Le Disposizioni generali (Titolo I) del decreto legislativo 112/1998 segnano alcune importanti novità nelle relazioni tra Stato, regioni ed enti locali: non sempre delle novità positive, s’intende, se viste dal punto prospettico delle autonomie, e talvolta anche delle novità che sembrano andare oltre i “princìpi e criteri direttivi” della delega. Vediamone i punti principali, trascurando quelle disposizioni che sono poco più che una ripetizione delle norme della legge di delega o della legislazione previgente.

 

A) Divieto di reformatio in peius e regole di interpretazione. L’ultimo comma è l’unica disposizione dell’art. 1 che appare “innovativa”: pone una regola d’interpretazione delle disposizioni seguenti, con un espresso divieto di reformatio in peius delle funzioni già attribuite in precedenza. Questa norma si è resa necessaria perché diverse parti del decreto (si prendano ad esempio gli artt. 156 e 157 su spettacolo e sport) mostrano scarso rigore di scrittura e talvolta danno l’impressione di essere state inserite solo per non lasciare vuoti troppo evidenti. Sommando la scrittura imprecisa e allusiva alla mancata definizione dell’oggetto dei conferimenti, poteva sussistere il rischio di legittimare un’interpretazione del decreto in chiave di restaurazione delle attribuzioni ministeriali già conferite in precedenza. Il senso di questa disposizione è dunque il seguente: in forza delle disposizioni di questo decreto si può legittimamente sostenere che nulla è stato conferito al sistema delle autonomie, ma non che qualcosa sia stato riavocato al centro.

L’art. 1, u.c., fa dunque il paio con l’art. 3, u.c.: il quale pone un altro principio di natura interpretativa, ribadendo quanto già è espresso in via di principio dalla legge 59 – cioè che tutto ciò che non è espressamente trattenuto allo Stato si intende conferito alle Regioni e agli enti locali. Se presa sul serio, questa disposizione dovrebbe significare anzitutto che le norme che riservano competenze allo Stato andrebbero interpretate come lex specialis, cioè in senso restrittivo. Ma come si fa ad interpretare in senso restrittivo, per es., l’art. 149, comma 2, lett. b), che riserva allo Stato, in materia di beni culturali, “autorizzazioni, prescrizioni, divieti, approvazioni e altri provvedimenti, anche di natura interinale, diretti a garantire la conservazione, l'integrità e la sicurezza dei beni di interesse storico o artistico”? Molte volte le attribuzioni elencate sono ricalcate dalle leggi di settore, per cui sono queste la chiave specifica di interpretazione di esse, non la regola generale posta dall’art. 3, u.c.. In secondo luogo, se anche si concludesse che un certo numero di funzioni non rientrano tra quelle enumerate, manca spesso un criterio per la attribuzione di esse a questo o quel livello di governo. E allora? Allora si apre un interessante spazio per la legge regionale che, in sede di definizione delle funzioni di interesse regionale e di conferimento delle altre agli enti locali, si trova nella posizione ideale per cercare di “forzare” l’interpretazione del decreto, compiendo un’opera di ricognizione delle funzioni che non restano “attaccate” a quelle enumerate di competenza statale. È vero che la legge regionale dovrà passare il controllo governativo, ma è anche vero che di fronte alla Corte costituzionale la regione che abbia legiferato con perspicacia e coerenza potrà presentarsi con credenziali rispettabili, soprattutto se non si presenterà da sola ma in nutrito drappello.

