Assemblee rappresentative, forma di governo e investitura diretta dell’esecutivo*
Roberto Bin
1. La mia relazione sarà divisa in due parti : secondo lo schema classico, la pars destruens precederà la pars construens. Ma penso che nessuno si meraviglierà se, data le difficoltà dei temi, la seconda sarà assai più contenuta della prima.
Argomento della pars destruens è uno dei sintagmi di cui si compone il titolo della relazione che mi è stata affidata, ossia la “forma di governo” come oggetto di costruzione e tipizzazione teorica. La teoria delle forme di governo intende elaborare schemi riassuntivi e esplicativi delle strutture di governo dei diversi paesi: sono schemi estremamente semplificati che hanno una debole funzione classificatoria e un’equivoca funzione didattica. I “figurini” delle forme di governo (come li chiamava Giannini nella sua celebre prefazione all’edizione italiana del Le régime parlementaire di G. Burdeau) possiedono tutta l’ambiguità che così spesso inficia l’uso dei modelli nelle scienze giuridiche. Essi nascono con la pretesa di “descrivere”, sia pure in forma contratta, i meccanismi di funzionamento di un determinato sistema di governo. I sistemi di governo sono però troppo complessi per essere ridotti ai soli tratti che possono essere tracciati seguendo le regole costituzionali sulla formazione degli organi e sui loro rapporti reciproci: ecco che allora il modello sfuma i sui addentellati descrittivi per divenire piuttosto una costruzione artificiale, non del tutto slegata da alcuni tratti identificativi delle realtà istituzionale presa a riferimento, ma liberata dalla complessità di essa e costruita perciò come laboratorio in cui ci si può muovere più agevolmente per studiare il funzionamento (ovviamente astratto) dei congegni giuridici – e magari anche per progettarne di nuovi. È proprio in questa visione artificialmente semplificata che il modello viene poi applicato nei ragionamenti pratici attorno all’interpretazione delle disposizioni costituzionali e ai progetti per la loro revisione. I “figurini” diventano perciò “modelli di comportamento” (uso la terminologia proposta da Enrico di Robilant nel suo fondamentale saggio sui Modelli nella filosofia del diritto, Bologna 1968), a forte valenza prescrittiva: in essi la forza della prescrizione deriva dalla coerenza del modello, ma la coerenza del modello a sua volta è resa possibile soltanto dall’artificiosità della costruzione e dalla “depurazione”, che essa subisce, dai troppi elementi di rappresentazione empirica.
L’uso delle categorie generali nell’interpretazione giuridica è una consolidata e ben accreditata tecnica di completamento del significato delle norme positive: se ascrivo l’‘usufrutto’ alla categoria dei ‘diritti reali’, o la ‘donazione’ tra i ‘negozi unilaterali’, traggo da questa operazione una serie di conseguenze “sistemiche” che la “lettura” delle singole disposizioni probabilmente non avrebbe di per sé autorizzato. Anche i modelli di forma di governo, alla pari delle categorie generali, degli “istituti giuridici” ecc., vengono impiegati come promettenti strumenti di integrazione delle “discipline” poste dalle norme giuridiche. Quanto più rada è la tessitura normativa del testo che mi trovo ad interpretare, tanto maggiore sarà il “carico” di significati e di conseguenze normative che il loro impiego mi consente. L’open texture della costituzione diviene perciò l’ambiente ideale per l’uso di questi strumenti: e la “forma di governo” è senza dubbio la parte delle costituzione più “aperta”, meno intensamente tratteggiata dal costituente – ciò che va a sua gloria, vorrei già qui anticipare. Ma è anche un ambiente in cui il rischio di uso distorto dei modelli è altissimo; proprio perché sono così spesso molto lunghi i percorsi che bisogna compiere per collegare una disposizione costituzionale all’altra, l’uso di modelli a mo’ di sestante può condurre molto lontano dalla meta.
Vorrei limitarmi a tre soli esempi recenti di quali deviazioni può comportare l’impiego dei modelli di forma di governo nell’opera di interpretazione della costituzione.
