Roberto Bin

Federalismo, Regionalismo e Devoluzione: tre modelli a confronto

in Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, Quad. n. 14

(Seminario 2003), Torino 2004, 37-57

 

(3 febbraio 2003)

 

1. Vorrei articolare il mio discorso su quattro punti. Il primo guarderà al peccato originale, cercherà cioè di individuare quale fossero nel disegno costituzionale i punti tanto deboli da avere innescato un così esteso processo di riforma. Il secondo riguarderà la riforma del Titolo V, nell’intento di capire se le cause della crisi del modello originale hanno trovato risposta nella riforma del biennio 99/2001. Siccome la risposta a questa domanda – lo posso preannunciare - sarà tendenzialmente negativa, il terzo punto riguarderà la c.d. Devolution, per interrogarci se questa proposta di legge risolva qualcuno dei problemi originali lasciati aperti dalla riforma del 2001. Infine, col quarto punto, vorrei individuare i problemi ancora lasciati aperti. Ora questo discorso si può svolgere in venti minuti o in venti giorni, dipende dal livello di dettaglio. Parlando ad un pubblico qualificato, direi che posso fare un passaggio piuttosto rapido sui peccati originali, in quanto penso che siano stati più volte evocati; mi soffermerei un po’ di più sul Titolo V; dedicherei alla Devolution il tempo massimo che merita, cioè pochi secondi; e poi lasciare il resto del tempo ai nodi aperti che invece sono tanti e piuttosto drammatici.

 

2. L’impianto originale della costituzione del ’48 aveva alcuni vizi di fondo. Una Costituzione molto ben fatta, una Costituzione tecnicamente apprezzabile, una Costituzione perfino scritta in ottimo italiano, cosa che non si usa più; una Costituzione che aveva una sua coerenza interna. Forse una Costituzione che guardava culturalmente ad esperienze storiche solide, ma ahimè quasi tutte fallite, in quanto i modelli erano soprattutto quelli della Quarta Repubblica francese e della Costituzione di Weimar, cioè di due flop, sotto il profilo della “resa istituzionale”. In Italia abbiamo sempre avuto una certa passione per la copiatura di modelli costituzionali che hanno già fatto fallimento! Ha cominciato Carlo Alberto copiando la Costituzione d’Orleans che stava crollando in quei giorni, e poi siamo andati avanti così: anche oggi i progetti di riforma costituzionale traggono ispirazione da esperienze costituzionali di scarso successo. Copiare i fallimenti è un ottimo modo per fallire! Ma questo è un altro discorso.

In questa Costituzione, che comunque aveva una sua coerenza organica, una sua intelligenza e una sua cultura, sono state innestate le Regioni, con una scelta ispirata da ragioni essenzialmente politiche. Le Regioni sono state introdotte per istituire un ulteriore livello di divisione del potere e di garanzia di autonomia politica. È il bello e il brutto della nostra Costituzione: essere stata scritta in quella situazione un po’ mitica, un po’ mitologica che John Rawls ha immaginato per ambientarvi la sua teoria della giustizia. Una situazione in cui le persone, nulla sapendo dei loro rispettivi destini, se saranno ricchi o poveri, intelligenti o stupidi, donne o uomini, e così via, scrivono le regole del gioco. Un esperimento mentale, l’ipotesi di una condizione quasi mitologica, concretamente irrealizzabile: che però si è potuta creare nel periodo dell’Assemblea costituente perché, dopo vent’anni di fascismo, con la trasformazione avvenuta nel mondo, la trasformazione politica dell’Italia e così via, i costituenti non avevano sicurezze su chi avrebbe vinto le prime elezioni politiche libere, chi di conseguenza avrebbe governato e chi sarebbe stato all’opposizione; perciò hanno scritto le regole del gioco con gli occhi coperti da un velo di ignoranza e con la comprensibile preoccupazione di creare un sistema in cui comunque, anche in caso di sconfitta elettorale, sarebbe stato garantito a tutti un margine di sopravvivenza, uno spazio politico. Si è preferito avere governi, diciamo, non forti - perché non è affatto vero che la nostra Costituzione sia foriera di governi deboli:  è la prassi applicativa che li ha creati – ed un esecutivo molto controllato; e si è voluto garantire all’opposizione anche una possibile presenza nel governo territoriale. La Vandea bianca e il centro rosso, entrambi immaginati come isole a cui approdare in caso di naufragio elettorale a livello nazionale, fortezze in cui arroccarsi.

 

3. Questo era il progetto di fondo, il resto erano dettagli. Dettagli tra l’altro che non corrispondevano ad una visione, come dire, adeguata dei fenomeni di tipo federale. I nostri costituenti hanno inventato le Regioni sotto ogni profilo: geografico, politico sociologico, culturale ecc. Perché le Regioni in Italia non esistevano, sono state ritagliate in base a linee artificiali buone solo per i sondaggi demografici o per ripartire le diocesi, secondo una logica che nulla aveva in comune con il processo di federalizzazione, specie con il sistema federale conosciuto allora. Le federazioni nascono per un processo in cui soggetti politici e territoriali trasferiscono verso il centro una parte della loro sovranità costituendo lo stato federale. Così era stata l’esperienza americana, così l’esperienza svizzera, così anche l’esperienza tedesca: questi erano i tre modelli significativi dell’esperienza federale. La loro genesi - cioè il processo di trasferimento di sovranità da stati precedenti verso il nuovo stato – non poteva essere emulata in Italia; che anzi veniva da una tradizione di forte centralizzazione, che aveva deliberatamente spazzato via qualsiasi residuo dei vecchi stati, delle vecchie autonomie e delle vecchie differenze. Ecco che all’invenzione delle Regioni come entità geografica ha corrisposto anche a un’invenzione delle Regioni come entità politiche. Infine è stata anche un’invenzione di entità giuridica. Non esisteva un modello regionale da copiare. O meglio ne esisteva uno che era quello della costituzione spagnola repubblicana, naturalmente nel frattempo fallita, un modello mai applicato a causa del colpo di stato di Franco. Geniale, se vogliamo, come mossa, inventarsi addirittura una forma di stato: lo stato regionale! Si è poi cercato di organizzarla applicando, “in quanto compatibili”, una serie di meccanismi e di istituzioni tratte dall’esperienza degli stati federali, ovviamente con le dovute variazioni. Chi avrebbe scommesso che il modello avrebbe funzionato?

 

4. Il margine di un rischio di cattivo funzionamento del modello era elevatissimo. Mentre il sistema parlamentare, la corte costituzionale, il sistema di garanzia delle libertà, l’organizzazione della giustizia si sapeva benissimo cosa fossero e come avrebbero dovuto funzionare, le Regioni no: si è inventato un federalismo in sedicesimo in un contesto privo di tradizioni federali. Ora, c’è una differenza tra il sistema federale e il sistema regionale? questa è una domanda che non ha risposte facili. Perché geneticamente la differenza c’è ed è quella che ho descritto: dal centro verso la periferia, il primo, dalla periferia verso il centro, il secondo; la federazione è un processo di unificazione, al contrario le Regioni rientrano in un processo di decentramento. Questa, oltre a essere una questione genetica, lascia tracce importanti. Se attraverso una serie di passaggi alcuni soggetti trasferiscono la sovranità al centro, ovviamente l’atto che istituisce l’entità centrale enumera le competenze e le prerogative che ad essa sono trasferite: l’atto costitutivo di questa entità, che esprime il foedus, manterrà traccia evidente di questa genesi proprio nella tecnica dell’enumerazioni delle funzioni trasferite, così come accade nella Costituzione americana: è ovvio che tutto ciò che non è attribuito al soggetto centrale resta riservato ai soggetti iniziali, cioè agli stati membri.