 

B) Rapporti internazionali e con l’Unione europea. Tra le norme inutili andrebbe iscritto anche l’art. 2. Esso si compone di due segmenti: il primo, attribuendo allo Stato il compito di assicurare “la rappresentanza unitaria” nelle sedi internazionali e il coordinamento dei rapporti comunitari, certo non basta ad attuare uno dei princìpi importanti delle delega, “il principio di cooperazione tra Stato, regioni ed enti locali anche al fine di garantire un'adeguata partecipazione alle iniziative adottate nell'ambito dell'Unione europea” (art.4.3, lett., d); né sembra aggiungere qualcosa all’art. 5 del decreto 281/1997, che ha disciplinato le procedure di raccordo tra lo Stato e le regioni, in relazione alla politica comunitaria, nell’àmbito della Conferenza Stato – regioni. Il secondo segmento non fa che confermare, con parole apparentemente nuove, l’attuale disciplina dell’attuazione degli obblighi comunitari: ed è un peccato, perché poteva essere l’occasione per fare un passo avanti. La disciplina dettata dalla c.d. “legge La Pergola”, infatti, appare poco convincente e non più adeguata: àncora l’attuazione delle direttive da parte delle regioni ordinarie (sorprendente è la distinzione tra potestà legislativa esclusiva e potestà concorrente, trattandosi del limite dei c.d. “obblighi internazionali”, che è un limite comune a tutte le regioni) all’emanazione della c.d. “legge comunitaria”, che ormai viaggia stabilmente con qualche anno di ritardo e da annuale e divenuta, di fatto, biennale; e siccome le direttive comunitarie possono contenere anche norme direttamente applicabili (perciò anche la drastica distinzione tra direttive e regolamenti, su cui poggia il sistema della legge La Pergola, appare obsoleta), può capitare che la regione si trovi ad essere giuridicamente tenuta ad applicare le norme self-executing della direttiva, senza però poter emanare leggi per la sua attuazione.

 

C) Rapporti Regioni-enti locali. Anche l’art. 3 è sostanzialmente inutile, in quanto ripetizione di ciò che è già disposto dall’art. 4 della legge 59. Le parti “nuove” stanno nella seconda parte del comma 2 e nel comma 5.

a) La prima disposizione concretizza il “principio di adeguatezza” e quello di “differenziazione” posti dalla legge 59, art. 4, comma 3, lett., g) e h). La legge regionale deve conferire le funzioni alla “generalità dei comuni”: rappresenta cioè la “legge generale” cui l’art. 128 Cost. riserva la definizione delle funzioni degli enti locali. Però la legge regionale può individuare i “livelli ottimali” di esercizio delle funzioni conferite, imponendo ai comuni di scegliere le forme associative che credono per raggiungere le dimensioni fissate: la Regione incentiva l’esercizio associato delle funzioni, ma può anche esercitare il potere sostitutivo nei confronti dei comuni inadempienti, secondo modalità che spetta alla legge regionale fissare (il che non esclude, per esempio, che l’esercizio delle funzioni sia affidato alla Provincia “in supplenza” dei comuni inadempienti). Non è poi detto – mi sembra - che gli incentivi di cui la Regione dispone siano soltanto di tipo finanziario, né che si possa escludere che la Regione incentivi soltanto alcune forme associative e non le altre. si pensi per esempio allo sportello unico per le imprese, che i comuni possono organizzare come vogliono per gestire le funzioni relative all’impresa come entità localizzata e inserita negli strumenti urbanistici-edilizi (art. 23.1), ma attraverso cui la regione può, se vuole, veicolare i servizi di assistenza all’impresa (art. 23.3): ecco che la regione può porre condizioni dimensionali e operative (incidenti, in ipotesi, anche sulle modalità della collaborazione tra comuni) per l’esercizio delle funzioni di assistenza da parte degli sportelli, divenendo l’attribuzione di queste funzioni un incentivo indiretto alla collaborazione intercomunale.

