DEL FEDERALISMO ASIMMETRICO ALL’ITALIANA E DI ALTRI MOSTRI DELLA FANTASIA COSTITUENTE
Il Relatore del Comitato “Forma di Stato” della Bicamerale, prof. Francesco D’Onofrio, ha lanciato la sua provocazione. Che di provocazione si tratti lo ha affermato egli stesso, commentando in più sedi il testo presentato ufficialmente. Ma una provocazione nei confronti di chi?
La provocazione è diretta a tutti i membri della Commissione Bicamerale che ancora non si sono resi conto che introdurre il federalismo in Italia non è un passo da poco, un evento arginabile in periferia, privo di conseguenze per l’assetto dello Stato centrale. Ed è indirizzata in particolare a coloro che, dentro e fuori la Bicamerale, hanno respinto il federalismo d’ispirazione tedesca, proposto in particolare dalle Regioni, equivocando (il che ci fa già intendere il livello del dibattito) il carattere “cooperativo” che qualifica il modello federale tedesco con l’aggettivo più screditato del lessico politico italiano d’oggi: “consociativo”. Da qui l’improvvisa rivalutazione del federalismo “competitivo” (anticonsociativo per eccellenza), salvo poi, di fronte alle prevedibili conseguenze dell’applicazione di un modello siffatto, temperarne la portata con la geniale invenzione di un ossimoro che prosegue la tradizione politico-linguistica italiana (quella delle “convergenze parallele” o del “partito di lotta e di governo”, per intenderci): l’invenzione mostruosa del federalismo “competitivo e solidale” (D’Alema).
Dovendo rinunciare quindi alle suggestioni del modello tedesco, D’Onofrio ripiega su un modello di federalismo ispirato a due idee che sono molto accreditate nel dibattito attuale: la sussidiarietà e l’assetto asimmetrico dei poteri. Sono due idee spacciate anch’esse come generi d’importazione, ma che hanno invece da tempo in Italia una loro versione casereccia.
La sussidiarietà non è idea diversa dal “variabile livello degli interessi” che la Corte costituzionale ha da decenni assunto come criterio guida nel valutare la ripartizione dei compiti tra Stato, Regioni e enti locali. Il problema è che, senza le procedure di codecisione che rappresentano (in Germania come nell’Unione europea) le garanzie procedurali nella valutazione del “livello dell’interesse”, la sussidiarietà perde qualsiasi significato di regolazione giuridica del riparto di competenze. Per cui, quando D’Onofrio propone la “pariordinazione costituzionale” dei Comuni, delle Province e delle Regioni (“La Repubblica è costituita da Comuni, Province, Regioni e Stato”), per poi aggiungere che le funzioni sono ripartite tra questi soggetti “sulla base del principio di sussidiarietà”, e concludere che “a tutela delle funzioni amministrative e regolamentari proprie, i Comuni e le Province possono ricorrere contro le leggi della Regione e dello Stato direttamente alla Corte costituzionale”, egli non sta affatto proponendo una innovazione radicale nel sistema italiano delle autonomie: sta solo costituzionalizzando ciò che in Italia è avvenuto a seguito del fallimento del Titolo V della Costituzione in quanto regola di riparto delle funzioni, ossia la via giudiziaria al federalismo. L’enorme contenzioso costituzionale tra Regioni e Stato circa il riparto delle competenze (ossia la valutazione del “livello dell’interesse”), invece di essere superato con l’istituzione di serie e stabilizzanti procedure di codecisione, viene esteso, consentendo anche agli enti locali di accedervi.