Se il processo si svolge invece in senso inverso, troveremo una traccia del tutto diversa: è lo stato centrale che trasferisce alle Regioni ciò che ritiene conveniente attribuire ad esse. Il “vecchio” art. 117 rispecchia proprio questa traccia, un elenco di materie trasferite dal centro sovrano verso una periferia che ha un potere derivato. Questo è il principale segno genetico che distingue lo stato federale da quello regionale: ma i segni genetici con il tempo sbiadiscono. D’altra parte abbiamo assistito all’istituzione di sistemi federali segnati da una genesi del tutto diversa. Per esempio, il Belgio ha avuto un processo di segmentazione forse non ancora finito, non ancora stabilizzato, in cui si è creato un sistema federale attraverso un processo che va dal centro verso la periferia. L’autoqualificazione di ‘federale’ e di ‘regionale’ poco conta, del resto, per lo più non c’è una differenza di qualità ma di quantum di autonomia. Ci sono sistemi federali, come quello austriaco, in cui gli enti “federati” hanno probabilmente molto meno autonomia delle comunità che formano lo Stato regionale spagnolo. Anni ed anni di prassi istituzionale cancellano i segni della genesi e rendono i sistemi istituzionali “multilivello” molto simili tra loro come funzionamento e come problemi da affrontare.

 

5. Il fatto è che il nostro regionalismo è nato già vecchio, perché, proprio per l’assenza di esperienze istituzionali pregresse, si è ispirato ad una visione forse un po’ libresca delle istituzioni federali, senza cogliere l’evoluzione che essi avevano subito nei decenni più recenti. Già a partire dagli anni Trenta, per l’esigenza di compiere uno sforzo collettivo per uscire dalla crisi del ’29, gli antichi schemi di separazione tra centro e periferia erano stati superati. I problemi posti da una società moderna non possono essere affrontati con istituzioni progettate nella visione dello “stato minimo” tipica del mondo liberale, liberalista ed anti-interventista dell’Ottocento. Si può affrontare il problema della crisi industriale, del deficit energetico, dell’inquinamento oppure della “mucca pazza”, insomma di qualsiasi problema serio, attraverso la logica “stratificata” del riparto di competenze tra i diversi livelli di governo? Quale problema serio può essere risolto attraverso una rigida separazione dei livelli di competenza? E così, dal ’29 in poi, attraverso la guerra e la ricostruzione e tutto ciò che è seguito, le risposte dei sistemi efficienti sono state imperniate tutte sullo stesso principio: lasciamo da parte la divisione a strati delle competenze, mettiamoci intorno a un tavolo e decidiamo insieme i progetti, i programmi, gli obiettivi comuni le linee di azione, perché questo è l’unico modo in cui si riesce a rispondere alle esigenze di governo. Ma invece il nostro regionalismo è nato guardando a prima, indietro rispetto al punto in cui erano arrivati i federalismi moderni, ed è perciò partito già in ritardo. Nella  Costituzione non c’è una parola che riguardi le istituzioni della cooperazione. La leale cooperazione è una categoria inventata dalla giurisprudenza costituzionale proprio per coprire un buco nella tessitura del Titolo V, tutta ispirata dall’idea, poco credibile, che un sistema moderno articolato in più livelli di governo, ognuno autonomo di scegliersi il proprio indirizzo politico, potesse essere regolato da un elenco di etichette, al quale era affidato il compito di tracciare una linea di separazione delle competenze sorvegliata e garantita da un giudice, la Corte costituzionale. Che cosa può regolare un elenco di materie, alcune indicate con nomi un po’ buffi e demodé - la beneficenza pubblica, le tranvie, le fiere e i mercati: che cosa vuol (o può) dire che l’agricoltura è una materia? Il radicchio sarà agricoltura, la mucca sarà forse agricoltura sebbene sia già zootecnia, il branzino coltivato nelle valli è itticoltura, ma è ancora agricoltura? E siamo appena all’inizio, perché dopo c’è l’agricoltura biologica, ci sono gli organismi geneticamente modificati, la “mucca pazza”, la tutela degli alimenti, la sicurezza degli alimenti, la commercializzazione dei prodotti, la disciplina dell’impresa, i contratti agrari, l’impatto ecologico… e così via. E allora che cosa significa l’etichetta agricoltura? Come fa la Corte a garantire il rispetto della linea di confine che separa i livelli di competenza? La fragilità di questo quadro, basato sull’idea della separazione, controllata, costituzionalmente garantita, e quotidianamente certificata dalla Corte Costituzionale, è evidente.

Inoltre, la linea di confine regge sulla divisione mitologica tra norma di principio e norma di dettaglio, così dice l’art. 117: ma anche questa linea di confine è del tutto aleatoria: non c’è nulla che consenta di distinguere un principio da una norma di dettaglio. Ci sono scaffali di libri di teoria generale, scritti in tutte le lingue del mondo, che ci dimostrano che la distinzione non ha basi logiche e non è tracciabile con operazioni “oggettive”. Se il legislatore emana una legge in cui si regola in via generale l’accesso ai finanziamenti pubblici per la casa sulla base di alcuni criteri, per esempio il reddito, o il numero dei componenti del nucleo familiare, e poi in un’altra legge che disciplina lo status dei dipendenti pubblici, ed in essa si dice che, ancora per esempio, che i militari che si spostano per esigenze di servizio hanno diritto alla preferenza nell’assegnazione degli alloggi: qual è il principio e qual è il dettaglio? Qual è la regola che si applica? Non si sa, perché ogni regola incarna il principio di qualcosa. I giuristi l’hanno sempre saputo, perché la ratio legis che cos’è se non il principio della legge? di una legge di cui non si capisca quale sia la ratio, con ogni probabilità sarà dichiarata l’illegittimità. Insomma, questo confine è più fragile del percorso tracciato dalle briciole di Pollicino!

 

6. Questa è la causa del fallimento del quadro costituzionale, com’è dimostrato dal livello del contenzioso, assolutamente spropositato. Le regole si fanno per prevenire i conflitti, dando una certa prevedibilità ai comportamenti e ai rapporti. Il Titolo V della Costituzione del ’48 ha fallito l’obiettivo di regolare le relazioni tra i diversi livelli di governo, relazioni che sono state rimodellate dalla giurisprudenza costituzionale attraverso l’invenzione di una serie di categorie - l’interesse nazionale, il coordinamento, la leale collaborazione – che non avevano una solida base testuale in Costituzione, operando in supplenza del legislatore ordinario, che ha continuato a legiferare disciplinando le singole materie senza un quadro chiaro dei rapporti con le Regioni. Perciò, dall’inizio dell’esperienza delle Regioni ordinarie in poi, la prassi dei rapporti istituzionali si è andata allontanando sempre più dal testo costituzionale, che è stato sostanzialmente accantonato, sviluppando princìpi, istituti, meccanismi del tutto nuovi, sostitutivi di quelli previsti dalla Costituzione, dimostratisi inefficienti. Ma il ruolo di supplenza della Corte costituzionale si svolgeva sempre più lontano dalle rive rassicuranti del riferimento testuale e sempre meno con le tecniche “neutre” dell’interpretazione, essendo richieste valutazioni che penetravano nel merito delle scelte di opportunità (tale essendo la valutazione dell’interesse nazionale, su cui si è basata la maggior parte della decisioni della corte) e che dovevano per necessità essere compiute caso per caso. La Corte si è sforzata di elaborare regole generali o astratte, rationes decidendi utili a fondare le decisioni successive: dove ci è riuscita, ha consentito agli operatori di muoversi con una certa sicurezza: per esempio, intorno alla funzione di indirizzo e coordinamento la Corte ha stabilito una serie di test che sono abbastanza controllabili - l’imputazione dell’atto al Consiglio dei ministri, la legalità sostanziale, la leale collaborazione – così che è stato possibile alle Regioni difendere con successo le proprie attribuzioni. Ma certo lo stesso non è stato possibile in relazione alla distinzione tra principio e dettaglio o sui mille volti dell’interesse nazionale.