È appena il caso di sottolineare che la disposizione del decreto 112 è assai più avanzata dell’analoga norma che la Camera ha introdotto nell’art. 56 del testo di riforma costituzionale licenziato dalla Bicamerale, quello che si occupa del principio di sussidiarietà. L’emendamento approvato prevedeva infatti che sia la legge bicamerale dello Stato a fissare i livelli ottimali: ottimo esempio davvero di sussidiarietà, se si ritiene più adeguato il livello statale di quello regionale: ma questi sono i risultati nefasti della potente lobby rappresentata dall’ANCI e dall’UPI, organizzazioni nazionali di interesse che operano in senso centripeto come hanno sempre fatto tutte le centrali sindacali nazionali. Un motivo di più per non piangere sull’urna della Bicamerale!

b) La seconda disposizione pone il principio della concertazione per la definizione dei “livelli ottimali” e prevede la istituzionalizzazione, con legge regionale, “di forme di cooperazione strutturali e funzionali” tra Regione e enti locali. L’idea è buona – e già messa in pratica dalle leggi di molte regioni- ma contiene un errore, perché la vera sede di definizione di queste strutture non dovrebbe essere la legge, ma lo Statuto: perché solo così si può imporre la concertazione anche nel procedimento legislativo regionale, con l’importante conseguenza di differenziare sul piano sistematico le leggi concertate da quelle che non lo sono. Questo sarebbe il passo necessario – anche a livello statale, ovviamente, anche se i nostri neo-costituenti non lo percepiscono – per razionalizzare la produzione legislativa, evitando che il “quadro”, pensato e concertato, della distribuzione delle funzioni tra i diversi livelli di governo sia sistematicamente eroso dalla legislazione “spazzatura”, dai provvedimenti di settore, dai collegati alla finanziaria.

 

D) Indirizzo e coordinamento. L’art. 4 poco aggiunge alla disciplina della funzione di indirizzo e coordinamento dettata dall’art. 8 della legge 59/1997. Il punto fondamentale della nuova disciplina sta nel procedimento attraverso di cui vengono formati “gli atti di indirizzo e coordinamento delle funzioni amministrative regionali, gli atti di coordinamento tecnico, nonché le direttive relative all'esercizio delle funzioni delegate”. Questi atti “sono adottati previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, o con la singola regione interessata” (art. 8, comma 1). Il decreto 281/1997 - che riforma la Conferenza Stato-regioni, sempre in attuazione della legge 59 – prevede che “le intese si perfezionano con l'espressione dell'assenso del Governo e dei presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano” (art. 3, comma 2); se l’intesa non è raggiunta entro quarantacinque giorni dalla prima consultazione, gli atti possono essere “adottati con deliberazione del Consiglio dei ministri, previo parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali da esprimere entro trenta giorni dalla richiesta” (art. 8, comma 2 della legge 59); in “caso d’urgenza”, il Consiglio dei Ministri può adottare l’atto senza la procedura d’intesa, ma resta l’obbligo di presentare l’atto alla Conferenza e alla Commissione parlamentare, e di “riesaminare i provvedimenti in ordine ai quali siano stati espressi pareri negativi” (art. 8, comma 3).

L’art. 8 della legge 59 abroga espressamente le precedenti norme generali sull’indirizzo e coordinamento; sia le norme che attribuivano allo Stato l’astratta titolarità della funzione (dall’art. 17 lett. a, della c.d. “legge finanziaria” 281/1970, all’art. 3 della legge 382/1975 e all’art. 4 del d.P.R. 616/1977); sia le norme di procedura, quale in particolare l’art. 2, comma 3, lett. d) della legge 400/1988; sia, infine, le norme sulla “forma” con cui gli atti di indirizzo e coordinamento vengono adottati (art. 1, comma 1, lett. hh, della legge 13/1991). Si noti che così facendo il decreto 112 toglie tutte quelle norme che riguardano il procedimento e la forma dell’atto di indirizzo e coordinamento, norme che trascrivevano principi che la giurisprudenza costituzionale aveva posto come condizione di legittimità costituzionale per l’esercizio in via amministrativa della funzione stessa. Il senso dell’operazione dovrebbe intendersi così: che quelle garanzie, elaborate appunto dalla Corte costituzionale, sono sostituite dalla garanzia insita nell’intesa, ossia nel principio di consensualità e di cooperazione.