L’assetto asimmetrico dei poteri regionali, ossia il “regionalismo differenziato”, è sì un’invenzione del costituzionalismo spagnolo, ma la sua funzione originaria era di dare gradualità, “processualità” alla riforma regionale, creando un regime transitorio che consentisse di arrivare a un pieno assetto regionale attraverso la politica della “doppia velocità”: un regime transitorio che ha prodotto molti inconvenienti e tante critiche, tanto da essere poi stato abbondantemente rivisto e attenuato. Per cui il “modello spagnolo” attuale è assai diverso dalla visione mitologica che ne hanno alcuni dei nostri neo-costituenti. Del resto, che le nostre Regioni (quelle ordinarie, s’intende) possano avere competenze diverse non è un’idea così originale: in parte essa è già attuata - attuata, come il solito, per via giurisprudenziale. Che cos’è se non un’ attuazione del principio di differenziazione il fatto che le leggi dello Stato possano disciplinare anche il dettaglio della materia “ripartita”, direttamente abrogando le precedenti leggi regionali contrastanti, salvo la possibilità delle Regioni, se vogliono, di sostituire la disciplina statale con una propria legislazione? E che cos’è di diverso il principio per cui la Regione non può lamentare la violazione delle proprie attribuzioni se non le ha ancora esercitate? oppure che la Corte costituzionale può dichiarare illegittimo un atto dello Stato nei confronti della sola Regione che ha dettato una propria disciplina della materia?
L’idea lanciata da D’Onofrio è invece che l’asimmetria si raggiunga per questa via: che ogni Regione scelga quali competenze intende svolgere, scrivendole nel proprio Statuto, Statuto approvato poi con legge costituzionale. E lo Stato? Lo Stato è una figura di risulta, che si ricava per sottrazione dalle cose che questa o quella Regione gli avrà lasciato da fare. L’idea è singolare e sembra voler ignorare gli inconvenienti che ha creato in Spagna e che si moltiplicherebbero in Italia. A parte le materie - ancora poche per il momento - riservate allo Stato, avremmo questa situazione: le Regioni (al contrario di quanto avvenuto in Spagna) partirebbero tutte insieme e avrebbero cinque anni di tempo per rendere effettivo l’assetto delle competenze da loro scelto; ma la loro scelta sarebbe condizionata dall’approvazione da parte del Parlamento nazionale (in cui non sono presenti), approvazione che avverrebbe con legge costituzionale, cioè con un atto di pari forza della Costituzione che lo prevede e che garantisce l’autonomia regionale. Facile è prevedere che tutta la conflittualità tra Stato e Regioni è solo rimandata al momento dell’approvazione degli Statuti: le vicende dell’approvazione degli Statuti ordinari all’inizio degli anni ‘70 dovrebbero essere ricordate! E’ facile immaginare quanta forza avrebbe questo argomento (che già si è imposto in Spagna, infatti): come si fa a concepire uno Stato che mantiene in vita un’amministrazione pubblica ad assetto variabile, che opera in e per certe Regioni soltanto e per il solo tempo in cui esse non decidono di assumere determinate competenze? come si fa a mantenere in vita apparati centralizzati che operano in periferia e farli coesistere con analoghi apparati periferici che operano nei territori circostanti senza che si inneschino di continuo conflittualità e rivincite centralistiche? Ancora una volta emerge l’arretratezza dell’impianto su cui si regge la proposta: tutta tesa a ridisegnare i confini delle competenze e le procedure per definirli, secondo la più classica delle prospettive “dualiste”, senza spendere una parola sui meccanismi di collaborazione, sul coordinamento delle amministrazioni, sull’istituzione di amministrazioni “nazionali”, comuni allo Stato e alle Regioni. Eppure tutti sappiamo che è proprio per aver ignorato le esigenze e le procedure della collaborazione che il disegno originale del Titolo V è fallito.