Ciò ha significato che l’intero sistema italiano di relazioni sta Stato, Regioni ed enti Locali per lungo tempo non è stato retto da regole costituzionali, ma dal contenzioso: una percentuale  significativa del PIL è stata governata da meccanismi non basati su regola costituzionali! Non è una cosa intelligente, perché produce sprechi, inefficienze, ritardi, tensioni, scarsa chiarezza nell’individuazione delle responsabilità e così via. Da qui nasce l’ovvia esigenza di una riforma che ripristinasse la legalità costituzionale.

Di progetti di riforma ne sono stati fatti tanti, pochi che non fossero brutti, o quantomeno sfocati. Di tutte le riforme costituzionali proposte, la parte sulle Regioni era davvero l’unica veramente urgente e l’unica non direttamente incidente sul gioco degli schieramenti politici. Per cui, fallito il progetto della Commissione Bicamerale, lo stralcio che riguardava le Regioni venne riesumato e restaurato da Giuliano Amato, allora ministro: dopo un lungo percorso fuori dai riflettori, a fine legislatura, con la campagna elettorale ormai da tempo esplosa, fu approvato definitivamente per una manciata di voti. Le vicende successive - la richiesta di referendum, lo strano scontro tra federalisti che volevano la riforma e iperfederalisti che la combattevano, l’approvazione finale da parte degli elettori – sono tutte note. Alla fine di questo lungo viaggio la riforma è entrata in vigore, cogliendo tutti di sorpresa!

 

7. La riforma del Titolo V eredita dalla Costituzione del ’48 una premessa metodologica: prosegue nel guardare al problema dell’organizzazione dei rapporti tra diversi livelli di governo più nell’ottica dei giochi politici che in quella di un’attenta ricerca di meccanismi efficienti attraverso cui strutturare un sistema di governo e più livelli. Così come nel ’48 le Regioni sono state inventate per ragioni politiche, la divisione del potere nel carattere territoriale, per ragioni politiche le Regioni sono state reinventate nel 2001, per dimostrare che la maggioranza uscente era capace di fare riforme costituzionali importanti e che nutriva sicuri sentimenti “federalisti”.

La riforma ha alcuni difetti di fondo, in parte dovuti anche alla necessità di procedere cercando di conciliare posizioni ed interessi confliggenti, quali quelli espressi dalle Regioni, quelli espressi dalle rappresentanze degli enti locali, quelli difesi dalle strutture ministeriali. Spesso perciò la riforma si preoccupa di più dell’impatto visivo, simbolico, pubblicitario, che di definire i necessari dettagli operativi del nuovo disegno istituzionale. Per esempio, compie il grande passo simbolico, già preannunciato dalla “riforma Bassanini”, di risvoltare la struttura delle competenze, passando dall’enumerazione delle funzioni regionali all’enumerazione delle competenze dello Stato. Un passo di evidente impatto simbolico, ma poi? Può funzionare un sistema in cui allo Stato sono riconosciuti solo limitati settori di competenza normativa (legislativa e regolamentare), in larga parte attratti però dalla Comunità europea, e l’amministrazione invece è tutta, in blocco, assegnata ai Comuni, mentre in mezzo, le Regioni, si trovano a poter legiferare su tutto ma ad amministrare niente? Un sistema del tutto originale, è indubbio, connotato da un’ardita geometria istituzionale; un sistema in cui, fra l’altro, tutto l’impatto dell’innovazione legislativa andrebbe a gravare sulle Regioni, è ovvio. Ma è possibile che ogni Regione affronti l’innovazione per conto suo, con tempi e modalità del tutto diverse? Può reggere un sistema in cui la formazione professionale, il turismo, l’edilizia, il commercio, i servizi pubblici ecc. siano del tutto diversi da regione a regione: e in cui, per di più, le funzioni amministrative per ognuna di queste materie sia decentrata ai Comuni, i quali hanno il potere di diversamente disciplinarne l’esercizio e l’organizzazione?

Qui emerge il vero punto critico della riforma: si può, in un sistema regionale di tipo cooperativo, non dire una parola sulle sedi e le procedure della cooperazione, e continuare a far finta che il problema del riparto dei compiti tra i livelli di governo (Stato, Regioni, Province, Comuni) si possa risolvere con un elenco di materie, più o meno chiaramente descritte, e qualche formula magica come il principio di sussidiarietà? Si sono tolti dal testo costituzionale tutti i meccanismi che in passato avevano sviluppato canali di cooperazione: l’interesse nazionale, l’indirizzo e coordinamento, la leale collaborazione, meccanismi contorti e poco garantisti certo, spesso usati come grimaldelli per “forzare” le attribuzioni delle Regioni; ma non si è stati capaci di sostituirli con meccanismi nuovi, lasciando il testo costituzionale pieno di cancellature e basta. Il problema di fondo della Costituzione del ’48, le istituzioni del federalismo cooperativo, non è stato, non dico risolto, ma neppure affrontato. La disciplina dei rapporti tra Stato, Regione ed enti locali ha subito una riscrittura ad effetto, ma che non aiuta affatto a risolvere i problemi di funzionalità del sistema. Tutti hanno detto che la Costituzione del ’48 aveva un piede zoppo nella assenza di qualsiasi previsione di meccanismi di collaborazione, che non guardava alla realtà contemporanea che accomuna tutti i sistemi federali, sistemi altamente cooperativi, che mancavano istruzioni della cooperazione. Nella nostra Costituzione del 2001 non c’è una parola sulla cooperazione! Nulla, ma si parte da un’idea metafisica di federalismo autonomistico e paritario in cui la Repubblica si compone di Comune, Province, Città metropolitane – che però non esistono - Regioni e Stato: tutti sullo stesso piano. Bellissimo! Ma come si relazionano tra di loro questi enti sullo stesso piano? Hanno un tavolo di lavoro comune? Si dice cosa devono fare prima di agire ognuno per la sua strada? No, non c’è una parola, tutto è lasciato assolutamente senza governo, il che vuol dire che tutto è lasciato in mano al contenzioso!

Questo è un enorme errore: non è molto importante dire che un pezzo di “materia” stia da una parte piuttosto che da un’altra, anche perché materie come il governo del territorio, l’ambiente, l’istruzione ecc. non hanno una collocazione limitata, ma coinvolgono comunque tutti gli enti politici. Neppure lo Stato, per esempio, può governare il territorio contro le Regioni, contro le Province, contro i Comuni, perché – scusate la battuta - non c’è niente di più localizzato del territorio! D’altra parte solo un paese fantastico come il nostro può lasciare la sovranità assoluta in materia di urbanistica ai Comuni! È l’unico paese in Europa che lascia il governo dell’urbanistica tutto in mano ai Comuni! Il risultato è evidente, basta aprire le finestre e vedere come sono cresciute le nostre città. Può un comune della Barbagia, della costa calabrese, o dell’Appennino Tosco-Emiliano decidere di essere sovrano nell’uso del territorio avendo di fronte l’Agha Kan, la Fiat, le multinazionali del turismo? È un livello adeguato, per usare i termini della “sussidiarietà”? Quanti sono i comuni in Italia oggi che sono in grado di regolare il traffico nei centri storici? L’idea di concentrare sul comune un fascio di funzioni amministrative enorme, se non addirittura la totalità delle funzioni amministrative, è assurda. Non solo perché “comune” è contemporaneamente quello di Milano e quello di “Vattelapesca di sotto” di una manciata di abitanti, privo di qualsiasi struttura tecnica (ma titolare, magari, di beni naturali di immenso valore economico); ma anche perché pure il più attrezzato dei Comuni deve affrontare interessi economici enormi, rispetto al cui “governo” la sua dimensione organizzativa e politica è sproporzionata per difetto. È altrettanto vale per la Regione (come pure per lo Stato, in fondo).