Restano però fuori due aspetti. Innanzitutto non è chiaro se nel disegno tracciato dal decreto delegato rimanga in piedi il principio di legalità sostanziale, ossia la regola tassativa, anch’essa di origine giurisprudenziale, per cui l’atto governativo di indirizzo e coordinamento deve avere fondamento in una specifica norma di legge, che individua l’interesse nazionale infrazionabile (di cui, come dice la Corte, l’atto di indirizzo e coordinamento è il “risvolto positivo”) e determina i contenuti e i limiti dell’atto governativo stesso. La Corte ha sistematicamente censurato in passato gli atti di indirizzo e coordinamento sprovvisti di questo requisito: tale requisito varrà ancora a seguito della riforma o si potrà ritenere che anche ad esso si possa derogare sulla base dell’intesa? È chiaro che, se dovesse prevalere questa seconda ipotesi, diverrebbe cruciale la ferrea applicazione del principio dell’intesa: ma allora apparirebbero davvero di dubbia legittimità le ipotesi, delineate dai commi 2 e 3 dell’art. 8 della legge 59, di atti di indirizzo e coordinamento emanati dal Governo senza la previa intesa, quando essa non sia raggiunta (il che è assai probabile, dato che, come dispone l’art. 3, comma 2 del decreto legislativo 281/1977, le intese si perfezionano con l'espressione dell'assenso del Governo e dei presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano”) o in casi d’urgenza.

Insomma, la disciplina della legge 59, richiamata dall’art. 4, appare ancora molto imprecisa e per alcuni aspetti sospettabile di incostituzionalità. A ciò si aggiunga che lo stesso art. 4 introduce per inciso l’ipotesi di una funzione di indirizzo e coordinamento esercitata dal Governo nei confronti non delle regioni, come in passato, ma degli enti locali. Né la legge 59, né il decreto legislativo 281 prevedono che il Governo eserciti una funzione di indirizzo e coordinamento diretta nei confronti degli enti locali: mancano quindi sia i presupposti sostanziali (il che potrebbe tradursi persino in un eccesso di delega), sia le garanzie procedurali di partecipazione dei destinatari alla formazione degli atti in questione attraverso l’apposita Conferenza Stato-città, disciplinata dal decreto 281. Per altro questa norma appare coerente con la filosofia del doppio binario che pervade la legge 59 e la sua attuazione: filosofia che muove dalla “pariordinazione” costituzionale tra regioni ed enti locali e conduce al parallelo conferimento alle une e agli altri delle funzioni amministrative e del potere di disciplinarle con proprie norme. Per cui, coerentemente, anche la funzione di indirizzo e coordinamento viaggia sul doppio binario: salvo che gli enti locali restano del tutto privi di quegli strumenti, vuoi procedurali vuoi giurisdizionali, di cui sono munite le regioni (proprio in virtù del loro ben diverso status costituzionale) per difendersi dalla insopprimibile tendenza delle burocrazie ministeriali a riavocare al centro quanto si sta attualmente trasferendo in periferia. Questo è dunque il risultato coerente ma miope della forte pressione centralistica e antiregionalistica esercitata sul Governo delegato dalle associazioni – nazionali, non a caso – dei comuni e delle province.

 

E) Poteri sostitutivi. Anche le disposizioni dell’art. 5 trascrivono le regole di leale cooperazione che la Corte costituzionale ha elaborato e posto a fondamento dell’esercizio del potere sostitutivo. Solo che anche qui la deroga per motivi “di assoluta urgenza”, prevista dal comma 3, sembra minacciare la tenuta del meccanismo e preludere ad un uso assai disinvolto del potere sostitutivo: il rimedio dell’esame successivo da parte delle Conferenze Stato-regioni e Stato-autonomie locali appare assai debole, come pure debole è il meccanismo delle richiesta di riesame. È appena il caso di notare che, nella teoria dei controlli, il controllo con richiesta di riesame è classificato come la forma più blanda di controllo.

