori, quelli "di diritto" (per i quali i venti deputati rappresentano il quorum necessario). Oggi, negata l’applicabilità dell’autorizzazione dei gruppi "in deroga", le stesse norme servono a limitare l’impatto della riconosciuta "visibilità" delle componenti politiche occasionalmente riunite in quell’"espediente tecnico" che è il gruppo misto. Limitano i danni sul piano dell’efficienza di un fenomeno politico che non può essere costretto entro le maglie troppo strette della regolamentazione giuridica.

 

9. Ancora sul rapporto tra gruppi e loro appartenenti: limiti alla migrazione parlamentare?

Che i regolamenti parlamentari possano arginare il fenomeno della migrazione dei deputati e dei senatori da un gruppo all’altro è non meno improbabile. Qualche innovazioni regolamentare è stata introdotta anche a questo proposito: riguarda i componenti dell’Ufficio di Presidenza della Camera e del suo omologo del Senato, il Consiglio di Presidenza. Sono organi cruciali proprio per ciò che più interessa i gruppi, perché ad essi spetta decidere, oltre che della costituzione dei gruppi stessi, anche di tutti gli aspetti logistici, organizzativi e finanziari, nonché della ripartizione dei rimborsi ai partiti per le spese elettorali (art. 20-bis della legge 515/1993). Di conseguenza il problema della loro composizione è assai delicato.

I due regolamenti prevedono entrambi che, accanto al Presidente, vi siano quattro vicepresidenti, tre questori (che hanno compiti specifici) e otto segretari. Il principio ribadito da entrambi i regolamenti è che nell’Ufficio (o Consiglio) di presidenza debbano essere rappresentati tutti i gruppi della rispettiva Camera. Ma con un’importante differenza, che riguarda la rappresentanza dei gruppi "autorizzati" e del gruppo misto: nel Senato, questi possono chiedere di essere rappresentati, con la possibile conseguente elezione di ulteriori segretari, che non devono però essere più di due (per cui la composizione massima prevista, se i gruppi costituiti "di diritto" non fossero più di otto, è di 17 componenti, oltre il Presidente); alla Camera, invece, il limite massimo dei segretari è stato abrogato nel 1987 e, ogniqualvolta venga a costituirsi un gruppo nuovo, esso ha diritto di chiedere l’elezione di un nuovo segretario, ma non più di uno per gruppo (art. 5.6 Reg. Camera). Tuttavia la rappresentanza dei gruppi non è paritaria, ma con la prassi instauratasi alla fine degli anni ’80, essa è ispirata al principio di una proporzionalità temperata, con la conseguente distribuzione "guidata" di più posti ai gruppi maggiori. Ciò porta ad avere organismi piuttosto pletorici, che rischiano di "scoppiare" in periodi di forte trasformazione dei soggetti politici e di scissioni e riaggregazioni dei gruppi.

Da qui nasce l’innovazione introdotta in entrambi i regolamenti nel 1999 (art. 5.7 Reg. Camera; art. 5.9-bis Reg. Senato), che costituisce all’atto l’unica "sanzione" che ricevono i parlamentari che cambiano raggruppamento: alla Camera però la decadenza colpisce il segretario soltanto se viene meno il gruppo a cui apparteneva al momento della sua elezione alla carica o quando si trasferisce in un gruppo già rappresentato nell’Ufficio di presidenza; al Senato viene invece sanzionato qualsiasi mutamento di gruppo. Però in entrambe le Camere la decadenza scatta soltanto per i segretari "aggiunti", cioè per quelli eletti per assicurare la rappresentanza dei gruppi più piccoli, non anche per quelli che vengono eletti in prima battuta in forza degli accordi intercorsi tra i gruppi costituitisi inizialmente.

Sembra quasi una legge-provvedimento, diretta a regolare fattispecie particolari e concrete: ma non è così, perché entrambi i regolamenti prevedono che le norme non siano retroattive, e quindi hanno iniziato ad operare a partire dal marzo (Senato) o dal luglio (Camera) 1999, in relazione ai mutamenti futuri di gruppo. Il risultato è che a oggi al Senato, nonostante il limite quantitativo massimo, i segretari sono 14 (e quindi l’Ufficio al suo completo annovera ben 22 componenti), più ancora che alla Camera, dove sono "soltanto" 12 (e quindi i componenti dell’Ufficio sono in tutto 20). Siamo ad una dimensione eguale a quella media delle Commissioni permanenti, ossia all’applicazione integrale del principio di proporzionalità.