Il Governo ha recentemente impugnato alcuni Statuti regionali perché prevedono l’obbligo per il Presidente della Regione di presentare il programma di governo al Consiglio regionale (Statuto dell’Emilia-Romagna) e di sottoporlo ad un voto di approvazione (Statuto della Toscana), in supposto contrasto con i “princìpi” della forma di governo regionale ispirata all’elezione diretta del Presidente. Naturalmente la Corte costituzionale ha nettamente respinto queste censure, chiarendo che la Regione, nella sua autonomia statutaria, “ben può disciplinare procedure e forme del rapporto fra i diversi organi regionali, più o meno riducendo l’area altrimenti lasciata alla prassi o alle relazioni meramente politiche: ciò in particolare rileva nei rapporti fra Consiglio regionale, titolare esclusivo del potere legislativo (ivi compresa la legislazione di bilancio), nonché di alcuni rilevanti poteri di tipo amministrativo, e i poteri di indirizzo politico del Presidente della Regione che si esprimono, tra l’altro, anche nella predisposizione del fondamentale “programma di governo” della regione” (sent. 379/2004).
Ma anche le Regioni hanno preso un po’ troppo sul serio il “modello” della forma di governo. Quando la riforma costituzionale ha tolto l’assurdo monopolio del potere regolamentare in capo ai Consigli regionali, i “Governatori”, spesso per cattivo suggerimento dei loro consulenti, hanno ritenuto che la fine della forma di governo “assembleare” e l’avvento di una forma di governo variamente classificata, ma comunque dominata dall’elezione popolare del Presidente, avesse automaticamente prodotto lo spostamento del potere regolamentare in capo all’esecutivo, in barba a tutte le disposizioni ancora vigenti, grazie alla forza abrogatrice dei “principi” della nuova forma di governo. Anche qui è dovuta intervenire la Corte costituzionale, delicatamente irridendo all’“eccesso di costruttivismo interpretativo”, che porta a desumere “da una presunta forma di governo regionale… la spettanza del potere regolamentare alla Giunta regionale: un modo di ragionare che, oltre al rischio di sovrapporre modelli concettuali alle regole particolari, comporta anche quello di comprimere indebitamente la potestà statutaria di tutte le regioni ad autonomia ordinaria, tramite non controllabili inferenze e deduzioni da concetti generali, assunti a priori” (sent. 313/2003).
L’eccesso di “costruttivismo interpretativo” è giunto al punto, in altra occasione, di indurre una Regione a sollevare una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la stessa riforma costituzionale, rea di aver violato il “modello”. Non è certo – sia ben chiaro – un’ipotesi impossibile, avendo la Corte già detto (ed anche praticato) la strada di contrapporre i “principi supremi” alle norme costituzionali di dettaglio: ma in questo caso si andava ben al di là, perché i “principi supremi” invocati erano le congiunzioni astrali del “modello” di forma di governo parlamentare. Naturalmente la Corte ha dichiarato la questione manifestamente infondata, contestando ancora una volta la rigidità delle classificazioni dottrinali (sent. 2/2004).
2. Ecco i risultati a cui può condurre un maldestro uso di modelli, nati e giustificati per puri intenti classificatori e didattici, e impiegati invece come strumenti di integrazione dei testi costituzionali – strumenti descrittivi indebitamente trasformati in fonte di prescrizioni. Ma sono poi davvero “descrittivi” di qualcosa di reale e di rilevante ai fini della classificazione e della didattica? Anche su questo sarei tentato, più che di avanzare qualche dubbio, di suggerire una certa prudenza.
È di moda una comparazione a tutto campo tra decine e decine di paesi dei quali si conosce, al più, (la traduzione di) una carta costituzionale che forse carta è rimasta e mai ha ricevuto concreta applicazione. Ma se abbandoniamo la visione a tutto campo della “filatelia costituzionale” e stiamo a quelli che Biscaretti di Ruffia chiamava i paesi di “democrazia stabilizzata”, dovremmo guardare con una certa prudenza alla teoria delle forme di governo: esiste una forma di governo presidenziale, per altro irripetibile, che è quella statunitense; una forma di governo direttoriale, anch’essa difficilmente duplicabile, che è quella svizzera; una forma di governo (ma di cui alcuni suggeriscono trattarsi di un caso di sdoppiamento della personalità, più che di un sistema unitario) che è quella della V Repubblica francese. Il resto rientra tutto nel regime parlamentare: e siccome il resto del mondo “stabilizzato” è caratterizzato da “rese istituzionali” che variano moltissimo da paese a paese, ecco l’esigenza di operare all’interno del governo parlamentare ulteriori classificazioni, articolando il modello in sottomodelli. Naturalmente i sottomodelli dovrebbero distinguersi per fattori significativi, per “cause” che producono le differenze. Alcune di queste si basano sulla struttura del sistema politico, ossia su dati certamente reali e determinanti, ma che ci portano fuori dal “figurino” giuridico: esso pertanto si dissolve nell’acido dell’inutilità esplicativa. Altre cause di differenziazione vengono invece fatte rientrare nel “figurino”: si tenta di isolare i lemmi del teorema del parlamentarismo per cercare di spiegare le profonde diversità fenomenologiche imputandole ai congegni costituzionali inventati dal c.d. parlamentarismo razionalizzato.