Questo aveva in mente la Corte quando giudicava sulla base del “variabile libello degli interessi” e faceva dell’”interesse nazionale” il motore sempre acceso dell’ascensore che trasportava le competenze al centro, togliendole ai governi periferici. L’interesse nazionale è stato fatto sparire dal nuovo testo costituzionale, e non è affatto sbagliato. Ma, se dove c’è un problema, si fa sparire il problema anziché cercarne la soluzione, non si fa un bel servizio alla chiarezza! Sparito qualsiasi riferimento all’interesse nazionale, resta l’esigenza espressa dall’articolo 5 della Cost., che, se anche non fosse scritto, sarebbe implicita: l’esigenza che un sistema giuridico sia unitario mi sembra che appartenga a quelle cose, come dire, implicite veramente! Sono questioni che qualsiasi sistema federale si pone, compreso quello americano, quello tedesco o quello australiano. Tutti gli ordinamenti hanno un meccanismo che agisce per assicurare un grado, sia pure minimo, di coerenza del sistema. Il Titolo V, invece, si accontenta del solo controllo sostitutivo, meccanismo ovviamente estremo, che da solo non può bastare a governare conflitti di interesse e di indirizzo politico che si verificano di continuo e che non possono essere risolti sempre e soltanto ricorrendo ad uno strumento di tale impatto e di così complessa gestione.

 

8. Il terzo punto che mi sono prefissato è se la c.d. devolution sia un contributo utile per risolvere i punti lasciati aperti dalla riforma del Titolo V. Non lo è affatto. La riforma chiamata devolution risponde ad una tradizione italiana: un provinciale tentativo di motteggiare l’ultima moda d’importazione, tradendone completamente lo spirito. Come la devolution britannica è una risposta meditata e pragmatica ad un problema di autonomia (anzi, tre risposte pragmatiche a tre problemi diversi di autonomia, essendo Scozia, Galles e Irlanda “regioni” storiche con ben diversi statuti, tradizioni e prospettive), così la nostra “devolution” è un’improvvisata e cialtronesca boutade, che non intende risolvere nulla se non il problema su cosa litigare per i mesi futuri. Una tradizione tutta italiana, dicevo, perché ricordo ancora i tempi in cui il dibattito politico italiano si accendeva sulle lettere di Garibaldi, sulle esternazioni di Cossiga o su altri mille argomenti altrettanto perfettamente inutili, sfiorando magari la crisi di governo.

La devolution è perfetta per litigarci sopra. Non significa nulla, dal punto di vista tecnico: è assolutamente incomprensibile che cosa potrebbe modificare, nel quadro dei rapporti tra Stato e Regioni, la sua eventuale approvazione. Non ci sarebbe né lo sfascio del paese, ma neanche il benché minimo progresso sulla strada del federalismo. Non c’è niente, per il semplice fatto che questa riforma è fatta di poche parole, alcune righe, di un solo comma che andrebbe aggiunto al testo attuale della Costituzione, in cui si afferma che le Regioni potrebbero attivare “competenze esclusive” in alcune materie su cui già ora vantano la potestà legislativa. L’idea sarebbe che così le Regioni su quelle materie hanno competenze effettive. Piccolo particolare: su quelle materie le Regioni attualmente hanno già competenze effettive, esattamente le stesse che dopo la “devolution” potrebbero “attivare”. L’“assistenza e organizzazione sanitaria” non rientra negli elenchi delle competenze esclusive dello Stato, né in quello della materie “concorrenti”: qui si ritrova però la “tutela della salute”, che probabilmente guarda ad aspetti più generali del benessere fisico, della prevenzione della malattie e del diritto alla salute. È il Governo, quello stesso che propone la devolution, che non perde occasione di proporre l’interpretazione più restrittiva e statalista della “materia”. L’organizzazione scolastica e la gestione degli istituti sembra rientrare già nelle competenze “residuali” delle Regioni, assieme alla formazione professionale, dato che allo Stato sono riservate in via esclusiva le “norme generali sull’istruzione” e la sua competenza concorrente si limita ai “princìpi fondamentali” dell’istruzione; l’unica novità, almeno perché in precedenza non era esplicitata, sarebbe dunque la “definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione”, ferma comunque restando l’autonomia degli istituti scolastici. Quanto alla “polizia locale”, essa appartiene già in pieno alla competenza “residuale” delle Regioni, dato che espressamente la esclude dalla competenza statale la lett. h) dell’art. 117, co. 2. E allora?

Allora non è affatto chiaro che cosa significhi affermare la “esclusività” della potestà legislativa regionale in certe materie. Infatti restano comunque fermi i commi precedenti dell’art. 117 e, in particolare, le competenze esclusive dello Stato per ciò che riguarda i “livelli essenziali” delle prestazioni sanitarie, le “norme generali” per l’istruzione, l’”ordine pubblico” e l’”ordinamento penale”. È la stessa relazione governativa al disegno di legge costituzionale a tranquillizzare su questo punto, ribadendo l’intangibilità di questi limiti. Per cui le pretese “competenze esclusive” non sarebbero affatto sottratte agli interventi legislativi dello Stato. D’altra parte, ci immaginiamo una sanità senza la definizione dei livelli minimi dell’assistenza? No, perché resta scritto in Costituzione; per il codice civile varrebbe lo stesso, e così per le norme penali, per gli obblighi internazionali e per tutti gli strumenti di cui lo Stato deve disporre per tenere difficoltosamente insieme questo paese disciplinato da 22 legislatori locali.

Si ha perciò netta l’impressione che, se entrasse in vigore questa ulteriore riforma, il “saldo netto” per le attribuzioni regionali non sarebbe affatto positivo. A fronte di qualche opinabile arrotondamento di competenza, che si è visto non essere facile da determinare, il fatto che la Costituzione qualifichi come “esclusiva” la potestà regionale in relazione a queste singole materie potrebbe indurre l’interprete a ritenere che tutte le altre materie, quelle “residuali” ma non “esclusive”, debbano avere un’estensione minore, un qualcosa in meno rispetto a quelle definite dal nuovo comma, appunto, come “esclusive”.

Insomma, il progetto di “devolution”, sottoposto ad analisi tecnico – giuridica, non sembra avere alcuno degli effetti decisivi che il dibattito politico gli ricollega, né nel senso di un progresso verso il federalismo, né nel senso di una rottura dell’unità del sistema. Appare come un evento tutto politico e “simbolico”, del tutto incapace di risolvere i problemi che la riforma del Titolo V ha lasciato aperti, ai quali anzi sembra aggiungerne semmai di ulteriori: insomma, l’ideale per poter litigare a lungo sul niente.

 

9. Liberato il campo dalla c.d. Devolution, che per altro sembra ormai superata da nuove proposte del Governo, vediamo di fare il punto sui problemi seri che andrebbero affrontati.

