Perché le Regioni dovrebbero essere contente di questa decisione

 

Roberto Bin

(in corso di pubblicazione in “Le Regioni”, 1/2005)

 

1. “La Puglia, per la storia plurisecolare di culture, religiosità, cristianità e laboriosità delle popolazioni che la abitano e per il carattere aperto e solare del suo territorio proteso sul mare, è ponte dell'Europa verso le genti del Levante e del Mediterraneo negli scambi culturali, economici e nelle azioni di pace”. Se il Governo avesse impugnato questa norma dello Statuto pugliese vantando la potestà esclusiva dello Stato per la meteorologia e la politica internazionale (in fondo molti dei rilievi mossi dal Governo agli Statuti regionali non sono più seri di questo), qualcuno avrebbe avuto da obiettare qualora la Corte costituzionale si fosse liberata della questione dicendo che ad enunciati del genere “non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica”? Non avrebbe dovuto farlo se accettassimo l’idea, un po’ formalistica a dire il vero, per cui tutto ciò che è “contenuto” in un atto-fonte acquista, “come per incantamento”, forza normativa. Non c’è dubbio che di solito ciò che il legislatore ha posto in un atto normativo è volto a generare regole giuridiche, ma che vi siano “deviazioni” rispetto a questa premessa è anch’esso fuori di dubbio: l’accertamento dell’esistenza della regola precede necessariamente la sua interpretazione (W. TWINING – D. MIERS, Come far cose con regole, Milano1990, 259, 297). Del resto quella che Tarello (L’interpretazione della legge, Milano 1980, 37) chiamava criticamente “interpretazione abrogante”, è una strategia argomentativa tradizionale “che consiste nel diniego che a un particolare enunciato del discorso legislativo sia attribuibile un qualche significato precettivo, cioè che l’esito dell’attività dell’interprete consista nell’asserzione che quel particolare enunciato del discorso legislativo non esprime alcuna norma”. Più nello specifico, proprio nel contenzioso Stato – regioni la Corte costituzionale ha fatto sistematico ricorso a pronunce che – fossero o meno esplicitamente “interpretative di rigetto” – hanno dichiarato la questione infondata oppure inammissibile ragionando appunto sulla efficacia giuridica delle disposizioni impugnate, sulla loro capacità di produrre effetti, se non in assoluto, almeno nella sfera giuridica del ricorrente.

Se, quindi, da un punto di vista generale non mi pare di riscontrare nulla di intollerabile nel fatto che la Corte, in limine del suo ragionamento, dichiari che l’enunciato normativo oggetto di impugnazione non ha potenzialità lesive perché non ha potenzialità normative, bisogna considerare però se le cose cambiano in dipendenza del contesto normativo, ossia per il fatto che l’enunciato normativo non sia contenuto in una legge ordinaria, bensì in uno statuto regionale.

 

2. A me sembra però che sia da evitare accuratamente di cadere nell’equivoco – che, tra l’altro, ha spesso dominato gli atteggiamenti dei consiglieri regionali impegnati nella “fase statuente” – di assimilare gli statuti regionali alla costituzione (e gli “statuenti” ai “costituenti”). Se, con linguaggio figurato, si può talvolta affermare che lo Statuto sta alle leggi regionali come la Costituzione alla legislazione ordinaria, ciò non significa che la proporzione possa essere scambiata per identità. Già la Corte aveva ammonito a non cadere in simile “fallacia aritmetica” nelle sent. 106 e 306 del 2002 (per altro da più parti contestate), con cui ha rimarcato le differenze che corrono tra il Parlamento nazionale e le assemblee rappresentative locali. Una simile confusione condiziona poi ogni altro ragionamento, perché porta poi a denunciare una “svolta” della giurisprudenza costituzionale nel trattamento delle disposizioni di principio. Ma ovviamente non è così.

Gli statuti sono una legge regionale rinforzata, non necessaria (le regioni potrebbero decidere di lasciare in vigore gli Statuti del 1970), a competenza limitata e riservata: nulla di più. Equipararli alla Costituzione temo rientri nel diffuso atteggiamento svalutativo di questa, quell’atteggiamento che, sottovalutando o ignorando il significato politico – istituzionale del processo costituente italiano (nonché la sua ricaduta sul piano del sistema delle fonti) sembra considerare la Carta costituzionale come qualcosa che non ha un valore diverso dalla legislazione costituzionale “motorizzata” che ogni singola maggioranza al governo può imporre, come fosse un fatto tecnico, più che un fatto politico. Perché il vero nodo delle disposizioni programmatiche degli Statuti sta proprio qui.

Gli Statuti hanno un contenuto “necessario” ed uno “eventuale”, dice la Corte: trai secondi rientrano anche le norme programmatiche, che hanno una funzione “ricognitiva” delle funzioni e dei compiti della Regione: l’aggettivo ha una sua pregnanza tecnica, perché è d’obbligo ogniqualvolta l’interprete intraprenda la strada della svalutazione della portata normativa di un enunciato legislativo (si pensi alla letteratura classica che si è formata sull’interpretazione degli artt. 12 – 15 delle Preleggi). Non solo le norme programmatiche non hanno efficacia giuridica nel senso che non creano diritti e doveri in capo ai singoli, ma non hanno neppure alcun effetto normativo in relazione alla successiva legislazione regionale, alla quale solo in parte si rivolgono. E grazie a ciò non sono illegittime.