Poco male se gli studiosi si trastullano aggiungendo tasselli e o togliendo pezzetti alla forma di governo parlamentare, si dirà. Ma invece il gioco non è così inoffensivo, perché ogni tanto genera idee di riforma costituzionale, prontamente adottate dai politici. Se la buona prestazione del “cancellierato tedesco” dipende dalla c.d. “sfiducia costruttiva”, perché non introdurla subito in Italia? E se la stabilità britannica deriva dalla elezione diretta del premier (sì, nel Regno unito è solo una prassi, ma si sa come sono fatti gli inglesi…), perché non eleggere direttamente anche in Italia il Presidente del Consiglio dei ministri? Anzi, se lo ribattezziamo “Primo ministro” ecco che subito si rafforza un po’ la sua leadership, perché il nome evoca il “modello”! Trent’anni di improduttivo dibattito sulla riforma di una costituzione in parte mai attuata avrebbero dovuto segnalare ormai a tutti che lo stato insoddisfacente delle istituzioni italiane non dipende dalle norme costituzionali, fortunatamente poche, ma dal sistema politico. Se il sistema politico volesse riformare se stesso, alcune nuove norme costituzionali (ma soprattutto sub-costituzionali) potrebbero forse servire a favorire e stabilizzare il cambiamento, ma che esso si generi d’incanto attraverso la produzione di norme costituzionali è un’illusione. Che cosa impedisce al sistema politico di cambiare se stesso, se non l’assenza di volontà (maggioritaria) di farlo? Non volendo cambiare se stesso, che cosa c’è di meglio di cambiare un po’ di congegni costituzionali? Se a qualcuno può sembrare troppo brutale questa sorta di “prova ontologica” dell’inutilità delle riforme costituzionali, lo inviterei a riflettere sulla questione della sottorappresentanza delle donne nelle istituzioni: se tutti i partiti concordano nel ritenere che la situazione italiana sia scandalosa, perché non decidono autonomamente di scegliere metà dei candidati (e di candidati nei “seggi sicuri”) tra le donne, anziché votare unanimi una riforma dell’art. 51 Cost. perfettamente inutile?
La cosa davvero fastidiosa è che il gioco della forma di governo devia spesso l’attenzione anche degli studiosi verso il “modello” della forma di governo, in quanto costruzione artificiale utile all’analisi “astratta”, distogliendola dalla considerazione del funzionamento concreto delle istituzioni hic et nunc. Per cui si accetta di discutere seriamente della costituzionalizzazione del c.d. “premierato forte” come se la sua introduzione potrebbe prescindere dal sistema politico attuale o lo potesse cambiare d’incanto; come se per ciò stesso potrebbe mutare il gioco delle forze politiche davanti, per dirne una, al disegno di legge finanziaria dell’anno prossimo; come se i leader politici di uno schieramento e dell’altro, “presi per incantamento”, nutrirebbero improvvisamente meno interesse a distinguere la propria peculiare posizione politica, ad assicurarle la necessaria “visibilità”, a tradurla in seggi ecc.; come se affermare apertis verbis che il “Primo ministro” può scegliere e cacciare a piacimento i ministri (non ho mai capito quale sia l’ostacolo giuridico che attualmente lo impedisca) potrebbe sovvertire di colpo la “fisica” dei governi di coalizione. Eppure, continuiamo tutti seriamente a discutere del colore dell’evanescente vestito del re – della qual cosa il re grandemente si compiace.
3. Alle conseguenze nefaste di un uso poco controllato dei “figurini” della forma di governo abbiamo assistito nel corso del dibattito attorno ai nuovi Statuti regionali. Mi soffermo su questo argomento perché ha coinvolto i temi ai quali si connettono gli altri due sintagmi che compongono il mio titolo, la “assemblea rappresentativa” e la “elezione diretta dell’esecutivo”.