Le riforme sin qui varate o proposte hanno tutte quattro caratteristiche che ne minano il disegno:

-               per definire le competenze legislative, esse perseverano nell’impiego delle vecchie tecniche, di cui già si è dimostrata la scarsa operatività: gli elenchi “di materie” e la distinzione tra “norme di principio” e “norme di dettaglio”;

-               viene eliminato dal testo costituzionale qualsiasi riferimento all’”interesse nazionale”, cioè al criterio sulla cui base la Corte aveva risolto la maggior parte dei conflitti;

-               viene introdotto, ma solo per la ripartizione delle funzioni amministrative, il principio di sussidiarietà, senza dire però come esso debba operare;

-               viene eliminato ogni segno della supremazia gerarchica dello Stato su regioni ed enti locali (la cancellazione del riferimento all’interesse nazionale ne è un segno; l’altro è l’apparente perequazione tra la legge statale e la legge regionale per quanto riguarda i limiti e le modalità di impugnazione), ed affermata, come è detto, la “pari dignità costituzionale” tra i soggetti che compongono la Repubblica: ma non viene previsto alcun meccanismo di collaborazione tra i livelli di governo.

Merita sottolineare che le “materie”, dopo la riforma del 2001, hanno perso la loro “fisicità”. Come la Corte costituzionale ha già avuto modo di osservare, alcune “materie” attribuite dal nuovo art. 117 alla competenza esclusiva dello Stato, in realtà non sono affatto “materie” in senso stretto, cioè sfere di competenza statale rigorosamente circoscritte. Ciò vale per “i livelli essenziali delle prestazioni”, com’è evidente, ma anche per la “tutela dell’ambiente”, che “investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze” ed è configurabile, più che come “materia”, “come "valore" costituzionalmente protetto (sent. 407/2002), oppure per l’”ordinamento civile” o la “tutela della concorrenza”. È molto indicativo che già nelle prime sentenze la Corte proceda a risolvere la questione attraverso l’attento esame degli interessi coinvolti nella materia in discussione. La modifica della tecnica di distribuzioni delle competenze operata dalla riforma, attraverso l’individuazione delle “materie” rimaste in mano dello Stato, sembra infatti rafforzare ancora di più il legame tra le “materie” e gli “interessi”.

Nell’ordinamento passato, infatti, il trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni avveniva partendo da precise strutture burocratiche ministeriali che svolgevano specifiche funzioni; sicché, trasferendo le funzioni insieme con le strutture amministrative e – almeno in principio – il personale, le “materie” assumevano una consistenza abbastanza precisa, quasi fisica. L’elenco delle materie di competenza regionale, contenuto nel vecchio art. 117, veniva “esplorato” e riempito di contenuti da atti di “trasferimento delle funzioni”: questi erano modellati sulle concrete funzioni svolte dalle strutture ministeriali. In teoria – perché in pratica la vischiosità della burocrazia lo ha ostacolato – il trasferimento di una funzione comportava lo smantellamento della struttura ministeriale che l’esercitava. La “materia” veniva quindi letta e riletta nel tempo e segmentata in una serie di sottomaterie e funzioni, ognuna delle quali poteva essere trasferita con ripartizione di compiti tra livelli di governo e vincoli procedurali a tutela di interessi non disponibili da parte delle Regioni e degli enti locali (per esempio, il parere con la Sovrintendenza o l’intesa con le autorità di P.S.).

Oggi, nel nuovo ordinamento, le cose non sono più così. Le materie elencate nell’art. 117, co. 2, come competenza “esclusiva” dello Stato (e, in qualche misura, anche quelle “concorrenti” dell’art. 117, co. 3,) molto spesso non hanno una consistenza precisa, non sono supportate da una precisa struttura ministeriale né sono organizzate in uno specifico corpo normativo. Non esiste un ministero dell’”ordinamento civile”, né questo corrisponde a tutto e al solo codice civile; non esiste una direzione dei “livelli essenziali”, ecc. Ancor meno chiaro è determinare quali materie restino affidate alla competenza regionale. È vero che, in linea di principio, ad esse spettano tutte le materie non attribuite, in via esclusiva o concorrente, allo Stato, ma ciò crea problemi di delimitazione dei confini e delle responsabilità difficilissimi da risolvere. Prendiamo un settore di enorme importanza, l’urbanistica. L’urbanistica ha un nucleo definitorio abbastanza preciso – la disciplina dell’uso del territorio e delle sue risorse – ma confini molto frastagliati e sfumati, ha interconnessioni molto forti: vi è, anzitutto, un aspetto civilistico, tipico della conformazione della proprietà privata e del regime vincolistico, e un aspetto penalistico, connesso alla repressioni degli illeciti urbanistici e edilizi: entrambi “tagliano” e condizionano pesantemente la potestà legislativa della Regione, potendo persino paralizzarla. Poi c’è la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, che sarebbero “materia” riservata in via esclusiva allo Stato, e la cui proiezione sull’urbanistica è evidentemente vastissima. Infine, tra le materie “concorrenti” è elencato il governo del territorio, per cui i princìpi della legislazione dello Stato vincolano la legge regionale in quella materia. Ma c’è un confine netto tra urbanistica, ambiente, beni culturali, governo del territorio? Ovviamente no; anzi, il governo del territorio è un’etichetta nuova, dai margini indefiniti: riguarda soltanto l’aspetto della conservazione degli equilibri idrogeologici o anche la tutela del paesaggio? Riassume in sé anche il governo dei corsi d’acqua e delle coste?

 

10. Come si vede la ripartizione per materie pone problemi insormontabili. Le materie si sfaldano in segmenti sempre più specifici (l’urbanistica, i centri storici, il piano della circolazione, la disciplina edilizia, l’edilizia pubblica e agevolata…), ognuno dei quali pone un intreccio particolare di interessi e perciò un coinvolgimento diverso dei soggetti amministrativi che quegli interessi hanno in cura. È insomma divenuto ancora più difficile trattare le “materie” se non si affronta l’esame del “quadro degli interessi sottostanti” e di quale sia la “incidenza su una il pluralità di interessi e di oggetti” provocata dalla disciplina impugnata (ancora sent. 407/2002). Ma la considerazione degli interessi coinvolti da una determinata tematica e del livello di legislazione più adeguato a disciplinarla è del tutto coerente con l’assunzione della sussidiarietà come criterio di assegnazione delle funzioni amministrative.

Affiora qui una delle contraddizioni di fondo dell’impianto del nuovo testo costituzionale, il fatto cioè di avere organizzato il riparto delle funzioni legislative attraverso gli elenchi di materie, mentre il riparto delle funzioni amministrative corrisponde al principio di sussidiarietà. Così sembra venir superato il principio di parallelismo delle funzioni ma non guadagna di coerenza il sistema delle competenze: l’apertura alla dimensione degli interessi coinvolti nei singoli, specifici oggetti di disciplina legislativa sembra dunque segnare un’applicazione indiretta del criterio della sussidiarietà anche alla distribuzione delle funzioni legislative; con l’ovvia conseguenza di una certa attenuazione della funzione svolta dagli elenchi di materie contenuti nell’art. 117. co. 2 e 3.

 

11. L’apparente contrapposizione tra tecnica di enumerazione delle materie, impiegata per definire le competenze legislative (e regolamentari), e principio di sussidiarietà, impiegato invece come criterio di dislocazione delle funzioni amministrative, tende quindi a dissolversi.

