CHI HA PAURA DEL FEDERALISMO?

 

 

 

1. Regionalismo e federalismo: un falso dilemma

 

            Non vi è nessun indice preciso che consenta di distinguere un sistema federale da uno regionale: entrambi cercano di combinare una certa misura di unità con una certa misura di diversità[1]. La distinzione guarda essenzialmente al passato, al modo in cui il sistema, lo stato, si è formato. I sistemi federali nascono dalla trasformazione del foedus, del rapporto di diritto internazionale che lega originariamente alcuni stati, in un soggetto nuovo, lo Stato federale appunto: gli esempi di federazione che vengono più facilmente in mente hanno tutti questa origine (così gli Stati uniti, la Svizzera, la Germania, l'Argentina; non così, però, l'Austria e il Belgio, che nascono dalla scomposizione di uno stato centralizzato). I sistemi regionali sono invece il frutto di un processo di decentramento delle funzioni di uno stato centralizzato (così l'Italia, la Spagna, la Francia).

            Naturalmente qualche traccia della diversa origine resta nell'organizzazione del sistema: ma tali residui sono determinanti nel caratterizzare il sistema in senso federale o in senso regionale? Direi di no. I sistemi istituzionali si staccano dalla loro origine e vivono dinamiche evolutive molto intense, subiscono forti deformazioni rispetto ai modelli originari causate dall'esigenza di adattamento a situazioni che erano imprevedibili in origine. Tutti i sistemi decentrati, siano stati essi in origine federali o regionali, hanno dovuto adattarsi ai grandi cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi 50 - 70 anni nell'organizzazione, nella funzione, nella stessa filosofia dello stato moderno; e poiché le sollecitazioni sono state più o meno le stesse, in Italia come in Svizzera, in Germania come negli Stati uniti, più o meno gli stessi sono stati anche i problemi che i sistemi di relazione centro-periferia hanno dovuto affrontare e le stesse anche le risposte che hanno elaborato. E' un dato importante, perché il panorama che si apre è molto interessante.

 

 

2. Alcuni pregiudizi da superare

 

            Più di mezzo pianeta è organizzato in modo federale o regionale, ed in una buona parte di questo mezzo pianeta si registrano quei requisiti minimi di democrazia, che costituiscono le condizioni ambientali necessarie allo sviluppo di un effettivo federalismo (intendendo il termine in un'accezione molto vasta, comprendente anche i sistemi regionali). In questo cospicuo spicchio di mondo si possono condurre indagini comparate sul modo di funzionare dei sistemi centro-periferia, e di risolvere i problemi che si sono posti alle democrazie moderne, come se ci si trovasse di fronte a sistemi omogenei, in cui gli elementi di analogia predominano su quelli di diversità.

            Anzi, il primo dato che l'esame comparativo ci dimostra con evidenza è che (a) il federalismo non richiede, come condizione "ambientale", una specifica forma di governo (intendendo con questa locuzione il modo di organizzare i rapporti tra gli organi costituzionali) e che (b) né il grado di au­tonomia degli enti federati, né il grado di efficienza del sistema centrale variano in funzione del tipo di forma di governo adottato.

            In Europa, il federalismo si mostra oggi quasi esclu­sivamente associato a forme di governo di tipo parlamen­tare, nelle sue diverse varianti (Germania, Austria, Belgio e, sia pure nella forma più attenuata di un regionalismo avanzato, Spagna ed Italia), con la sola eccezione della Svizzera, che ha la sua irripetibile forma di governo (elezione del go­verno da parte dell'Assemblea nazionale; irrevocabilità del governo e sua collegialità, in assenza di figure "presidenziali" di rilievo costituzionale). Sistemi fede­rali coniugati con il governo presidenziale si stanno af­facciando però ora nell' Est europeo (Russia).

            Fuori d'Europa, il federalismo ha attecchito nelle ex colonie inglesi, coabitando con le forme di governo più di­verse, anche se tutte in qualche modo derivate dalla costi­tuzione inglese, nei diversi stadi del suo sviluppo. In Ca­nada e Australia il federalismo si sposa con un governo parlamentare con caratteristiche di tipo "Westminster" (sistema maggioritario; il leader del partito che vince le elezioni è automaticamente investito della responsabilità di governo; governi tendenzialmente monopartitici; ecc.); negli Stati Uniti d'America con il governo presidenziale. L'esempio americano è poi ripreso, anche nella struttura federale, da diverse costituzioni del mondo latino-americano (Argentina, Bra­sile, Messico, Venezuela).