Per alcuni anni il dibattito è stato dominato da questo assioma: l’elezione diretta dell’esecutivo produce la crisi dell’Assemblea rappresentativa. È un assioma indimostrabile perché sbagliato, ed è sbagliato perché ancora una volta confonde il piano analitico dell’analisi dei modelli con quello empirico della realtà istituzionale. Sotto il primo profilo è ovvio che togliere ad un organo il potere di insediare e rimuovere un altro organo ne depotenzia le funzioni. Sotto il secondo profilo, però, si può obiettare che quando si parla di “crisi” delle assemblee elettive si fa riferimento ad un fenomeno che ben poco ha a che fare con le regole dell’elezione diretta dell’esecutivo. La crisi del parlamentarismo è un genere letterario sorto ben più di un secolo fa, e copre quindi ormai un periodo storico ben più lungo di quello della fase “trionfante” del parlamentarismo stesso. Le cause che generano la o le crisi dei parlamenti sono molteplici, variamente descritte e interpretate, denunciate da destra e da sinistra, da chi si colloca dentro e da chi opera invece fuori della tradizione liberale o democratica. La “tecnicizzazione” della politica, la predominanza dei temi economici, il peso della politica estera, il trasferimento delle decisioni in sedi comunitarie o internazionali, la globalizzazione: su ognuna di queste cause, e su tante altre, si può avvitare un intero filone di letteratura, ma tutti convergono su un’unica nota di fondo, l’insufficienza dell’istituzione parlamentare, a qualsiasi livello essa sia riprodotta.
Naturalmente si potrebbe obiettare che proprio per questo motivo togliere all’assemblea elettiva il potere di condizionare efficacemente l’esecutivo, nel momento in cui esso ha avocato a sé il controllo di tutte le leve del potere politico, significa assestare all’organo rappresentativo il colpo di grazia. Ma è ancora una volta un argomento astratto, del tutto slegato dall’analisi del concreto funzionamento delle istituzioni, di quelle italiane segnatamente, di quelle delle Regioni in specie. Si dà per scontato quanto non corrisponde affatto alla realtà, cioè che le assemblee elettive siano state capaci in precedenza di un controllo effettivo sugli esecutivi: ma non è così. Tutte le analisi empiriche ci dicono esattamente l’opposto: cito soltanto la ricerca svolta su “Elezioni, assemblee e governi regionali (1947-2000)” (pubblicata su “Le istituzioni del federalismo” 2000, fasc. 3-4) che, Regione per Regione, ci traccia la storia di esecutivi abbandonati alla mercé di schieramenti politici in costante fibrillazione, ma il cui teatro di manovra non era mai la “assemblea rappresentativa”; anzi, siccome la lotta politica era diretta ad occupare gli scranni dell’esecutivo, ciò stesso produceva uno svilimento della funzione dell’assemblea e il trasferimento alle cariche dell’esecutivo del prestigio politico e delle relative aspettative di potere. Impedire alle assemblee elettive di svilire il proprio ruolo per la ricerca continua e assillante, da parte dei loro protagonisti, di andare a governare altrove, non significa certo sminuirne le funzioni. Non le assemblee rappresentative possono dunque lamentare la svalutazione del loro ruolo, ma semmai i gruppi, le correnti e le fazioni politiche – ossia quelle forze che hanno sempre sottovalutato e svilito la funzione istituzionale delle assemblee stesse e, causando instabilità politica, hanno prodotto la bassissima resa istituzionale di esse e degli enti in cui esse operavano.
La denuncia degli effetti “anti-democratici” dell’elezione diretta dell’esecutivo regionale e, soprattutto, del drastico effetto della clausola “aut simul stabunt aut simul cadent”, imposta dalla riforma del 1999, nasconde in realtà la falsa coscienza di un ceto politico abituato ad usare le istituzioni per gli onanistici giochi di potere a cui è assuefatto. Ma esso trova una sponda, non so quanto consapevole, in chi, nella dottrina, proietta quella poco limpida polemica sullo schermo bianchissimo della teoria e dei suoi modelli, e si preoccupa dei disequilibri e deformità che gli pare dover imputare all’introduzione dell’elezione diretta del capo dell’esecutivo.
4. Dietro alle polemiche politiche sulla scelta della “forma di governo regionale” c’è dunque una realtà pudicamente velata. Ma essa è subito svelata non appena si rifletta su quali siano le assemblee elettive che hanno fama di efficienza e di saper esercitare un ruolo istituzionale importante. La risposta unanime è che il “modello” non può che essere il Senato americano: risposta che dovrebbe in qualche modo inquietare, trattandosi proprio di una delle rarissime assemblee elettive cui è negato in principio ogni potere di sanzionare con il massimo della pena la responsabilità politica dell’esecutivo e del suo capo. Nulla di paradossale, però: proprio la mancanza di quel potere ha costretto il Senato ad affinare lo strumentario di cui istituzionalmente dispone. Simile, per certi versi, è l’insegnamento che viene offerto dal Parlamento europeo: se si prescinde dalle frequenti chiacchiere sul deficit democratico (deficit che, se esiste, si forma a Roma e in altre capitali europee, ben più che nelle sedi istituzioni europee), il Parlamento europeo ci insegna come un’istituzione rappresentativa possa conquistare e rafforzare il proprio ruolo usando a fondo gli strumenti (emendamento prima e approvazione poi del bilancio, partecipazione sempre più intensa al processo legislativo, controllo sull’operato della Commissione e infine screening sulle candidature, come fase preliminare al voto di fiducia) che di volta in volta le vengono formalmente riconosciuti. Credo che nessuno possa rispondere a cuor leggero a questa domanda: oggi, di fatto, esercita un ruolo istituzionale più forte il Parlamento europeo o il Parlamento italiano (o qualsiasi altra nostra assemblea elettiva)? Sta di fatto che il Senato americano e il Parlamento europeo hanno applicato strategie che sono riuscite a produrre risultati apprezzabili.