A merito della proposta di D’Onofrio va ascritto invece l’aver colto e sottolineato il carattere di “processualità” della riforma delle autonomie, destinata a non esaurirsi in un unico atto - la revisione costituzionale - ma a proseguire nella formazione degli Statuti e nelle fasi da essi prevista. Ma è una processualità priva di un meccanismo di controllo del processo. Qui il Relatore ha dovuto piegarsi alle scelte sciagurate fatte dall’altro Comitato della Bicamerale, il Comitato sul Parlamento e le fonti normative. Già l’istituzione di un Comitato chiamato ad occuparsi del parlamento come argomento scisso dalla trattazione della forma di stato è stata una scelta significativa, un netto vantaggio preso dal “partito dei senatori”. Tutte le proposte avanzate dal “mondo delle autonomie” e tutte le riflessioni prodotte in sede scientifica convergevano su un punto: che una riforma seria del sistema delle autonomie comportava l’istituzione di un organo rappresentativo delle istituzioni regionali e (forse) locali (su questo ‘forse’ iniziavano le divisioni), che, partecipando alla formazione delle leggi e delle decisioni incidenti sui rapporti tra centro e periferia, avrebbe dato la necessaria garanzia procedurale alla sussidiarietà, riportato alla sede politica della codecisione i conflitti attualmente impropriamente scaricati sulla Corte costituzionale, introdotto il meccanismo di controllo di processo di cui si diceva. Già, ma i senatori, che si fa dei senatori (compresi i senatori “a vita”)?
Per evitare che i senatori perdano il Senato, che sia istituito un organo “costituzionale” non dominato dai partiti nazionali, che si possa affacciare una diversa classe politica, rappresentativa delle istituzioni politiche periferiche, si sono inventate le giustificazioni più ardite e le soluzioni istituzionali più mostruose. Meglio non ricordarle. Alquanto deforme è anche la soluzione a cui il Comitato è pervenuto: un Senato eletto, come già oggi è, “a base regionale”, con un sistema proporzionale (non lo si dice espressamente, ma è una scelta implicita), che si occupa delle nomine e delle leggi che non possono essere decise con le regole del sistema maggioritario. Quando l’argomento interessa le Regioni, le leggi sono sottoposte a una Commissione del Senato, composta per metà da senatori, per un quarto dai Presidenti delle Regioni, per l’altro quarto da rappresentanti degli enti locali. Questa Commissione partecipa alla formazione delle leggi, “approvando” (in via definitiva, par di capire) la legge nel testo già deliberato dalla Camera dei deputati, oppure deliberando un testo modificato: in questo caso l’approvazione in via definitiva spetta alla Camera; ma se questa si discosta dal testo approvato dalla Commissione la maggioranza dei Consigli regionali può decidere di impugnare la legge alla Corte costituzionale.
Una più esatta comprensione dei complessi rapporti tra Commissione e Senato, tra Senato e Camera, e tra queste due e la speciale Commissione di conciliazione che opera nei casi di contrasti tra le due camere nel procedimento legislativo richiederebbe un esame tanto approfondito quanto difficile del testo. Ma il testo merita questo esame? In che termini può coesistere un federalismo antiquato ma provocatorio, quale è immaginato da D’Onofrio, con un assetto del Parlamento che consente alle Regioni di partecipare soltanto attraverso la debole e minoritaria presenza nella Commissione del Senato ai “disegni di legge di trasferimento dei poteri e risorse e quelli per la tutela di interessi nazionali o interregionali (!) e per la determinazione dei livelli minimi delle prestazioni sociali nelle materie attribuite alle regioni”? E che dire delle garanzie fornite alle Regioni di fronte all’Unione europea? Non credo che si debba prendere sul serio un testo “costituzionale” che, per disciplinare finalmente la partecipazione dell’Italia all’Unione europea, riesce a infilzare una collana di “perle” (i progetti di legge di autorizzazione alla ratifica dei Trattati sottoposti al giudizio preventivo della Corte costituzionale; la “diretta vigenza” di tutti gli atti normativi comunitari nell’ordinamento interno, senza alcuna ulteriore regolazione che riguardi la loro applicazione; ancora la Corte costituzionale che “garantisce il rispetto delle competenze e delle norme” dell’ U.E.; ecc.) che si chiude con queste due norme di “garanzia” per le Regioni: che “la legge stabilisce i procedimenti volti a garantire che, nelle questioni che incidono su materie riservate alla esclusiva competenza legislativa delle Regioni, l’esercizio dei poteri della repubblica italiana quale Stato Membro dell’ U.E. sia concordato con esse”; e poi, disposizione certo di non facile lettura, che “qualora una competenza regionale sia reputata illegittimamente lesa da un atto comunitario, e non siano previsti mezzi di ricorso regionale diretto”, attraverso l’attivazione di una Commissione speciale cui parteciperebbero i Presidenti delle Regioni (ma il testo non è coordinato con quello sul Parlamento), si può “richiedere che il Governo adisca gli organi giurisdizionali comunitari competenti, sulla base della legittimazione che, in materia, i trattati europei o altra fonte riconoscono agli Stati membri”. Che dire?