Per chi cambi gruppo in corso di legislatura non ci sono, allo stato, altre sanzioni, ossia conseguenze comminate dai regolamenti in relazione alle altre cariche ricoperte dal parlamentare migrante. Si noti che l’elevato tasso di emigrazione nelle ultime due legislature si scompone in due fattori: da un lato vi è la migrazione collettiva, a seguito della scissione di una componente politica di un gruppo che o costituisce un gruppo nuovo (magari causando il recesso del vecchio gruppo nel gruppo misto) o, mancando il quorum, confluisce nel gruppo misto. È quindi una migrazione causata dalla frammentazione politica (o di un "trasformismo organizzato e collettivo" di cui parlava Crisafulli già nel 1960). L’altra componente, molto più ridotta, è costituita invece da scelte individuali. Un altro dato interessante è che queste migrazioni individuali colpiscono indifferentemente i parlamentari eletti con il maggioritario che quelli eletti con il proporzionali: anzi, data la diversa proporzione dei parlamentari eletti con i due sistemi, sono statisticamente più frequenti nei parlamentari eletti con il sistema proporzionale.

I dati empirici non confermano perciò la comune affermazione per cui l’elezione con il sistema maggioritario uninominale tende a rafforzare comportamenti individualistici. Insomma, la responsabilità di questi intensi fenomeni migratori non sembra imputabile direttamente alla componente maggioritaria sistema elettorale ibrido adottato in Italia, quanto piuttosto alla forte frammentazione e instabilità politica, e all’esigenza che sentono i leader dei piccoli partiti o di frange dei movimenti politici di elevare la mobilità propria e della propria componente politica per non restare schiacciati dall’immagine e dalla linea politica del leader del proprio schieramento di appartenenza: è un problema di visibilità.

 

10. Aporie di una riforma

Se queste considerazioni sono corrette, è lecito dubitare che ai fenomeni della frantumazione politica e della migrazione parlamentare si possa porre rimedio agendo sulla disciplina dei gruppi parlamentari. Certo, è necessario evitare di inserire nei regolamenti parlamentari congegni che favoriscano ulteriormente la frammentazione (e quindi la mobilità, specie quella collettiva), come il riconoscimento di posizioni di privilegio logistico, organizzativo e finanziario, nonché di "visibilità", per i piccoli gruppi, come in passato è sistematicamente successo. Però mi preme sottolineare che il sistema delle incentivazioni si è sempre collocato fuori e prima dell’organizzazione della Camere, perché anzi nella disciplina di queste si è andata sempre più rafforzando la tendenza a concentrare sui gruppi (e, in misura assai minore, sugli schieramenti) e sull’azione collettiva il potere decisionale. Si potrebbe semmai pensare che proprio questa tendenza "gruppocentrica" sia uno dei fattori di disgregazione dei gruppi, perché essi operano nel senso di offuscare, piuttosto che di accentuare la visibilità dei singoli leader. Tuttavia è nella legislazione elettorale e in quella "di contorno" (sul finanziamento della politica, sulla stampa di partito, sulla par condicio ecc.) che si notano le tracce più evidenti di un atteggiamento accondiscendente nei confronti dei piccoli gruppi e della polverizzazione degli schieramenti. Ed è proprio dalla legislazione elettorale che dovrebbe partire il processo di rigenerazione del sistema.