Proporre una strategia diretta a potenziare il ruolo di un’assemblea rappresentativa nell’Italia di oggi – introduco così la pars construens di questa relazione - non è certo un compito semplice: l’ostacolo, sia chiaro però, non è l’opzione per meccanismi (formali o meno) di elezione diretta del leader dell’esecutivo; è che qualsiasi strategia si possa immaginare deve necessariamente prescindere dai costumi cui sono usi i nostri politici. È il contesto culturale il vero problema della nostra forma di governo, come cercherò di chiarire in conclusione. Vorrei prescinderne comunque, per il momento, e procederò per postulati e aforismi.
Il primo è che nessun “ente” politico può funzionare a dovere se l’assemblea rappresentativa che concorre alle sue decisioni non funzioni a sua volta a dovere. Il che significa semplicemente questo: a nessun capo di esecutivo (salvo non sia nato il Lombardia, potrebbe aggiungersi malignamente) conviene augurarsi di operare in un sistema in cui l’assemblea elettiva è incapace di esercitare efficientemente un ruolo istituzionale adeguato. Almeno il bilancio e un certo numero di leggi importanti devono essere approvati ogni anno: non è opportuno che diventino l’occasione per la resa dei conti e tanto meno è conveniente che questa sia rimandata a fine legislatura, quando si ridiscute delle candidature. E poi, tanto più insoddisfacente è il ruolo percepito da chi siede nell’assemblea elettiva, tanto più forte sarà la sua pulsione a cambiarlo, e ottenere un upgrading nell’esecutivo: quindi più forte sarà anche la sua propensione a destabilizzare l’assetto di governo attuale.
In secondo luogo, solo un’assemblea efficiente può difendere il proprio ruolo, altrimenti l’esecutivo ha tutte le ragioni di escogitare tutti i modi per scansarne i meandri procedurali. Insomma, visto che l’esecutivo non può governare senza assemblea, ma l’assemblea non può difendere il suo ruolo se non opera con efficienza, l’efficienza delle procedure assembleari è interesse di entrambi i “poteri”. Il secondo postulato è dunque speculare al primo: a nessuna assemblea elettiva conviene essere inefficiente, ingovernabile, incapace di rispondere in tempi ragionevoli alle esigenze prospettate dall’esecutivo. Il problema è cosa assicuri “efficienza” e, prima ancora, rispetto a che cosa le procedure assembleari debbano risultare efficienti. Il primo quesito è semplice: efficienza è anzitutto capacità di programmare i lavori e svolgerli nei termini previsti: se il compito dell’assemblea è produrre leggi, le leggi devono essere prodotte entro un termine ragionevole. Ma il compito di un’assemblea elettiva è “solo” produrre leggi? Nella risposta a questa seconda domanda è probabile che gli orientamenti dell’esecutivo e dell’assemblea divergano. Mentre è chiaro perché l’esecutivo sarebbe favorevole a circoscrivere l’ambito di attività dell’assemblea, meno chiaro è quale sia la direzione in cui converrebbe all’assemblea di cercare di espandere il proprio raggio d’azione. Proviamo a ragionare su questo nodo, che a me pare strategico.