 

F) Il nodo dei DPCM. L’art. 7 della legge 59 prevede che “alla puntuale individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative da trasferire, alla loro ripartizione tra le regioni e tra regioni ed enti locali ed ai conseguenti trasferimenti” si provveda con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri: e che questi siano emanati “con le scadenze temporali e le modalità” previste dai decreti legislativi delegati, sentite le solite Conferenze e le organizzazioni sindacali. Anche nel decreto delegato è l’art. 7 ad occuparsi dell’argomento.

Vi è da dire che il testo finale del decreto è molto diverso da quello dello schema presentato al parere delle regioni, le quali proprio sull’art. 7 sono riuscite ad ottenere le correzioni più significative. I problemi nascevano dal fatto che lo schema di decreto trasferiva ai DPCM tutte le decisioni relative ai trasferimenti che la legge delega demanda invece ai decreti legislativi: questi devono determinare “i criteri di conseguente e contestuale attribuzione e ripartizione tra le regioni, e tra queste e gli enti locali, dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative; il conferimento avviene gradualmente ed entro il periodo massimo di tre anni, assicurando l'effettivo esercizio delle funzioni conferite” (lett. b); nonché individuare “le modalità e le procedure per il trasferimento del personale statale senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica”. Nello schema di decreto tutto ciò mancava e i DPCM, di conseguenza, si gonfiavano di significato.

La pressione delle regioni ha portato a due risultati.

Innanzitutto si è introdotta una disciplina di principio circa l’individuazione dei beni e delle risorse da trasferire, badando soprattutto a definire la “congrua copertura” delle funzioni conferite (commi 2-3 e 7) e gli aspetti economici e finanziari del trasferimento del personale. Resta invece affidato ai DPCM il compito di determinare la decorrenza dell'esercizio da parte delle regioni e degli enti locali delle funzioni conferite. Si fissa però il principio della contestualità tra l'effettivo trasferimento dei beni e delle risorse e la decorrenza dell’esercizio delle funzioni conferite (comma 1): è un processo che può essere graduato dai DPCM, ma deve concludersi entro il 31 dicembre 2000.

Ma il successo più macroscopico ottenuto dalle regioni sta nei commi 8-11, in cui si disciplinano le modalità di leale cooperazione tra Stato e regioni nel processo di trasferimento. La norma più originale è contenuta nel comma 10, che delinea un meccanismo para-sostitutivo inverso, che consente cioè alle regioni di reagire all’inerzia governativa nell’emanazione di “atti e provvedimenti di attuazione” (si noti la particolare ampiezza della previsione) nelle scadenze previste dalla legge di delega e dal decreto delegato. In questo caso è la Conferenza unificata che può predisporre lo schema d’atto e comunicarlo al Presidente del Consiglio dei ministri, che avvierà la procedura di consultazione. Contro l’inerzia degli apparati governativi nel trasferimento concreto delle risorse, il comma 11 prevede invece che la Conferenza unificata segnali il fatto al Presidente del Consiglio dei ministri chiedendogli di avviare il procedimento sostitutivo tramite la nomina di un commissario ad acta.

Un certo scetticismo sulla possibilità di concreto funzionamento di questi meccanismi di salvaguardia delle regioni è certo legittimo: ma tuttavia va notata l’importanza dell’introduzione di procedure formali di cooperazione che possono segnare, per la prima volta, anche sul piano delle forme istituzionali il ruolo attivo che le regioni hanno da tempo assunto su quello politico.

 

G) Il regime fiscale del trasferimento e il problema del doppio trasferimento. L’art. 8 esenta da tasse e imposte il passaggio dei beni trasferiti dallo Stato a regioni ed enti locali. Le norme di esenzione fiscale sono considerate norme speciali, non suscettibili perciò di interpretazione analogica: questo significa che il trasferimento dei beni dalle regioni agli enti locali non rientra nell’esenzione. Qualche problema la norma lo pone, dato che, quando il conferimento delle funzioni ha come destinatario le regioni, ad esse dovrebbero essere trasferiti i relativi beni: se poi, come vuole la legge 59, le regioni “girano” le funzioni di interesse non esclusivamente regionale agli enti locali, ci sarebbe il rischio di un secondo trasferimento gravato da imposte.  