Infatti, se dovessimo attribuire loro un qualche significato normativo, paragonabile a quello che si è ormai soliti assegnare alle disposizioni programmatiche della Costituzione, incontreremmo comunque degli ostacoli insormontabili a riconoscerne la legittimità costituzionale. Proviamo infatti a ragionare con le categorie che ha elaborato Crisafulli per accreditare la funzione normativa delle norme di principio della Costituzione (ovviamente trascurando l’ipotesi più forte, e certo più critica, ossia che la norma programmatica sia direttamente invocabile come base giuridica su cui fondare pretese direttamente azionabili di fronte al giudice):

a)                  natura obbligatoria del vincolo derivante dalle norme programmatiche per gli organi legislativi. Tale vincolo, se predicato in relazione al legislatore regionale, entrerebbe in competizione con i vincoli che gli derivano, a vario titolo, dalla legislazione statale (vuoi a titolo di “princìpi fondamentali” in relazione alla legislazione concorrente, vuoi per effetto delle leggi statali nelle “materie trasversali”, vuoi per effetto di attrazione al centro prodotto dal principio di sussidiarietà) e dalla normativa comunitaria. Questa è la proiezione sul piano “freddo” del sistema delle fonti del problema che si pone sul piano “caldo” della maggioranze politiche: la maggioranza politica che attualmente domina il Consiglio regionale non può pretendere di porre vincoli alle maggioranze future che si formano, non tanto nel Consiglio regionale stesso (problema che comunque non può essere sottovalutato), ma addirittura nello stesso Parlamento nazionale, proprio laddove la Costituzione riconosca a questo il potere di imporre scelte legislative di fondo comuni all’intero paese;

b)                 invalidità delle leggi contrastanti con le norme programmatiche. Questo effetto, che è il corollario del vincolo di cui al punto precedente, potrebbe produrre la situazione paradossale per cui una legge regionale “necessaria” per l’attuazione di una norma statale di principio (o vincolante per altre ragioni) debba però essere dichiarata illegittima per contrasto con lo Statuto;

c)                 efficacia interpretativa delle norme programmatiche. Anche questa funzione, la più tenue, degli enunciati programmatici non è priva di problematicità nel nostro caso. Le leggi regionali, infatti, vanno interpretate in senso conforme alle norme statali di principio (e alle atre che costituiscono vincolo per il legislatore regionale), oltre che alle norme comunitarie: anche in questo caso, dunque, possono sorgere situazioni di conflitto.

Come si vede, tutto ciò che è predicabile in relazione ai princìpi costituzionali, non lo è, o quantomeno non lo è con la stessa assolutezza, in relazione alle norme programmatiche degli Statuti. La conseguenza mi sembra drastica e inequivocabile: nulla di quanto comunemente si accetta come canone interpretativo specifico della Costituzione (incluso, per esempio, l’equivoco principio per cui essa andrebbe interpretata magis ut valeat) appare trasferibile all’interpretazione degli Statuti.

 

3. Ho sempre pensato e sostenuto che i Consigli regionali “statuenti” avrebbero fatto bene a non immettere norme di principio negli Statuti (preferendo semmai contenerle in un Preambolo) perché non solo sono inutili ma, potenzialmente, anche dannose.

Della loro inutilità ora la Corte ha fatto opportunamente giustizia. Gli Statuti avrebbero dovuto usare della loro tanto a lungo invocata autonomia statutaria per organizzare un sistema istituzionale capace di conoscere, affrontare e risolvere i problemi della collettività – problemi che la limitatezza della conoscenza umana non consente di chiudere in un catalogo preformato. Proprio questo invece hanno invece fatto: trascurare l’organizzazione della macchina politica (la parte “necessaria” degli Statuti non presenta particolari innovazioni rispetto al modello organizzativo già esistente), per trasformare lo Statuto in un catalogo di problemi irrisolti (non tutti, forse neppure i più importanti, e comunque certo non quelli che si prospetteranno in futuro). Chi ritiene che le sentenze della Corte abbiano umiliato l’autonomia regionale forse sbaglia obiettivo; a screditarla è invece proprio l’esplicita dichiarazione che gli Statuti fanno dell’incapacità della Regione di risolvere i problemi che ci si limita semplicemente ad elencare. È una vecchia regola: qualsiasi legislatore quando non sa che cosa fare per risolvere un problema, pone una norma programmatica di principio.

Ma le norme programmatiche sono anche potenzialmente dannose. Altrove (Nuovi Statuti e garanzie dei diritti, in Le istituzioni del federalismo, 2003, 195 ss.) ho sostenuto che si può formulare una seconda regola (ed ho cercato di illustrarla con esempi concreti): quando un legislatore introduce su un certo problema una norma programmatica, questa norma sarà senz’altro disomogenea e conflittuale con il resto dell’atto normativo che la contiene. Infatti, se il legislatore in questione non dispone degli strumenti per risolvere il problema, e non sa “ingegnerizzarlo” introducendo da subito i presidi normativi necessari ad affrontarlo, è altamente probabile che egli, disciplinando gli argomenti connessi o attigui a quel problema, ponga norme ispirate a principi vecchi, potenzialmente in contrasto con il principio enunciato.

C’è il rischio che qualcuno se ne accorga e, prendendo sul serio lo Statuto, si rivolga ad un giudice perché risolva a suo favore l’antinomia. Le sentenze della Corte non basteranno forse a disinnescare la minaccia, ma almeno offriranno alla Regione un argomento per difendersi in giudizio, sostenendo appunto che gli enunciati programmatici degli Statuti non sono capaci di produrre alcun effetto normativo. Ecco perché le Regioni dovrebbero essere contente di queste decisioni della Corte costituzionale.