Il principio di sussidiarietà è stato fonte di molti equivoci nel dibattito attorno alle riforme costituzionali. Le associazioni degli enti locali lo hanno issato come se significasse qualcosa di preciso sul piano dell’assegnazione delle funzioni, e come se quel qualcosa significasse sempre e comunque più potere per i comuni. Ovviamente non è così: non a caso l’art. 118.1 del nuovo testo costituzionale associa in un’unica “stringa” i “princìpi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione”. Il principio di sussidiarietà tende (è una direttiva che la costituzione dà al legislatore ordinario che si accinga ad assegnare competenze amministrative) a suggerire che le funzioni devono essere assegnate all’ente più vicino ai cittadini, e quindi al comune; ma il principio di adeguatezza gli impongono di valutare se quell’ente sia la dimensione adeguata per esercitare le attribuzioni in questioni, o se non sia più opportuno risalire la piramide dei livelli di governo; il principio di differenziazione consente al legislatore di non trattare gli enti locali come soggetti che, all’interno della loro tipologia, devono essere trattati in modo eguale, ma di riservare l’esercizio di certe funzioni solo a quei soggetti che presentino caratteristiche “adeguate” alla missione (per esempio, solo ai comuni superiori ad una certa dimensione).

Come si vede, l’applicazione del principio di sussidiarietà rinvia a valutazioni di tipo politico, di opportunità, in tutto simili a quelle che erano implicate dall’applicazione del criterio del “variabile livello di interessi”: se questo criterio resta, anche dopo la riforma, dominante nell’opera di individuazione di chi sia titolare del potere di legiferare, l’assegnazione delle funzioni legislative e di quelle amministrative seguono le medesime strategie. Ma queste strategie fuoriescono comunque dall’esperienza del giudice, sia pure di quel particolare giudice che è la Corte costituzionale e implicano l’individuazione di apposite procedure e sedi istituzionali. Tali procedure o sedi non possono che essere composte secondo un criterio paritario ed ispirate al principio di collaborazione.

Il principio di leale cooperazione ha trovato applicazione nella giurisprudenza costituzionale come criterio normativo con cui risolvere il contenzioso sorto in relazione ai singoli procedimenti amministrativi e alla loro disciplina legislativa. La leale collaborazione (o cooperazione) è un principio costituzionale che la Corte costituzionale, a partire dalla metà degli anni ’80, ha applicato ai rapporti tra Stato e Regioni nelle “materie” in cui vi sia un intreccio di interessi e di competenze, specie se reso necessario dal perseguimento di un “valore” costituzionale comune (per esempio, la tutela dell’ambiente o la protezione dei beni culturali). Se le competenze legislative e amministrative non possono essere nettamente divise, ciò costringe lo Stato e la Regione a non agire unilateralmente, ma a cercare di coordinarsi con l’altro livello di governo, coinvolgendolo nel procedimento decisionale.

Ma il principio di collaborazione esprime anche un’esigenza, avvertita in tutti i sistemi basati sul federalismo o il regionalismo “cooperativo”, di istituire sedi stabili di collegamento tra i diversi livelli di governo, per coordinarne le decisioni politiche e l’azione amministrativa, ma anche al fine di prevenire e ridurre il contenzioso. Per questa ragione sono fioriti negli anni ’70 organismi di settore, che poi sono stati progressivamente concentrati nel “sistema delle Conferenze”, composto dalla Conferenza Stato-Regione, dalla Conferenza Stato-autonomie locali, che sommandosi formano la Conferenza unificata.

Che il “sistema delle Conferenze” sia divenuto centrale nell’architettura istituzionale dei rapporti tra Stato e regioni è dimostrato dalla mole di lavoro che affronta. La Conferenza Stato-regioni, come evidenziato dagli studi più recenti, adotta ormai mediamente circa 250 atti all’anno; è sempre più spesso richiamata dalla legislazione di settore, che affida ad essa compiti specifici di cooperazione tra livelli di governo; è assai frequentemente investita dal Governo di questioni particolarmente importanti sotto il profilo politico, anche quando non sono le norme vigenti ad imporlo. Non meno oberata è la Conferenza unificata. A fronte di un peso politico che appare in via di consolidamento, sta il fatto che le Conferenze per lo più “deliberano” senza votare. Di fatto rarissime risultano le votazioni a maggioranza, mentre per il resto tutto sembra svolgersi all’unanimità. I verbali delle riunioni si limitano a registrare “l’acquisito consenso” del Governo e dei Presidenti sul documento approvato. Come è stato opportunamente sottolineato, la supposta unanimità che risulta dalla verbalizzazione nasconde spesso conflitti tra le regioni già mediati in sede di Conferenza dei Presidenti - l’organismo di coordinamento interregionale che si riunisce sistematicamente prima della Conferenza proprio al fine di ricercare una “posizione comune” delle regioni sui punti dell’ordine del giorno della Conferenza. La tecnica di verbalizzazione delle sedute della Conferenza fotografa perciò o questioni su cui la posizione delle regioni si è già formata o questioni su cui le regioni stesse chiedono il rinvio; quando la posizione delle regioni è chiara, l’espressione di assenso del Governo sulle proposte regionali (che spesso esprimono osservazioni integrative o fanno riferimento ad emendamenti già concordati in sede tecnica con i rappresentanti del Governo) o del “Presidente dei Presidenti” su quelle del Governo “fissa” la decisione.

Un elevato tasso di informalità domina dunque il funzionamento delle due Conferenze: ma ciò non deve affatto sorprendere, perché è perfettamente coerente con ogni altro tratto che le caratterizza. Sono organi essenzialmente politici sia come composizione che come modalità di funzionamento ed “efficacia” dei propri atti. Proprio aver tenuto le Conferenze ad un basso grado di definizione delle procedure formali di deliberazione è stata forse una scelta saggia, in passato. È stato possibile infatti, per questa via, che le uniche sedi istituzionali di collaborazione introdotte nel nostro sistema si radicassero nella prassi e acquisissero un ruolo politico di tutto rilievo, senza rischiare che i formalismi procedurali soffocassero organismi che già tanta difficoltà incontrano nel sopravvivere alla polarizzazione degli schieramenti e alla radicalizzazione della lotta politica.

 

12. Sta di fatto a tutt’oggi è il sistema delle Conferenze l’unica istituzione della cooperazione interistituzionale in Italia. La riforma del Titolo V, per questo profilo, è del tutto deludente, non essendo riuscita a introdurre nulla di più del palliativo costituito dall’integrazione, per il resto solo eventuale, della Commissione bicamerale per gli affari costituzionali con una rappresentanza delle autonomie: un organismo di scarsissima utilità, che per di più stenta a prendere vita per le enormi difficoltà di istituirlo e disciplinarne composizione, compiti e modalità di funzionamento.

A poco valgono le promesse, contenute in tanti documenti e persino in alcuni disegni di legge costituzionale, che il prossimo passo sulla strada del federalismo sarà la riforma delle istituzioni costituzionali, per immetterci la rappresentanza delle autonomie. È una promessa che si ripete ormai da tempo, e che forse è giunto il momento di sfatare.

Il primo problema è la questione del Senato delle Regioni. Questione molto seria e molto ambigua. Da che cosa nasce il bisogno di un Senato delle Regioni? Nasce da una semplice e ovvia notazione: mettiamo che si debba decidere la politica dell’ambiente o la riforma della ricerca applicata all’industria: come lo si fa? Ciascuna Regione decide per sé e poi si cerca di trovare accordi a livello nazionale? È una strada piuttosto difficile, lunga ed inefficiente. Non sarebbe meglio che la legge la facesse lo Stato con l’accordo delle Regioni, cioè la decidessero insieme? La risposa ovvia è sì. Anche perché se la Regione scrive la legge insieme allo Stato, cercherà di scriverla in modo che corrisponda alle proprie esigenze e di conseguenza non avrà né bisogno di fare poi una legge diversa, né tanto meno di contrastare la legge dello Stato impugnandola di fronte alla Corte costituzionale. Basterebbe una legge nazionale, che però sarebbe una legge di tipo “federale”, perché nata da un patto, un accordo tra i diversi livelli di governo.