In origine si era proposto da parte delle stesse regioni di evitare – soprattutto per il personale – il doppio trasferimento: ma manca ancora un meccanismo chiaro che consenta, per i beni, di evitarlo con tutta certezza, ossia in modo sicuramente persuasivo per gli uffici tributari. Certo è poco credibile che siano i DPCM ad assumere a contenuto le decisioni che ogni singola regionale ha preso, con la legge di attuazione del decreto 112, circa la ripartizione delle funzioni tra i diversi livelli di governo: significherebbe un DPCM per ogni materia e per ogni regione! Si potrebbe immaginare che siano gli stessi DPCM a contenere una clausola che in qualche modo subordini la concreta individuazione del destinatario del bene alla legge regionale. Ma certo è che la soluzione più semplice e tranquillizzante sarebbe intervenire con i decreti correttivi a integrare la previsione dell’attuale art. 8.

 

H) Riordino delle strutture. L’art. 7 della legge 59 dispone che “il trasferimento dei beni e delle risorse deve … comportare la parallela soppressione o il ridimensionamento dell'amministrazione statale periferica, in rapporto ad eventuali compiti residui”. Coerentemente, sempre la legge 59, all’art. 3.1, lett. d), prevede che con il decreto delegato siano “soppresse, trasformate o accorpate le strutture centrali e periferiche interessate dal conferimento di funzioni e compiti”; e l’art. 7.3 aggiunge che “al riordino delle strutture di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), si provvede, con le modalità e i criteri di cui al comma 4-bis dell'articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, introdotto dall'articolo 13, comma 1, della presente legge, entro novanta giorni dalla adozione di ciascun decreto di attuazione di cui al comma 1 del presente articolo”. Ragioni tattiche – evitare che la coalizione di tutti gli interessi contrari ostacolasse l’emanazione del decreto delegato – ha persuaso il Governo a rinviare la decisione sulla soppressione delle strutture. Il decreto 112 contiene rarissimi accenni a strutture da smantellare o trasferire. Anzi, temo significativamente, l’art. 8 del decreto delegato inverte l’ordine delle operazioni previste dalla 59 (soppressione, trasformazione, accorpamento e riordino), riferendosi invece  “al riordino …ed eventualmente alla soppressione o al riaccorpamento” degli uffici e strutture toccati dal trasferimento: e rinvia queste operazioni ad una serie indistinta di atti: i DPCM di cui si è appena detto, i decreti correttivi (che sono decreti delegati previsti dall’art. 10 della legge 59, da emanarsi entro un anno dall’entrata in vigore del decreto 112) e i decreti delegati cui l’art. 11 della stessa legge 59 rinvia il compito di razionalizzare l'ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri, dei Ministeri, di amministrazioni centrali anche ad ordinamento autonomo e di enti pubblici nazionali operanti in settori diversi dalla assistenza e previdenza – decreti che però devono essere emanati entro il 31 luglio 1998 (con possibilità di ulteriori decreti correttivi nell’anno successivo).

È dunque su questa serie di atti che deve ora concentrarsi l’attenzione delle regioni, perché è evidente che se la “riforma Bassanini” non riuscirà a rimodellare l’amministrazione statale, sradicando le strutture burocratiche svuotate di competenze a seguito della devoluzione di esse, l’esito sarà quello di tutti i precedenti trasferimenti di funzioni, grandi e piccini: che la burocrazia, giorno dopo giorno, attraverso leggi e leggine, agendo su ogni comma dei collegati alla finanziaria, ricupererà, se non tutte le funzioni devolute, tutti i modi per impedirne l’autonomo esercizio da parte delle regioni e degli enti locali.