Un’ultima considerazione. Tutte le ipotesi di riforma che si sono suggerite per mettere fine ai fenomeni descritti agendo sulla disciplina dei gruppi si scontrano, a me pare, con una vera e propria aporia. Se i gruppi parlamentari sono la proiezione istituzionale dei partiti; se il consolidamento dei gruppi contro i fenomeni erosivi deve passare attraverso un più preciso e necessario collegamento di essi con la loro fonte di legittimazione, ossia la rappresentanza degli elettori, e quindi i partiti e gli schieramenti elettorali: allora come è possibile pensare ad un irrigidimento "antierosione" della disciplina dei gruppi che non sia anche (e in primo luogo) un irrigidimento della disciplina giuridica dei partiti e degli schieramenti elettorali, oggi inesistente? Ha sempre evidente fondamento e piena attualità quanto osservava Crisafulli:

Se, infatti, i partiti, pur essendo, dal punto di vista giuridico - formale, semplici organismi privati, sorti sul terreno della libertà di associazione, finiscono tuttavia con l'avocare a sé le grandi decisioni politiche, vincolanti - in fatto - il comportamento dei titolari degli organi costituzionali dello Stato, l'esigenza della garanzia del giuoco democratico e delle libertà individuali si sposta anch'essa, parallelamente, dal piano dell'organizzazione statale, al piano dell'organizzazione interna degli stessi partiti.

Agire sulla sola disciplina parlamentare dei gruppi non serve. Per esempio, la proposta avanzata alla Camera dall’on. Calderisi, di risolvere il problema di quel abnorme gruppo – contenitore che è diventato il gruppo misto, trasformandolo in tre gruppi misti, di maggioranza, di opposizione e degli astenuti, ha indubbiamente un certo fascino, e sembra rafforzare l’organizzazione delle Camere per schieramenti, piuttosto che per gruppi. Ma sarebbe solo un semplice "espediente tecnico" (un po’ costoso, in termini finanziari e di efficienza, data la moltiplicazione dei gruppi che comporta), se non si ottenesse che anche sul piano elettorale si radichi una logica bipolare, con una chiara definizione della propria collocazione da parte degli eletti, e che anche negli schieramenti fossero scritte regole di democrazia per quanto riguarda l’assunzione di posizioni comuni: e se tutto ciò fosse ottenuto, che senso avrebbe prevedere anche il gruppo misto degli astenuti, quasi che vi fosse una legittimazione elettorale anche per chi si candida per astenersi su una questione non da poco, la fiducia al Governo?

Diffusa è poi l’idea che la riforma dei regolamenti dovrebbe introdurre un meccanismo di favore per i gruppi parlamentari che corrispondono ai partiti politici che si sono presentati alle elezioni e di netto sfavore per quelli che si formano dopo le elezioni, e non godono quindi di legittimazione elettorale. Più che una riforma, questa sarebbe la restaurazione della vecchia regola che ha operato per dieci legislature, consentendo la trasformazione in gruppo di tutti quei partiti che sono radicati nel Paese: con una variante, che forse si irrigidirebbe la "presenza" al momento elettorale, rendendo irrilevante le successive modificazioni del "quadro politico". Equivarrebbe a riconoscere che i partiti non esistono più (o sono irrilevanti) se non come comitati elettorali? E come si concilierebbe l’unicità della denominazione del gruppo con la (normale, in certi casi) pluralità di denominazione delle liste elettorali? Quale spazio residuerebbe per l’organizzazione bipolare per schieramenti?

Il vero problema è che non ci possono essere risposte convincenti sul piano delle riforme dei regolamenti parlamentari sinché non vi sarà chiarezza sulla direzione che assume la riforma della legge elettorale e del sistema politico. È l’unico punto fermo che sembra uscire dagli stessi lavori che gli organi parlamentari hanno dedicato al problema della riforma regolamentare dei gruppi. E, d'altra parte, è il risvolto meno evidente ma necessario della natura stessa dei regolamenti parlamentari, la loro (contestata, e più spesso equivocata) natura di interna corporis acta. Ma non condivido del tutto l’opinione espressa da Luciano Violante in Giunta per il regolamento, per cui "le possibili iniziative di riforma regolamentare non possono essere caricate di aspettative nel senso della risoluzione di problemi attinenti alla forma di governo". Riforme regolamentari possono essere decisive per risolvere i problemi della forma di governo, ma solo quando le norme costituzionali e la legislazione ordinaria abbiano già chiarito in che direzione si deve evolvere la forma di governo. Una volta che fosse chiara questa direzione, disegnare i congegni regolativi da inserire nei regolamenti per favorire e rafforzare l’evoluzione del sistema non presenterebbe alcuna difficoltà.

ñ ñ