Ora, siccome le leggi le fa il Parlamento, la soluzione più ovvia sarebbe che, accanto ad una Camera “politica”, frutto di elezione diretta dei rappresentanti del popolo intero, ci sia una Camera che invece rappresenti le Regioni. Più o meno questa è il principio di tutti i sistemi federali. Il problema è come attuarlo: ma a questo problema è dedicato un altro contributo in questo volume. Tuttavia preme qui sottolineare che la “regionalizzazione” del Senato, se indubbiamente può costituire, oltre al superamento del nostro inutile “bicameralismo perfetto”, un modo per razionalizzare la produzione legislativa tanto statale che regionale, non basta a risolvere i problemi di coordinamento propri di un sistema cooperativo. Molto dipende ovviamente da come il Senato federale venga disegnato.

Si potrebbe proporre un teorema: tanto più il Senato federale è numeroso, basato sull’elezione diretta dei suoi membri, rappresentativo sia della maggioranza che delle minoranze politiche di ciascuna regione, tanto meno serve come sede di cooperazione, perché la sua vocazione “politica” è destinata a prevalere sulla rappresentanza dei territori. Come funziona un’assemblea legislativa, quali interessi essa rappresenta, lo vediamo al momento in cui essa vota: se al momento del voto, essa si divide e si coagula secondo gli schieramenti politici e non secondo gli schieramenti territoriali, quell’assemblea legislativa non è capace di risolvere il nostro problema, non è uno strumento utile al fine che ci siamo dati. Le leggi che usciranno da quell’assemblea potranno essere le migliori leggi del mondo, ma saranno necessariamente delle leggi “centraliste”: gli schieramenti politici non possono che cercare di risolvere in Parlamento i problemi del paese, e quando, dopo il  faticoso iter parlamentare, le dure trattative tra i partiti riescono a produrre un accordo, non possono che aspirare a imporlo a tutto il territorio nazionale, e cercare di evitare in ogni modo che qualche Vandea impedisca l’applicazione della riforma faticosamente varata. Il centralismo non è patologia della politica nazionale, è la sua fisiologica inclinazione. Ma questo significa conflitto sistematico tra il legislatore “riformatore” nazionale e le autonomie. Esattamente la malattia che vediamo tormentare il nostro paese e della cui cura vorremmo occuparci riformando il procedimento di formazione delle leggi statali.

Oltretutto il problema del coordinamento e della cooperazione non si risolve affatto nel momento legislativo. Sicuramente è indispensabile che le leggi dello Stato che interferiscono nelle attribuzioni legislative, amministrative e finanziarie delle Regioni ottengano il consenso di chi rappresenta le regioni: ciò vale per tutte le leggi sulle materie “trasversali” riservate alla legislazione esclusiva dello Stato (“livelli essenziali”, “funzioni fondamentali”, “ambiente” ecc.), e per tutte le leggi di “principio” nelle materie concorrenti; ma ciò vale anche per la legge finanziaria e i suoi collegati, nonché per la legge “comunitaria”. Qui si vede la contraddizione dell’idea, oggi molto in voga presso i politici italiani, di un Senato federale eletto direttamente: o le competenze che vengono riconosciute ad esso sono del tutto marginali (verrebbe da dire “provinciali”), e allora se ne umilia la composizione politica; oppure si rischia di creare un’Assemblea politica che – specie nell’ipotesi di elezione contestuale dei suoi membri con il Consiglio della regione cui appartengono – ha buone probabilità di avere una maggioranza politica diversa da quella della Camera e che ne riesce a paralizzare i lavori.

Ma accanto alla cooperazione sul piano della legislazione, la maggior parte del coordinamento ha contenuto necessariamente amministrativo. Non è pensabile infatti che il problema della fissazione dei livelli essenziali delle cure termali, la “determinazione delle modalità di assegnazione delle risorse derivanti dal pagamento degli oneri supplementari a carico dei mezzi d'opera agli enti proprietari di strade” o il “riparto tra le Regioni e le Province autonome delle risorse previste per gli interventi di prevenzione e difesa dagli incendi del patrimonio boschivo nazionale” (cito a caso dall’o.d.g. della Conferenza Stato-Regioni) sia affrontato da una Camera legislativa e risolto in forma di legge. Qui sono anzitutto le burocrazie a dover istruire le decisioni e gli esecutivi a trattare ciò che ha rilevanza. In ciò si esaurisce buona parte delle attività del Bundesrat in Germania: ed è questo il compito che viene espletato dal sistema delle Conferenze in Italia. Solo una cattiva semplificazione del discorso porta a considera il Bundesrat tedesco come una seconda Camera. Non è affatto vero: il Bundesrat è un organo che, sin dalle sue origini ottocentesche, sta a sé: nessuna ambizione di essere un ramo del Parlamento, nessuna investitura democratica, se non quella che deriva dall’essere membro di un governo regionale; i ministri regionali che lo compongono rappresentano esclusivamente gli interessi del Land cui appartengono e che concorre a governare. Il Bunderat partecipa alla formazione delle leggi, di una certa quota di leggi, ma non è affatto un “Senato”.

Qualcosa del genere in Italia già c’è, e si chiama Conferenza dei Presidenti delle regioni, che a sua volta concorre a comporre altri organi, previsti dalle leggi dello Stato, di coordinamento dei governi delle regioni e del governo nazionale, la Conferenza Stato-regioni. Allora, se davvero volessimo risolvere quella che, a detta di tutti, è la madre di tutti i problemi del regionalismo in Italia, non è indispensabile intraprendere la difficile e sproporzionata strada della riforma del Parlamento. Basterebbe introdurre in Costituzione la previsione che sia istituita la Conferenza dei Presidenti delle regioni e che tutte le leggi che riguardano le Regioni devono essere approvate dalla Conferenza dei Presidenti. Poche regole procedurali sulla formazione delle leggi, insomma, e avremmo risolto il problema senza dover incidere sulla complicata mitologia delle istituzioni rappresentative, ma con una soluzione semplice, a basso costo ed alta efficacia.

Il che non significa che non vi debba essere in parallelo una progressiva “regionalizzazione” del Senato. La prospettiva di un sistema di governo a più livelli non può che prevedere più sedi di coordinamento, per cui, accanto al coordinamento tra esecutivi, potrebbe utilmente istituirsi un coordinamento tra legislativi, ripartendo responsabilità e ruoli. In questa ottica, anche una riforma del Senato che in qualche modo vi inserisca rappresentanze “politiche” democraticamente elette dai territori può essere utile e funzionale. Ma questo – a mio avviso – non può essere né l’unico né il primo passo da compiere: il primo passo è semmai la costituzionalizzazione della Conferenza dei presidenti di regione. Si tratterebbe però di una riforma piccola, con poco “colore” simbolico, e per di più molto efficace: esattamente l’opposto di quanto perseguono di solito i nostri riformatori.

 

13. L’ultimo problema riguarda il giudice dei conflitti tra Stato e regioni: la Corte costituzionale. Con significativa inversione dell’ordine logico, nella relazione al disegno di legge Bossi di “devolution” si dice che la “devolution” sarà il primo passo del progetto federalista, che poi sarà seguito dalla riforma della Corte costituzionale e dalla riforma del Senato. Ordine sbagliato perché va invertito. Ma la ragione dell’inversione è che la Corte costituzionale è accusata apertamente dalla Lega di essere una nemica delle Regioni.

Alla Corte costituzionale noi dovremmo invece erigere un monumento, perché di fronte a 50 anni di insipienza del legislatore statale e di incapacità dei politici nazionali a capire i problemi del regionalismo in Italia, e quindi di introdurre i necessari accorgimenti istituzionali, si è fatta carico di risolvere i problemi delle relazioni tra Stato e Regioni attraverso le proprie sentenze. Molto spesso problemi politici sono stati camuffati da problemi giuridici, è ovvio, visto che la Corte costituzionale è un giudice e solo di diritto si può occupare; ma a ciò si è piegata in funzione di supplenza. Incolpare il supplente per aver fatto male il proprio compito lo possono fare tutti, ma non il supplito!

Il problema si risolverebbe nel momento in cui noi eliminassimo il contenzioso introducendo sedi di codecisione. Avessimo noi un procedimento legislativo che consenta di fare le leggi insieme alle Regioni avremmo ridotto in maniera determinante, fisiologicamente come in Germania, qualsiasi contenzioso. I rapporti ridiverrebbero politici, gestiti in sede politica, e non in quella giudiziaria. Il problema oggi è proprio di ridare il suo spazio alla politica. La contrattazione tra Stato e Regioni deve essere gestita con gli strumenti della politica e non deve essere fatta tramite gli avvocati e di fronte a un giudice. Ma se oggi è fatta dagli avvocati di fronte a un giudice non è colpa del giudice, è colpa di chi incarica gli avvocati: e allora è questo il primo passo, trovare le sedi di contrattazione politica di cui già si è detto, in modo da disinnescare il contenzioso. Poi si potrà anche pensare a riformare la Corte.

Perché bisogna riformare anche la Corte costituzionale? Perché è debole l’idea di avere un sistema di forte regionalismo o di federalismo in cui lo Stato, le Regioni, gli Enti Locali stanno sullo stesso piano, ma, al contempo, mantenere fermo che il giudice, l’arbitro dei conflitti tra questi soggetti paritari, è un organo dello Stato, non un organo terzo rispetto alle parti. In tutti i sistemi federali la Corte Costituzionale è composta dalle due parti, secondo le regola di tutti i collegi arbitrali. Il problema quindi c’è, e anche in questo caso le soluzioni possibili, poco costose e armoniose non sarebbero affatto difficili da trovarsi.

L’attuale composizione della Corte è frutto di grande saggezza. Benché il problema dei costituenti fosse essenzialmente quello di bilanciare le componenti “tecniche” (in primo luogo quelle provenienti dalla magistratura), giudicate per loro natura troppo conservatrici, con componenti “politiche” più innovative, alla prova dei fatti si è realizzato un importante equilibrio tra componenti che provengono dai due principali interlocutori della Corte: i giudici, che con i loro ricorsi danno “lavoro” alla Corte, e il Parlamento, delle cui leggi la Corte è giudice e che alle sentenze della Corte dovrebbe dare seguito con nuove leggi.

Non vi è dubbio che in uno Stato centralizzato, “regionale” ma non federale, le Regioni non potevano reclamare una propria proiezione nella Corte costituzionale. Questa, infatti, ha in cura la legalità costituzionale dell’ordinamento nel suo complesso: le questioni che nascono in relazione a leggi o ad altri atti delle Regioni sono viste non come semplici vertenze sorte tra due soggetti istituzionali, che la Corte è chiamata ad arbitrare, ma come problemi di compatibilità dell’atto in questione con l’intero ordinamento giuridico generale e i suoi diversi livelli di “princìpi”. In questa prospettiva, la composizione della Corte è il riflesso della supremazia dello Stato nei confronti delle Regioni.

Se una delle grandi innovazioni prodotte dalla riforma del Titolo V è la parziale attenuazione della supremazia dello Stato nei confronti delle Regioni, non c’è dubbio che sia legittimo prospettare un nuovo assetto della Corte costituzionale, coerente con i nuovi rapporti. Il rapporto paritario che ispira il sistema federale – e che è fatto intravedere dall’art. 114 Cost. - deve esprimersi anche nella composizione dell’arbitro dei conflitti, la Corte costituzionale. Non è un caso che l’introduzione giudici di designazione regionale fosse contenuta già in diverse proposte avanzate in passato da parte regionale e dalla stessa dottrina regionalistica dei primi anni ’70. Il problema è come raggiungere questo obiettivo senza compromettere l’equilibrio di un organo così delicato qual è la Corte costituzionale.

Il problema più difficile è il modo di designazione dei giudici “regionali”. L’ipotesi di affidare tale compito direttamente ai Presidenti delle Regioni o ai Consigli regionali appare poco accettabile perché viene a istituire una sorta di “mandato regionalista”, che può apparire incompatibile con quella che dovrebbe essere la funzione del giudice costituzionale, e cioè la tutela della Costituzione in sé e per sé. Si sommano dunque due problemi diversi:  chi designa i giudici “di parte regionale” e quanto l’equilibrio della Corte possa sopportare che in essa siano immessi giudici “di parte”.

Anzitutto, impostato così il problema, si mostra con chiarezza una volta di più come l’ordine delle precedenze indicato dalla relazione al disegno di legge costituzionale “Bossi” inverta l’ordine logico. La riforma della Corte costituzionale dovrebbe infatti seguire, e non precedere, la riforma del bicameralismo o, comunque, l’istituzione di un organo costituzionale di rappresentanza delle Regioni. A parte che, istituendo una sede appropriata per la “cooperazione” tra Stato e Regioni, si ridurrebbe drasticamente il contenzioso, si sarebbe così risolto anche il problema di chi e come procede alla designazione dei giudici della Corte “di parte regionale”. Se poi si volesse risolvere ad un tempo il problema di preservare la “neutralità” della Corte con la sua efficienza, la soluzione possibile sarebbe quella di istituire, in seno alla Corte, una sezione, o un tribunale di primo grado per le controversie “federali”, formato in modo paritetico da giudici “statali” e giudici “regionali”, salvo la possibilità di appello alla Corte quando siano in questione diritti fondamentali.

Insomma, si deve riconoscere che un sistema ad elevato tasso di regionalismo, in cui Stato e Regioni stiano su piani non gerarchicamente differenziati, non può funzionare correttamente senza un giudice dei conflitti di tipo “arbitrale”, così come non si può negare che il decentramento del contenzioso Stato – Regioni consentirebbe un miglior funzionamento della Corte costituzionale, decongestionandone i lavori. Le soluzioni tecniche non mancano di certo. Il fatto è, però, che si tratta di porre mano alla riforma di un organo, la Corte costituzionale, che, proprio per il suo ruolo di difesa della legalità costituzionale nei confronti del legislatore ordinario – e quindi della maggioranza parlamentare – è spesso al centro della critica politica. Lo Stato di diritto si basa sulla contrapposizione del diritto alla politica, e la Corte costituzionale è chiamata a garantire, al massimo livello, la prevalenza delle regole sulle scelte della maggioranza politica di turno. In un paese in cui dai protagonisti politici sono largamente ignorate e diffusamente disapplicate le regole giuridiche e di correttezza che presiedono al funzionamento della democrazia, l’allarme che suscita ogni accenno a riforme della composizione della Corte costituzionale è di conseguenza più che giustificato.