Le assemblee elettive sono l’organo titolare della funzione legislativa perché sono “rappresentative”. Con l’elezione diretta, anche il presidente dell’esecutivo è “rappresentativo”, ma lo è ad un grado diverso: il presidente rappresenta la sola maggioranza – anche se, appena eletto, si affretta a dichiarare che sarà “il presidente di tutti i cittadini”. La teoria del monopolio legislativo parlamentare è strettamente dipendente dalle teoria della rappresentatività parlamentare, della pubblicità dei lavori, delle garanzie della minoranza. Tutto qua? No. La rappresentatività non è un titolo che si acquisisce tramite elezione, ma un risultato che si ottiene se si ha la capacità di rappresentare effettivamente gli interessi della comunità: non di rappresentarli in astratto (come certifica il “titolo”), ma in concreto, in relazione alle decisioni da assumere. Tutta la nostra filosofia politica, dalla lontana affermazione del principio della democrazia indiretta, alla moderna proclamazione del principio di sussidiarietà, è intessuta da questa convinzione, che non ci sono decisioni “giuste” che non siano prese considerando gli interessi della collettività a cui sono riferite. Come fanno le assemblee elettive a conoscere e valutare gli interessi della “loro” collettività? Bastano le conoscenze e le virtù personali degli eletti?
Naturalmente no. Una volta la risposta al problema era almeno in parte data dalla organizzazione dei partiti. I gruppi di lavoro, i centri-studio, i giornali di partito, le associazioni collegate fornivano sedi, strumenti e personale tecnico capaci di elaborare conoscenze tecniche e indirizzi politici, discuterli con i rappresentanti degli interessi, mediarli con istanze provenienti da ambienti, interessi, culture diverse. Era una risposta in linea con la tradizione, prodotta da strutture che si sono evolute pragmaticamente man mano la crescita di complessità delle decisioni pubbliche lo ha richiesto. Che fosse sufficiente o meno è una questione che oggi non si pone più, perché quel tessuto organizzativo si è dissolto come effetto di una “moralizzazione” della politica, in parte male intesa – come poi vedremo. A mio avviso sta lì il seme specifico della crisi delle nostre assemblee, che è essenzialmente crisi della politica.
È di gran moda affermare che la crisi della politica nasce in tutt’altre terre, nella globalizzazione che ha svuotato le competenze delle istituzioni nazionali e il potere politico delle sedi di rappresentanza democratica. Non c’è dubbio che quel fenomeno esista, ma non mi convince affatto che gli siano imputate conseguenze che hanno origini assai più casalinghe. La globalizzazione indubbiamente impedisce di concepire le decisioni macroeconomiche come prerogativa della sovranità e condiziona perciò l’uso delle leve economiche e finanziarie, i margini di manovra della spesa pubblica, i livelli delle prestazioni pubbliche, le possibilità di un intervento diretto nell’economia ecc. Ma governare il servizio sanitario, il sistema nazionale dei trasporti, l’accesso ai centri storici e la valorizzazione turistica del patrimonio artistico e naturalistico, gli strumenti per la lotta all’evasione fiscale e all’illegalità edilizia, riformare la scuola e il sistema della ricerca, affrontare i problemi reali della giustizia e mille altri interventi di fondamentale importanza per la vita della collettività non sono impediti affatto dalla globalizzazione o dalla “comunitarizzazione” della politica. Se la politica non li affronta in modo efficace la causa è solo una, che non ne è capace. È un’incapacità la cui causa che sta dentro e fuori le istituzioni.
5. Dentro le istituzioni, l’incapacità della politica è in buona parte imputabile alla scarsa attrezzatura di cui dispongono le assemblee elettive. Parlo genericamente di attrezzatura, ma in essa rientrano fattori di natura diversa.
Anzitutto non è concepibile che le assemblee elettive operino per progetti di legge e non per politiche pubbliche. Quale segmento di qualsiasi politica pubblica riescono a percepire le assemblee legislative? Lo schema tradizionale è che l’assemblea inizia ad occuparsi di un tema quando riceve il disegno di legge dell’esecutivo e inizia a svolgere il suo compito nel procedimento legislativo, prima in Commissione e poi in Aula, attraverso le tradizionali tre letture. Ma poi, licenziata la legge, chiude la specola e perde di vista le modalità con cui viene attuata la politica pubblica, nulla sa – sa in modo organizzato e non attraverso contatti sporadici e parziali – dei risultati che essa ha prodotto, di quanto è accaduto nel mondo reale a seguito della sua legge, se non ciò che cortesemente il ministro o l’assessore ha piacere di comunicare di tanto in tanto; un bel giorno si troverà però nuovamente ad occuparsene, in occasione del rifinanziamento della legge o perché l’esecutivo si riaffaccia per proporre degli emendamenti. È questo un ruolo attivo dell’assemblea, un ruolo che le consenta di svolgere la sua funzione di “organo di rappresentanza”? No, è il ruolo tradizionale, scolpito dai regolamenti assembleari che hanno tutti origini ottocentesche. L’impianto è rimasto quello.