R.B.
PS. Al momento di licenziare questa breve nota, posso leggere il testo approvato dalla Bicamerale ormai in veste definitiva: purtroppo solo quello sulla “forma di stato”, e non anche quello sul Parlamento e l’Europa. I miei interrogativi sulla compatibilità della provocazione di D’Onofrio con il resto della modellatura costituzionale sono finalmente risolti. La provocazione è rientrata.
Il nuovo testo costituzionale prende ispirazione, più che dalla proposta originale di D’Onofrio, dalla legge “Bassanini 1” (la legge delega 59 del 1997), da cui mutua i princìpi e criteri direttivi. E’ affermata la clausola residuale a favore dei Comuni per tutte le funzioni amministrative non espressamente attribuite agli altri livelli di governo (con esplicita sconfessione del principio di parallelismo delle funzioni amministrative e legislative), e a favore delle Regioni per quelle legislative. Viene però elencato un nutrito numero di materie di per sé riservate allo Stato, elenco che culmina con una clausola decisiva: “Spetta inoltre allo Stato la potestà legislativa per assicurare il conseguimento degli obiettivi di interesse pubblico posti a fondamento della potestà legislativa ad esso attribuita dal presente articolo e dalle altre disposizioni della Costituzione; e per la tutela di preminenti e imprescindibili interessi nazionali”. Si mantiene poi la previsione della delega alle Regioni di ulteriori “funzioni normative” nelle materie riservate allo Stato. Gli statuti regionali sono restituiti ai loro contenuti attuali (organizzazione, forma di governo, procedimento legislativo e partecipazione) e perdono la forza di legge costituzionale: sono approvati infatti con una procedura “rafforzata” (doppia approvazione a maggioranza dei due terzi) dall’assemblea regionale; e una maggioranza qualificata garantisce anche la legge elettorale. Alla legge “approvata da entrambe le Camere” è rinviata la disciplina dei rapporti finanziari. Infine, dell’assetto asimmetrico prospettato da D’Onofrio resta solo questo: che le Regioni devono fissare con loro legge “la data d’inizio dell’esercizio anche graduale delle nuove potestà legislative”, indicandola tra il primo e il quinto anno successivo all’entrata in vigore della riforma costituzionale; di conseguenza il Governo presenterà alle Camere il programma di riordino dell’ amministrazione statale.
Come si vede, siamo rientrati nella scia della “riforma nella continuità” dell’attuale assetto costituzionale, in cui al Parlamento restano affidati poteri decisivi nella conformazione delle attribuzioni regionali e locali: alla legge spetta di definire le competenze delle autonomie funzionali, che concorrono con quelle locali; alla legge spetta di determinare quali funzioni amministrative non rientrino nella competenza generale dei Comuni; alla legge spetta definire, tra l’altro, i livelli minimi dei servizi e le norme necessarie alla tutela dell’interesse nazionale; dalla legge dipende ancora l’assetto concreto del “federalismo fiscale”. Ma nelle Camere saranno rappresentate le Regioni? Se non si darà una risposta positiva a questo interrogativo, la riforma del Titolo V non produrrà grandi modificazioni dell’assetto attuale. Assisteremo anzi a questo singolare paradosso: partiti da una “Bassanini” che ambiva a riformare il sistema dei poteri regionali “a costituzione vigente”, saremmo approdati a una riforma costituzionale che confermerà il sistema dei poteri regionali “a Bassanini vigente”!
R.B.