L’amministrazione coordinata e integrata
Roberto Bin
Credo di poter rivendicare, con Marco Cammelli e Nico Falcon, la paternità del Consiglio delle autonomie. L’idea ci era venuta scrivendo quello che poi è passato, nel periodo dei lavori della “Bicamerale”, come il “progetto emiliano” del federalismo, ed è poi stato trasfuso in un volumetto, a cura di Luigi Mariucci, “Il federalismo preso sul serio”. Ci era venuta nel tentativo di individuare un modo per rendere operativo il principio di sussidiarietà, di “ingegnerizzarlo”. La sussidiarietà significa assetto flessibile delle competenze, cooperazione nella ricerca nel modo più efficiente di esercitarle, e perciò istituzioni dove la cooperazione trovi sedi operative. Così come – allora si ragionava – a livello statale sono le regioni a dover partecipare, in un Senato riformato, alle decisioni nazionali, simmetricamente, a livello regionale, nel Consiglio delle autonomie sono gli enti locali a condividere la responsabilità delle decisioni.
Devo confessare che oggi mi sento, se non proprio un padre pentito, un padre perplesso. L’esperienza di questi anni delle regioni in cui quei Consigli sono stati istituiti non è brillantissima; ed ho l’impressione che, se isolato da altri meccanismi istituzionali di “ingegnerizzazione” della sussidiarietà, il Consiglio delle autonomie può suscitare più problemi di quanti riesca a risolvere. I Consigli si sono rivelati organi estremamente complessi, formati con alchimie complicatissime, in cui non tutti si sentono rappresentati, forse nessuno. Comuni capoluogo a fianco di comuni minori e delle Province, comuni di montagna e comuni di pianura, comuni agricoli, comuni industriali e turistici. Il Consiglio delle autonomie finisce con essere non il luogo in cui si rappresentano gli enti locali come interlocutori della Regione, ma il luogo in cui la Regione mette gli enti locali a discutere tra di loro perché si stemperino a vicenda.
Non voglio affermare che il Consiglio delle autonomie sia uno strumento inutile né che sia il caso di cancellarne la previsione. Vorrei suggerire piuttosto che, prima di tracciarne nello Statuto il disegno organizzativo, sarebbe preferibile pensare a cosa il Consiglio può concretamente fare, quali siano le decisioni rispetto alle quali esso possa essere effettivamente rappresentativo degli interessi degli enti locali nel loro complesso. Se riflettessimo su questo, forse concluderemmo che le camere delle autonomie non possono essere altro che un surrogato dell’Anci e dell’Upi, ossia delle associazioni di categoria che, come tali, rappresentano gli interessi indistinti dell’insieme di enti di un determinato livello: interessi degli enti in quanto tali, non delle popolazioni che essi amministrano. Se è vero che – al contrario di quel che pensano Anci e Upi– la sussidiarietà non esprime l’interesse “sindacale” degli enti, ma l’interesse all’autoamministrazione dei cittadini, i Consigli delle autonomie si rivelano sorprendentemente uno strumento estraneo alla sussidiarietà, perché, se saranno composti con le inevitabili attuali alchimie, resteranno organi di rappresentanza degli enti, presi come categoria, e non dei territori e delle popolazioni che essi amministrano. Né, d’altra parte, vi sono alternative, perché territori e popolazioni hanno già la loro sede rappresentativa, il Consiglio regionale: se il Consiglio delle autonomie volesse e potesse divenire sede di rappresentanza dei territori, non solo verrebbe diviso da tutte le linee di contrapposizione tra gli interessi territoriali ma, per di più, si ritroverebbe in concorrenza politica e conflitto istituzionale con il Consiglio regionale.
La progettazione del Consiglio delle autonomie è quindi un problema oggettivamente difficile: perché, se gli si assegnano poche competenze, rischia di farsi corrodere dall’acido dell’inutilità, sicché altre forme di coordinamento e sedi di confronto si svilupperanno informalmente; se invece sono molte le decisioni che gli sono affidate, si rischia la paralisi decisionale e il conflitto istituzionale con il Consiglio regionale. Definire la giusta dimensione operativa del Consiglio delle autonomie richiede perciò un lavoro di grande attenzione, senza fughe ideologiche o derive pubblicitarie. È probabile che convenga limitare la funzione del Consiglio delle autonomie alla legge finanziaria e di bilancio,agli atti di programmazione generale (quelli cioè che distribuiscono risorse sull’intero territorio regionale) e a poche leggi ordinamentale, perché è in relazione ad atti di questo tipo l’interesse a controllare che la Regione non resti vittima di revanscismo centralistico accomuna tutti gli enti locali su un unico fronte, mentre, d’altra parte, è giusto che questo fronte di divida, discuta e si ricomponga quando si tratta di ripartire la spesa regionale.