Naturalmente non è sempre così e vi sono talvolta delle commissioni permanenti che riescono ad estendere la propria visuale sulla realtà. E poi molte idee circolano, e talvolta si concretizzano anche in regole procedurali: come inserire meccanismi di verifica dei risultati nelle leggi più importanti (le c.d. clausole valutative), come svolgere le udienze conoscitive, come potenziare gli ausili tecnici alla legislazione. Su tutto ciò non posso soffermarmi in queste poche pagine. C’è però un punto che mi sta a cuore e vorrei sottolineare, anche per scansare gli equivoci che di solito su tali questioni si addensano.
Attrezzare le assemblee non significa solo e neppure prioritariamente perseguire l’obiettivo di dotarle di strutture tecniche e strumenti raffinati per conoscere i “fatti”. Non credo nell’esistenza ontologica dei fatti, separata dalla loro rappresentazione dal punto di vista degli interessi: non sarei un giurista, altrimenti, in quanto tale convinto che solo nel contraddittorio delle parti i “fatti” possano proiettare un’immagine olografica di sé. Per cui il problema della “attrezzatura” delle assemblee non mi pare si possa ridurre ad una questione di assunzioni e di acquisti; non si tratta di doppiare le strutture tecniche dell’esecutivo con strutture tecniche dell’assemblea, almeno non solo di questo e non tanto di questo c’è bisogno (anzi, è una prospettiva che, in quanto contribuente, riterrei spaventosa). Si tratta in primo luogo di raggiungere l’obiettivo che il Senato americano ha conseguito da tempo, sia pure attraverso vie sue proprie da noi non ripetibili: riportare l’attenzione degli “interessi”, degli stakeholder com’è di moda chiamarli, verso le assemblee e le loro articolazioni. Sono loro ad introdurre i “fatti”, a informare sullo stato di implementazione delle politiche pubbliche che un giorno l’assemblea ha rapidamente (e forse inconsapevolmente) approvato. Naturalmente ci vorranno anche tecnici capaci di leggere un bilancio, un piano finanziario o un progetto tecnico, ma il problema prioritario non è tecnico, è politico. È un problema che ha un nome un po’ passato di moda, partecipazione.
La partecipazione - uno degli slogan che hanno dominato la scrittura degli Statuti regionali negli anni ’70 - è stata però vissuta come una sorta di appendice dei servizi sociali, il “dono” che l’ente democratico concede al proprio popolo, verso il quale tende un orecchio per ascoltare le doléance e ricevere le proposte: petizione e iniziativa legislativa sono gli strumenti consolidati della partecipazione, risultati per altro perfettamente inutili. È invece la partecipazione dovrebbe essere intesa come un bisogno non degli elettori, ma degli eletti, bisogno a cui si provvede attraverso l’insieme degli strumenti predisposti per attrarre attenzione e considerazione da parte delle organizzazioni di interesse, per poter conoscere tramite loro i “fatti” rilevanti in una società che gli eletti hanno il compito di rappresentare. Ma a questo non si può arrivare convocando d’autorità i soggetti che si ritiene interessanti: bisogna essere competitivi con l’esecutivo, e conquistare una posizione tale per cui gli interessi organizzati non imbocchino sempre e comunque la scala che conduce alle stanze dell’esecutivo, ma provino interesse a salire anche le scale degli organi assembleari. Ciò può accadere solo se questi organi seguono costantemente l’attuazione delle politiche pubbliche, sono in grado di verificarne i risultati e di registrare le reazioni dei soggetti che vi vengono coinvolti; per questa via l’assemblea può ottenre le informazioni utili per “concorrere” alla decisione su un piano di parità con l’esecutivo. La partecipazione genera conoscenza; la conoscenza è potere; il potere attrae la partecipazione. Lungo questo circuito si collocano gli elementi, i pesi, i ruoli che determinano la “forma di governo”: a deciderla non sono questo o quel congegno “razionalizzatore” predisposto dalla costituzione, ma il comportamento dell’imprenditore, del sindacalista, del rappresentante delle associazioni professionali o delle organizzazioni di interesse quando sceglie quale scala imboccare.
Insomma, potenziare la capacità operativa delle assemblee passa anzitutto per il potenziamento delle loro capacità di conoscere e rappresentare la propria società. Non si tratta dunque – come invece spesso si ritiene – di privilegiare il profilo tecnocratico dell’organizzazione delle assemblee, quasi che sia possibile ottenere una maggiore efficacia della loro macchina decisionale solo al prezzo di negarne la natura squisitamente politica, per valorizzare invece il ruolo competitivo delle strutture tecniche. Si tratta all’opposto di realizzare le condizioni perché gli organi elettivi affrontino con convinzione la principale loro “missione” politica, rappresentare la collettività. Rappresentare significa anzitutto conoscere: ma la conoscenza non si compra né si ordina, si costruisce con il lavoro politico. Le strutture – è ovvio – servono, servono i tecnici, servono apparati capaci di documentare e rielaborare i dati: ma tutto ciò non serve a niente se non è funzionalizzato al solo obiettivo utile, quello di rafforzare la capacità rappresentativa dell’assemblea e dei suoi membri.