            Insomma, uno degli assunti correnti - un forte federalismo ri­chiederebbe, per essere bilanciato, un rafforzamento dei poteri centrali, e quindi una forma di governo presiden­ziale a livello nazionale - è quindi smentito dai dati dell'esame comparato. Esistono sistemi federali molto efficienti (Germania, per esempio) o molto accentuati nell'articolazione dei po­teri decentrati (Belgio, per esempio, dopo la riforma del 1993), che si sviluppano nell'àmbito del governo parlamen­tare, così come sono esistiti (in Sud America e, almeno in pas­sato, nell'Est europeo, per esempio) sistemi federali "di carta" associati a forme di governo presidenziali; per con­verso, esistono numerosissimi esempi sia di sistemi parla­mentari (gli stati scandinavi e il Giappone, per esempio, oltre al Regno Unito e all'Olanda), che di sistemi presi­denziali o semi-presidenziali (Finlandia, Francia; Geor­gia), privi di qualsiasi elemento di federalismo. La stessa premessa, per cui il governo presidenziale di per sé valo­rizzerebbe la "forza" delle istituzioni centrali, è inde­bita, perché trascura il fondamentale dato che la forza e l'efficienza di una formula di organizzazione del potere pubblico sono garantite, non dall'astratto modello adot­tato, ma da un'insieme di variabili esterne ed interne all' organizzazione stessa.

            Una di queste variabili è indubbiamente il sistema elettorale. Ma neppure per il sistema elettorale si può dire che vi sia una soluzione preferibile in presenza di un assetto federale. Come è noto, esistono Stati federali che adottano, almeno per le istituzioni centrali, sistemi pro­porzionali più o meno corretti (Germania, Belgio, Austria, Svizzera; tra quelli regionali, Spagna e Italia, almeno prima della recente riforma), ed altri che sono invece legati al si­stema maggioritario, anch'esso con varianti notevoli (USA, Canada, Australia).

            Il panorama comparativo ci libera dun­que da qualsiasi pregiudizio, che pure affiora spesso in Italia nel dibattito sulla riforma delle regioni. In primo luogo, dirsi federalisti o antifederalisti, regionalisti o neoregionalisti ha ben poco senso: non esiste un modello di federalismo, così come non esiste un modello di regionalismo da contrapporgli. In secondo luogo, tale è la diversità delle esperienze istituzionali che abbiamo di fronte, che viene seccamente smentita qualsiasi affermazione circa supposte relazioni necessarie che sussisterebbero tra riforma in senso federale dello stato e assetti istituzionali o elettorali. Oltretutto, questo è un fatto positivo perché facilita la comparazione. I sistemi federali (o regionali) si sviluppano con un'eccezionale capacità di far tesoro delle esperienze degli altri sistemi federali (o regionali): spesso l'evoluzione di un sistema federale nella prassi o nella giurisprudenza viene "trascritta" in testo normativo in altro sistema. I tre sistemi federali di lingua tedesca si sono evoluti "copiando" a turno l'uno dall'altro; le esperienze regionali in Italia, che avevano avuto come unico possibile precedente storico la sfortunata Costituzione spagnola del 1931, sono state attentamente studiate per la Costituzione spagnola del 1978; ed ora, le esperienze costituzionali spagnole sono (assieme all'esperienza federale soprattutto tedesca) uno dei punti di riferimento indispensabili del dibattito italiano attorno alla riforma costituzionale. Riforma che, proprio per quanto riguarda l'assetto dei poteri locali, si fa assai urgente, perché, se c'è un dato su cui tutte le opinioni concordano, quel dato è proprio il fallimento dell'istituto regionale.

 

 

3. Chi ha ucciso le regioni?

 

            Le regioni sono nate molto gracili; ma la burocrazia, con la complicità del sistema politico, le ha lentamente e inesorabilmente soffocate. Questa potrebbe essere la trama della crime story che sto per raccontare, la triste storia delle regioni italiane.

            Esse sono il frutto originale della fantasia del nostro costituente. Il quale, non potendo (per l'assenza delle premesse storiche) né volendo (per la forte esigenza di mantenere l'unità nazionale) optare per un sistema federale, scelse una strada intermedia tra quel sistema e la tradizione accentrata che aveva caratterizzato lo stato italiano sin dalla sua formazione. Si trattava di una strada inesplorata, perché in Spagna la guerra civile aveva impedito un effettivo funzionamento del sistema regionale. Ma, in fondo, non erano le condizioni del suo funzionamento ad interessare il nostro costituente, che al decentramento regionale guardò essenzialmente per vederci uno strumento di frantumazione del potere, una linea di divisione territoriale che tagliava ortogonalmente le linee orizzontali tracciate dalla teoria classica della separazione dei poteri. Il "velo d'ignoranza", che impediva allora alle forze politiche di prevedere chi per primo avrebbe occupato i centri di potere che la costituzione andava disegnando, persuase tutti - comprese le sinistre, inizialmente assai preoccupate per il pericolo che le regioni finissero con istituzionalizzare le vandee della periferia italiana - ad introdurre contropoteri territoriali e a fissare essenzialmente le difese della loro autonomia.

            Date le premesse, si capisce bene perché il costituente ebbe attenzione esclusivamente per gli aspetti, per così dire, "negativi" del rapporto tra stato e regioni, per la divisione delle loro competenze, anziché per i meccanismi del loro coordinamento. In ciò essi seguivano la più gloriosa tradizione dei sistemi federali, ignorando però le vicende che, proprio in quegli anni, stavano segnando un netto cambiamento nella storia delle relazioni federali, a partire dalla stessa culla in cui quella storia iniziò, gli Stati uniti.

            Il federalismo americano - come quello svizzero, come il regionalismo dei nostri costituenti - era, in origine, di tipo dualistico, tutto proteso cioè alla ricerca della divisione del potere. Lo schema dualistico è strumentale ad uno stato minimo, ad una netta separazione della sfera pubblica e della società civile: da un lato, il divieto di ostacolare la circolazione di persone merci e capitali, e le regole delle concorrenza imposta dal mercato, limitano le possibilità d'intervento da parte delle singole autorità locali, mentre la enumerazione costituzionale delle competenze limita la capacità d'intervento dello stato centrale[2].

            Se quella versione del federalismo era legata ad una visione liberale dello stato e dell'economia, di questa ha seguito la parabola discendente. L'imporsi dei grandi interventi di politica economica e sociale (la ricostruzione postbellica, la programmazione economica, la politica previdenziale, l'occupazione, la riconversione industriale, la politica dell'ambiente, ecc.) spacca le premesse di fondo del federalismo dualista e spinge verso decisioni coordinate. La tendenza è forte, e gioca tutta a favore del centro. Ciò è avvenuto ovunque, lanciando una sfida al tutte strutture del decentramento. Ma in alcuni Paesi la struttura federale è sopravvissuta, trasformandosi; la risposta istituzionale alle esigenze dello stato sociale è stata il "federalismo cooperativo"[3]. In esso la divisione delle competenze ha perso tutto o quasi il suo significato di regola fondamentale dell'organizzazione dei rapporti tra centro e periferia, ed è stata superata dal principio della collaborazione e del coordinamento dei diversi centri di decisione.

 

 

4. Le colpe della Costituzione e le colpe del sistema politico

 

            La Costituzione italiana non dice una parola sui metodi della collaborazione e del coordinamento. Si preoccupa solo di dividere le attribuzioni: per cui la sua capacità di essere la regola effettiva dei rapporti tra centro e periferia scema con la stessa velocità con cui si affermano le esigenze del federalismo cooperativo.

            Dove stanno scritte le nuove regole? Dappertutto, meno che in Costituzione. Le nuove regole vengono scritte dalle leggi dello stato e dalla Corte costituzionale, invocata dalle regioni, arroccate sulla linea antistorica di difesa della separazione, per giudicare la legittimità di esse. Ma la legittimità rispetto a che cosa: non certo rispetto ad una Costituzione che ha del tutto ignorato il problema. Quindi, le nuove regole si sono sviluppate fuori da un contesto preciso di regole costituzionali, seguendo e inseguendo esigenze e considerazioni di opportunità. Quanto è opportuno mantenere certe competenze in capo alle regioni? Per rispondere ragionevolmente a questa domanda non serve guardare alla Costituzione, ma bisogna interrogarsi su che cosa di fatto siano le regioni.

     Insomma, la garanzia degli interessi regionali, non potendosi agganciare ad una norma superiore, è ri­masta affidata soltanto alla capacità di contrattazione delle re­gioni stesse. E' quindi inevitabile che il discorso giuridico-formale sulle competenze delle regioni si sia contaminato con considerazione di natura schiettamente politologica sulla forza contrattuale delle regioni e sulla loro autonomia politica: sulla credibilità della re­gione come ente di governo  e dei suoi dirigenti come classe poli­tica adeguata ai compiti. Il fatto determinante però, si noti, è che queste valuta­zioni non potevano condursi caso per caso, di­stinguendo le sorti delle regioni più "mature" da quelle meno af­fidabili: la possibi­lità di una considerazione differenziata di esse, ovvia sotto il profilo dell'analisi politologica, non si sa­rebbe potuta tradurre in concrete soluzioni istituzionali, perché lo impedisce uno dei princìpi-cardine del quadro costituzionale dell'autonomia regio­nale, cioè la assoluta eguaglianza giuridica delle regioni tra loro per tutto quanto riguarda l'assetto delle loro attribu­zioni, salva ovviamente la "specialità" eventuale del loro Sta­tuto.

            Si è innescato così un classico circolo vizioso, per cui l'inaffidabilità politica delle regioni, nel loro complesso, ha legittimato l'estensione del "protettorato" statale su di esse; ma l'estensione del "protettorato" ha contribuito a mantenere modesto il senso poli­tico dell'istituto regionale. Sicché non c'è da stupirsi che non si sia sviluppata una classe politica regionale. Che gli stessi partiti (alla pari di tutte le altre organizzazioni di interessi) non si siano dotati di una struttura regionale concepita davvero come un livello superiore e dirigente rispetto al tradizionale li­vello comunale o provinciale. Che perciò le scelte politiche fon­damentali (inclusa la costituzione delle maggioranze di governo) siano state tutte sistematicamente avvocate dalle segreterie nazio­nali. Che ogni conflitto significativo tra interessi orga­nizzati cerchi sistematicamente composizione nelle sedi istituzio­nali na­zionali, con la conseguenza che, raggiunta la faticosa me­diazione, questa avrà la "veste" di norma statale, che dovrà es­sere rispet­tata dal legislatore locale, per evitare che il con­flitto si ria­pra a livello periferico o che si impongano, come si suolo dire, soluzioni "a pelle di leopardo". Che le regioni non abbiano svi­luppato una propria classe politica, perché nella car­riera poli­tica le cariche regionali non sono un obiettivo finale, ma una tappa di un unico cursus honorum, nel quale il sindaco del capo­luogo conta di più dell'assessore regionale, e per il presi­dente della giunta regionale è del tutto concepibile abbandonare la sua carica per il seggio parlamentare, sperando di raggiungere un sot­tosegretariato (entrando in quella "stanza dei bottoni" da cui  l'autonomia regionale riceve di continuo limiti e condizionamenti); la stessa regione è spesso scavalcata come li­vello di intermediazione con lo Stato, poiché sul suo territorio subisce la concorrenza del deputato locale, più avanti in grado nel cursus honorum del partito. E, d'altra parte, si può lasciare a regioni così deboli il governo della salute, dell'ambiente, delle risorse culturali o di quelle finanziarie, quando molte di esse non sono niente di più che un'espressione geografica?

 

 

5. Imparare dagli altri e dai propri errori

 

            Tuttavia - lo dicevo poc'anzi - nessuna Costituzione era così lungimirante da prevedere il superamento del federalismo dualista: eppure in molti paesi federali i poteri decentrati non hanno subito il fallimento che ormai le regioni italiane dichiarano ufficialmente in tutti i loro documenti. Capirne i motivi è fondamentale per incominciare a guardare alle soluzioni.

            Il segreto è presto svelato. I sistemi federali in cui gli interessi degli stati-membri erano meglio rappresentati in Parlamento hanno potuto evol­vere con minore conflittualità e maggiore equilibrio tra centro e periferia. Lo stesso inserimento in Costituzione dei meccanismi di cooperazione e l'adeguamento degli elenchi co­stituzionali delle materie di competenza centrale sono stati resi possibili esclusivamente dall'accordo degli enti fede­rati, espresso tramite la loro rappresentanza parlamentare. La presenza dei Länder, Cantoni ecc. nel Parlamento ha per­ciò garantito (a) il loro assenso all'emendamento costitu­zionale e (b) la loro presenza nei procedimenti decisionali attraverso i quali le nuove competenze assegnate sarebbero state esercitate a livello centrale; in prospettiva, quindi, ha assicurato anche (c) il bilanciamento della "centralizzazione oggettiva" delle competenze con un incre­mento di importanza della "camera federale".

            Come si vede, la "federalizzazione" del Parlamento rende meno drammatico il problema di adattare la riparti­zione costituzionale delle competenze all'evoluzione sto­rica. Ma - va aggiunto - la presenza delle regioni o degli stati-membri nel Parlamento nazionale rende meno drammatico il problema stesso della ripartizione costituzionale delle funzioni. Laddove, come in tutte le esperienze federali e regionali europee (e non solo europee), il compito di trac­ciare la linea di ripartizione delle competenze sia per ampi tratti affidato alla legge ordinaria dello stato cen­trale (la legge cornice, la legge quadro, la legge orga­nica, la legge di riforma economico-sociale, la legge di indirizzo o di programmazione ecc.) o a concetti generali non definibili a priori, ma che devono essere "riempiti" dalla legislazione statale ("principio", poteri "impliciti", interesse nazionale, "necessità" di una rego­lazione federale, leale cooperazione ecc.), nessuna stabilità del quadro costituzionale può essere as­sicurata se non introducendo a pieno titolo gli stati-mem­bri o le regioni nella sede, il Parlamento, in cui si pro­ducono tali decisioni. Le incertezze che minano tutti i tentativi di pre-de­finire una volta per tutte la ripartizione delle competenze si rimediano soltanto attraverso lo strumento dinamico della co-decisione: sono incertezze inevitabili, perché quelle definizioni rimandano tutte a decisioni squisita­mente politiche.

 

 

6. Un banco di prova: la "sussidiarietà"

 

            Da quando lo ha fatto proprio il Trattato di Maastricht[4], in Italia la parola magica che sembra poter risolvere il problema delle regioni e compendiare le prospettive del federalismo è: sussidiarietà. Non mi importa ricordare le origini di questo principio, che appaiono affondare nel solidarismo cattolico, ma solo valutarne il significato come regola di distribuzione dei compiti tra centro e periferia. Essa è affermata in Germania, all'interno di un contesto federale efficiente; è riaffermata come principio cardine dell'Unione europea, intesa lì come baluardo contro le spinte centralistiche degli organi della Comunità.

            In contesti di tipo federale, l'appello al principio di sussidiarietà richiama un meccanismo di ripartizione dei compiti tra centro e periferia fortemente elastico e antagonista rispetto a rigide (e indifendibili) ripartizioni per materie. E' la ricerca del livello di governo più adeguato, più efficiente rispetto agli obiettivi. E' l'idea diametralmente opposta a quella del catalogo delle "materie" assegnate separatamente ai diversi livelli di governo, delle rigide (e indifendibili) gabbie della separazione delle competenze. Insomma, è l'idea di fondo, implicita, del federalismo cooperativo. Perciò la sussidiarietà non esprime nulla di nuovo, perché già c'era in tutte le forme di federalismo (o regionalismo) cooperativo: in Italia, essa si chiamava "variabile livello degli interessi"; in Spagna, "interesse generale sovracomunitario", e così via. Eppure, quando si chiamavano così, non piacevano affatto alle regioni e ai loro avvocati. Perché cambiando nome dovrebbe cambiare la sostanza?

            Non è così, infatti. La sussidiarietà è un criterio che rinvia necessariamente a valu­tazioni condotte in termini di efficienza dell'intervento, che a loro volta rinviano a valori e a obiettivi politici (cose del tutto diverse essendo, per esempio, l'efficienza rispetto alla liberalizzazione del mercato, rispetto alla garanzia di livelli accettabili di prestazione dei servizi, rispetto all'economicità di gestione del servizio ecc.). Introdurre criteri di ripartizione delle competenze basati su concetti esplicitamente elastici e valutativi, anziché su criteri apparentemente giuridici come quelli fissati dalle "vecchie" costituzioni "dualistiche" (di cui un buon esempio è dato dall'art. 117 dell'attuale Costituzione italiana), serve proprio a chiarire definitivamente che della loro determinazione si deve dare carico l'apparato politico. Si tratta di decretare la rinuncia, anche formale, a regole giuridiche, tassative, preventive, circa l'attribuzione di questa o quella competenza, per sostituirle con valutazioni di opportunità da svolgersi di volta in volta.

            Ne discende che anche la garanzia dei ruoli rispettivi del centro e delle regioni cambia radicalmente, se alla ripartizione preventiva delle attribuzioni si sostituisce la sussidiarietà; perché la garanzia non starà più nella vigilanza e protezione dei propri confini (com'era nelle costituzioni dualiste), ma in un procedimento di codecisione. Come bene afferma un recente documento del CNR, "il principio di sussidiarietà trova attuazione attraverso la predisposizione di adeguati meccanismi procedurali e il procedimento, allora, rappresenta il metodo per applicare, con le adeguate garanzie, il principio stesso"[5].

            I meccanismi di codecisione iniziano con la "federalizzazione" di un ramo del Parlamento, ma non finiscono qui. E' necessario valutare con enorme attenzione e consapevolezza tecnica come "federalizzare" il Parlamento, quali conseguenze farne derivare sulla configurazione del Governo, della Corte costituzionale, della organizzazione amministrativa, della giustizia amministrativa, degli apparati fiscali... Tutto ciò richiede un dibattito articolato, prudente, informato sui modi di ricostruire il regionalismo (o il federalismo). Come si possono ottenere queste condizioni in un paese di "santi eroi e navigatori" (tutta gente poco propensa a sedere attorno ad un tavolo), in cui nessuno è disposto alla discussione pacata, ma dove i protocolli del dibattito politico sono quelli dettati da Sgarbi e Pannella? Lo spettacolo rifugge dalla complicazione: occorrono slogan, opinioni chiare. Scusi Onorevole, Lei è favorevole o contrario...?

 

                                                                                              ROBERTO BIN



[1] "Gli schemi federali, parlando in termini generali, cercano di combinare una certa misura di unità con una certa misura di diversità" (C.J. Friedrich, Governo costituzionale e democrazia Vicenza s.d., 275)

 

[2] «Federalismo duale»: "In esso, fondamentalmente, il potere politico complessivo si divideva sulla verticale secondo un riparto di competenze distinte e di solito non sovrapposte tra Stato centrale e Stati membri. Allo Stato centrale venivano assegnate per lo più competenze enumerate (per intero quelle concernenti la politica estera, per settori particolari quelle concernenti la politica interna); agli Stati membri spettavano tutte le competenze rimanenti. A mio avviso, deve ritenersi ormai provato il fatto che il federalismo duale serviva di rinforzo indiretto, sul piano dell'organizzazione statale, alle strutture di una società civile nettamente 'separata' dallo Stato: 'separata' in ogni campo, ma 'separata' soprattutto nel campo economico, ove si voleva che la società provvedesse da sola alla conduzione dell'economia (...), con un minimo assoluto di interventi 'correttivi' dello Stato (...). Il federalismo duale aiutava a contenere gli interventi statali al livello minimo che era richiesto dal modello liberale... Insomma, il federalismo duale, col mantenere basse le capacità di intervento nazionale e col creare d'altra parte un mercato unico della produzione e del consumo sul territorio nazionale, lavorava, assieme ad altri fattori istituzionali, a conservare, per quanto possibile, l'economia del modello liberale. Ed era dunque un tipo di federalismo congruo a quel modello": BOGNETTI, Le regioni in Europa: alcune riflessioni sui loro problemi e sul loro destino, in Le Regioni 1984, 1087 ss., 1102-1103.

 

[3] In esso "Lo Stato centrale e gli Stati membri lavorano di massima insieme in molti campi, al primo spetta in genere di delineare tutte le normative, vuoi per principi da sviluppare, vuoi anche, se necessario, con regole di dettaglio, le quali appaiono opportune al governo dell'economia, alla ridistribuzione perequativa della ricchezza, all'attuazione dei diritti sociali; ai secondi toccando di operare o per lo svolgimento e per la realizzazione delle direttive impartite dal primo o per una più o meno autonoma regolamentazione dei campi o dei settori di campo che il primo lasciasse, per calcolo di opportunità, temporaneamente non occupati dall'intervento proprio. Nel tipo cooperativo, il riparto delle competenze è, di massima, fondato su un principio di concorrenza": BOGNETTI, op.cit., 1104-1105.

 

[4] "Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario": art. 3B, comma II, del trattato sull'Unione europea.

 

[5] CNR-IDG, Per un nuovo regionalismo, 1994, 32.