Tutto diverso è il discorso quando si tratti di interventi che siano localizzati o localizzabili, per ragioni di “vocazione” dei territori. Per questi interventi il Consiglio delle autonomie non è una sede istituzionale adatta, ed altre forme e sedi di cooperazione vanno individuate. Bene sarebbe che gli Statuti regionali, anziché occuparsi di definire i princìpi programmatici più elevati (e più inutili) o di bloccarsi in una visione angusta e impudica della politica (su come i consiglieri regionali possano spendere il proprio mandato cercando di diventare assessori: ossia, in termini solo un po’ più nobili, come il Consiglio regionale possa minare la stabilità dell’esecutivo senza rischiare di essere precocemente sciolto), si preoccupassero di ristabilire la geometria dell’assetto istituzionale dei rapporti tra Regione ed enti locali individuando altri meccanismi da affiancare al Consiglio delle autonomie, in modo da decongestionare le attività attribuite a questo organo e migliorare la “ingegnerizzazione” dei princìpi di sussidiarietà e di cooperazione.
Provo ad avanzare alcune ipotesi, organizzandole lungo tre direttrici; le quali muovo tutte da questo interrogativo: come possono gli Statuti organizzare i rapporti tra Regione ed enti locali in modo da massimizzare le forme di cooperazione e di minimizzare le ragioni di conflittualità?
la prima ipotesi potrebbe rispondere al problema, illustrato da Rosanna Tosi, dei rapporti tra normativa regionale di settore e autonomia regolamentare degli enti locali. Il problema potrebbe essere risolto, disinnescando in parte il contenzioso tra Regione e enti locali, da una norma dei nuovi Statuti regionali che dicesse “le disposizioni delle leggi e dei regolamenti regionali che disciplinano l’organizzazione e le procedure amministrative di attuazione restano in vigore sino all’emanazione dei regolamenti degli enti locali ai sensi dell’art. 117.6 Cost.”. Si potrebbe aggiungere che tali regolamenti non possono derogare alle norme legislative che prevedono la partecipazione al procedimento di soggetti che rappresentano interessi pubblici diversi da quello dell’ente in questione. E’ bene che una norma di questo tenore sia prevista dagli Statuti, perché la Regione deve fare un passo indietro e riconoscere agli enti che sono politicamente responsabili la piena autonomia nell’individuare i propri strumenti operativi e i modi di organizzare la propria attività. D’altra parte, come è accaduto in passato (e ritengo che accadrà anche dopo la riforma del Titolo V) nei rapporti tra legge statale “di principio” e legge regionale “concorrente”, è opportuno che le leggi innovative abbiano una strumentazione normativa che consenta ad esse di operare immediatamente anche laddove gli enti che devono attuarla siano inerti: se poi quegli enti desiderano restare inerti, ne risponderanno ai cittadini, ma l’attuazione della legge non ne viene compromessa, così come non resta compromessa (se non dalla propria inerzia) l’autonomia normativa dell’ente attuatore.
Per questa via si potrebbe raggiungere anche un risultato ulteriore. I regolamenti espressione dell’autonomia locale verrebbero a saldarsi con la normativa regionale, sostituendosi alle norme “suppletive” e integrandone le fattispecie normative. Potrebbe allora la Corte costituzionale negare alla Regione l’interesse a ricorrere contro gli atti statali che incidessero sull’autonomia comunale e provinciale? Non credo: penso invece che per questa via l’autonomia degli enti locali, “costituzionalizzata” a parole dalla riforma del Titolo V, potrebbe trovare finalmente la strumentazione necessaria alla sua tutela giurisdizionale, perché il “sistema regionale” apparirebbe come qualcosa di coeso e non sezionabile. Verrebbe valorizzato quello che più volte la Corte ha definito “il ruolo regionale come centro propulsore e di coordinamento dell’intero sistema delle autonomie locali”: ma spetta ancora agli Statuti trasformare questo che è ancora solo poco più di uno slogan in un principio adeguatamente strumentato.
Un altro piano su cui lo Statuto dovrebbe istituire meccanismi utili alla cooperazione è quello della programmazione. Parola abusata negli Statuti del ’70 e nella agiografia regionalistica del tempo: tuttavia sul piano della programmazione si gioca una parte importante dei rapporti tra Regione ed enti locali. Gli Statuti dovranno preoccuparsi dei rapporti tra Giunta e Consiglio regionale nell’approvazione dei piani e dei programmi, ma quella prospettiva non è indipendente dall’assetto dei rapporti tra Regione ed enti locali. Si tratterà di individuare quali siano i programmi che devono necessariamente essere approvati dal Consiglio regionale, quali dovranno passare per il Consiglio delle autonomie, quali gli strumenti di verifica sull’attuazione di uno e dell’altro organo. Ma che sia il Consiglio delle autonomie a seguire tutti i programmi, generali o di settore, localizzati o non localizzati, mi sembra alquanto improbabile. Da un lato mi sembrerebbe utile che il Consiglio delle autonomie esprima comitati tecnici o “cabine di regia” che affianchino l’esecutivo per seguire costantemente l’implementazione delle politiche pubbliche di settore. Dall’altro mi sembrerebbe opportuno immaginare una soluzione istituzionale anche per assicurare il necessario collegamento tra le amministrazioni regionali e quelle locali nell’attuazione dei piani territoriali e delle altre forme di programmazione negoziata di cui le Regioni hanno fatto felice esperienza.
Il Sindaco Sateriale ha raccontato le difficoltà di collegare l’amministrazione locale ai programmi regionali. La programmazione, presa sul serio, significa innanzitutto coordinamento, e quindi superamento delle divisioni di competenze e la incomunicabilità tra le routine delle diverse amministrazioni. La programmazione degli anni ’70 è fallita anche per questo: si è rinominato programma o progetto ciò che è la solita prassi di ciascuna amministrazione: quando imperava il PPBS (planning, programming, budgeting system), in qualche bilancio regionale anche l’acquisto di cancelleria era diventato “progetto”. Se la programmazione deve diventare qualcosa di diverso dalla riclassificazione dei capitoli di spesa dei bilanci, è necessario che il coordinamento delle diverse strutture amministrative impegnate sia organizzato in modo efficiente e sia assicurata l’esigenza che la logica del programma prevalga sulla logica delle singole burocrazie. E allora, perché non prevedere che il Presidente della Regione possa nominare “alto commissario” per l’attuazione del programma proprio il Sindaco del comune più direttamente coinvolto, dotandolo dei necessari poteri di coordinamento anche delle strutture amministrative regionali? Nessuno più di lui ha interesse al successo del programma, degli esiti del quale è comunque chiamato a rispondere ai suoi elettori.
Terza prospettiva. La programmazione è innanzitutto programmazione finanziaria. Non ho ancora letto una sola bozza di riforma degli Statuti che affronti in modo non ottocentesco il problema della programmazione finanziaria, quasi che il sistema dei bilanci non fosse uno degli elementi determinanti della forma di governo, come ci insegna invece la storia del costituzionalismo moderno. Sembra che si sia persa nella memoria storica della nostra classe politica l’idea stessa che il bilancio sia uno degli strumenti fondamentali di governo. Certo lo Statuto non può diventare la disciplina della contabilità regionale, ma deve introdurre i necessari principi innovativi, elencandoli magari come “contenuti necessari” della legge di contabilità. Per esempio, può e deve affrontare il problema dell’efficacia giuridica della programmazione pluriennale, perché non è affatto detto che il bilancio o i programmi pluriennali non debbano avere riflessi precisi e fortemente condizionanti sui bilanci annuali. Nulla impedisce, per esempio, che lo Statuto preveda che la spesa prevista dai programmi – solo quelli debitamente discussi e approvati dal Consiglio regionale e dal Consiglio delle autonomie, magari in forma di legge – abbia precedenza, costituisca una invariante, rispetto ai bilanci annuali. Così sì che la programmazione diverrebbe il modo privilegiato dell’azione regionale. Per questa via, e con qualche accorgimento ulteriore, si produrrebbe l’ulteriore risultato di dare sicurezza “programmatoria” agli enti locali.
Non si dimentichi che su “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” le Regioni hanno potestà legislativa concorrente: rispettati i princìpi fissati dalla legislazione dello Stato (che altro non possono riflettere che l’interesse dello Stato a un sistema di bilanci che garantiscano i parametri comunitari e che parlino un linguaggio condiviso), spetta alle Regioni immaginarsi un sistema “armonico” di programmazione finanziaria in cui inserire se stessa e gli enti locali. Verso la metà degli anni ’70 le Regioni erano riuscite, pur con molta minore autonomia legislativa, ad introdurre principi innovativi di contabilità, che avevano anticipato la legislazione dello Stato. Questo è il momento di ricuperare quello spirito innovatore e di farne la guida nell’uso di strumenti legislativi assai più vasti, ragionando proprio nell’ottica non di una Regione come ente a sé stante, ma come “centro propulsore” di un sistema amministrativo integrato
Come si vede, se si assume l’ottica del sistema, lo Statuto acquista il significato strategico di principale strumento per restaurare, dopo la riforma del Titolo V, la geometria delle istituzioni. Tanto più grave appare perciò la prevalenza di temi del tutto autoreferenziali nel dibattito cui si assiste attualmente nei Consigli regionali e nelle loro commissioni “statuto”. Questa è un’ottica che condurrà inevitabilmente ad accentuare le ragioni di contrapposizione tra le Regioni, tutte prese a suddividere tra i propri organi ruoli e pesi politici (forse più teorici che effettivi), e gli enti locali, i quali nella Regione non possono vedere altro che un’inutile interposizione, autoreferenziale appunto. Non sarà certo l’istituzione del Consiglio delle autonomie a colmare da sola quella frattura. Mentre, se la Regione cercasse la collaborazione delle autonomie locali per fare dello Statuto la carta fondante il “sistema”, anche il Consiglio delle autonomie vi troverebbe un ruolo preciso. Lo Statuto introdurrebbe princìpi innovativi che saranno sviluppati dalla successiva legislazione ordinamentale: di questa il Consiglio delle autonomie dovrebbe essenzialmente occuparsi, diverse potendo essere le forme e le sedi di cooperazione per tutte le altre questioni.