6. Non meno, ma più politica è dunque necessaria affinché le assemblee rianimino il loro ruolo e riequilibrino la “forma di governo”. Più politica non solo dentro alle istituzioni elettive, ma soprattutto fuori. Purtroppo più politica non è uno slogan che incontri successo in Italia: le vicende di “tangentopoli” hanno innestato un equivoco difficile da dissolvere, l’idea che la politica non debba costare. La politica invece costa e forse non è costata mai tanto come oggi. La delegittimazione dei partiti ha però comportato che ai costi della politica si faccia fronte esclusivamente attraverso la copertura delle spese per finanziare le istituzioni, il personale politico che vi opera, i meccanismi per eleggerlo. Questa è una strategia doppiamente negativa, perché produce la superfetazione delle strutture e delle cariche istituzionali, ed essa produce a sua volta superfetazione e paralisi dei processi decisionali. Altro che “forma di governo parlamentare”: come può reggere il “figurino” se un consiglio regionale di 40 membri riesce ad articolarsi in 20 gruppi consiliari, com’è avvenuto nel Consiglio calabrese nella legislatura 2000-2005? Come si può programmarne i lavori, organizzarne le attività in commissione, assicurare i tempi di discussione in aula ecc.? La Calabria ha segnato un record, ma nelle altre regioni la situazione era ed è di poco migliore. Se prendiamo i 90 deputati regionali siciliani, ne togliamo 12 che sono “distaccati” nell’esecutivo, 11 che formano l’Ufficio di presidenza dell’Assemblea, 12 che presiedono commissioni legislative e non, 16 che presiedono altrettanti gruppi consiliari, e infine tutti coloro che nei gruppi e nelle commissioni ricoprono il ruolo di vicepresidenti e segretario (altri tre per commissione, in genere), chi resta senza un’incarico istituzionale aggiuntivo? La spesa per la politica si disperde in una pioggia fitta fitta, che produce soltanto se stessa.
Proprio da qui bisognerebbe partire se si volesse davvero modificare qualcosa nel sistema politico: dalla revisione della legislazione “di contorno” del sistema elettorale, delle regole sulla formazione dei gruppi assembleari e sul funzionamento delle strutture assembleari, con l’obiettivo di dissuadere (anziché favorire smaccatamente) la proliferazione delle formazioni politiche e dei gruppi assembleari, che a sua volta genera la polverizzazione della spesa per la politica e la disperde in mille canali clientelari che nulla restituiscono in termini di rafforzamento del ruolo delle assemblee, delle loro strutture e del personale politico che voi opera. Il risultato è questo: che la politica continua a costare moltissimo, ma è un costo che non ripaga la professionalità, ma supporta il dilettantismo: non favorisce gli investimenti nelle “attrezzature” comuni, dell’istituzione, ma la proliferazione delle microstrutture clientelari ed inefficienti. Distrutta la rete dei partiti e dei loro uffici studi, ogni “rappresentante” del popolo, lungo tutta la lunga complessa filiera delle assemblee elettive, parla a nome proprio, esprime la propria opinione sulle cellule staminali o sull’energia nucleare, sul ponte di Messina o sul ruolo del pubblico ministero, sulla riforma della scuola o sulla patente a punti: dilettanti allo sbaraglio, retribuiti però con stipendi da professionisti!
Il sistema dei partiti – tremo a parlarne nella Facoltà che fu di Maranini! – è stato assunto a suo tempo dai giuristi come un “jolly”, un fattore extragiuridico che aiuta a spiegare perché i sistemi parlamentari sono così diversi tra loro pur rientrando tutti a forza, per dirla ancora con Giannini, nel “barattolo” del governo parlamentare. Dalla revisione del sistema dei partiti – e del sistema di finanziamento con cui vengono sostenuti – deve prendere le mosse il processo di cambiamento della “forma di governo” italiana. Non certo dalla revisione di uno o cento congegni costituzionali.
* Relazione tenuta a FIRENZE, 28 ottobre 2004 nell’ambito del Convegno “Rappresentanza e governo alla svolta del nuovo secolo” promosso dalla Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri”