Inammissibile, ma inevitabile

 

Roberto Bin

 

 

1. A me non sembra necessario sviluppare ulteriori argomenti, rispetto a quelli abbondantemente argomentati in questo seminario, per dimostrare:

a)      che i R.D. del 1924 e del 1928 non possono essere accreditati della “forza di legge”

b)     che gli stessi R.D. non costituiscono “diritto vivente” di origine regolamentare.

Il primo assunto appare ormai ampliamente condiviso: in questo senso si è espresso anche, con un inciso di significativa brevità, il Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, nel noto parere del 1988; le argomentazioni contenute a proposito nell’ordinanza del TAR Veneto sono peraltro inconfutabili.

Ma anche il secondo assunto appare difficilmente confutabile: benché sia piuttosto raro, certo può accadere che un regolamento si saldi a tal punto sulla disciplina legislativa da divenirne il “significato vivente”. Ma se il “diritto vivente” è qualcosa che nasce e si sviluppa sul piano dei significati, cioè della interpretazione, è chiaro che la “saldatura” di un regolamento sulla legge di riferimento non può compiersi se non per l’intervento degli interpreti, giudici o prassi amministrative essi siano. Ora, nel nostro caso, vedo almeno due ostacoli. Il primo è che difficilmente si può immaginare che il significato di una legge (sia pur connotata da una funzione prevalentemente ricognitiva, come è proprio di un testo unico) si consolidi sulla base di un regolamento di settant’anni precedente, che appartiene ad un altro regime costituzionale, politico e concordatario. Ho sempre pensato che possa avvenire che (il significato di) una legge si incarni nel “suo” regolamento di attuazione, ma mi sembrerebbe un fenomeno quasi paranormale se avvenisse il contrario, senza alcun esplicito o implicito richiamo operato dalla legge stesso. Che una norma attributiva del potere – qual è la disposizione del T.U. che affida ai comuni il compito di provvedere agli arredi scolastici – induca alla metempsicosi, alla trasmigrazione del significato di una disposizione che – probabilmente estinta, come vedremo – definiva gli arredi scolastici della scuola della Maestrina dalla piuma rossa, appare difficilmente credibile!

   Quanto al diritto vivente, che c’è di ancora “vivente” in una disposizione che dice “Ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l'immagine del Crocifisso e il ritratto del Re”, oppure prescriva il  pallottoliere la sveglia e un orologio murale finto, con lancette spostabili” o l’ “Albo d'onore degli alunni che non meritano rimproveri per poca pulizia della persona” (cito dal breve ma folgorante contributo di Rosanna Tosi sul Forum di Quaderni costituzionali)? Tutte cose morte, salvo la bandiera (che però è cambiata, come poi dirò) e il crocifisso, appunto. Parlare di diritto vivente, a questo proposito, può sembrare persino un po’ macabro: ma poi, se il diritto vivente nasce comunque dall’atteggiamento degli interpreti, gli interpreti sono davvero così convinti della esistenza, della sopravvivenza della prescrizione in questione? La giurisprudenza non mi sembra affatto né tutta né prevalentemente orientata in questo senso, né lo è la prassi. Se di una prescrizione si tratta, di un obbligo giuridico per i Comuni e per i direttori degli istituti scolastici, qualche traccia della sua applicazione dovrebbe pur esserci, penso.

 

2. Insomma, a me sembra che l’ordinanza del TAR Veneto sia manifestamente inammissibile, rappresenti un tipico esempio della diffusa tendenza dei giudici di merito di “deresponsabilizzare” se stessi trasferendo alla Corte costituzionale la responsabilità di prendere decisioni politicamente spinose. Perché è evidente che spetterebbe proprio al TAR valutare se la disposizione dei regolamenti sugli arredi, oltre che vigenti, siano costituzionalmente legittime. La ritrosia dei giudici amministrativi a compiere un sindacato di legittimità costituzionale su atti normativi è per altro ben comprensibile, essendo un “mestiere” estraneo alla loro esperienza e del tutto identico a quello che invece svolge istituzionalmente la Corte costituzionale. Il che dimostra quanta ragione avesse Mortati nel temere che, sottratti alla giurisdizione della Corte, i vizi di legittimità costituzionale dei regolamenti rischino sempre di restare nell’ombra.

Tuttavia va riconosciuto che il TAR Veneto ha almeno una ragione per portare la questione alla cognizione della Corte costituzionale: ma non è una ragione “giuridica”, bensì di opportunità. Vi è fatti il serio pericolo che la questione dell’esposizione del crocifisso inneschi una serie di microconflitti di religione, in cui amministrazioni e giudici si trovino coinvolti e stimolati a dare, nell’oggettiva incertezza della regola giuridica, risposte più o meno fantasiose; e quand’anche il problema finisse in parlamento e il parlamento si dilaniasse per approvare una legge, su questa legge si accentrerebbe tutta la conflittualità che il tema suscita. Anche per questa ragione non mi piace affatto quella che viene chiamata la “soluzione bavarese”, riproposta qui da Stefano Ceccanti. Lasciare la scelta all’autonomia scolastica e al “dialogo” con l’alunno e i suoi genitori lo trovo sbagliatissimo per svariate ragioni. Perché, accanto al simbolo religioso, non si sa quanti altri simboli identitari (padani o isolani, sportivi, del Santo protettore o del movimento liberatore, ecc.) potrebbero essere appesi per scelta individuale e poi discussi con l’alunno; perché una simile soluzione dovrebbe costringere l’alunno (e i suoi genitori) o a subire in silenzio le scelte identitarie altrui o a rendere pubblico un dato riservatissimo, quello della propria convinzione religiosa (e di tutti gli altri sentimenti che reagiscono ai simboli esposti); perché moltiplicherebbe le zone di conflitto, il bisogno di schierarsi, il desiderio di dichiararsi ecc. Una soluzione assolutamente sventurata, oltre che lesiva di precisi princìpi costituzionali.

Una pronuncia nel merito della Corte, che stabilisse alcuni precisi termini costituzionali in tema di simboli religiosi nelle scuole e negli edifici pubblici, sarebbe perciò preziosa. Come la Corte ha spesso dimostrato, una decisione di inammissibilità può bene seguire ad un ragionamento che affondi nel merito della questione. Salvo che la Corte non scelga la via più semplice (e meno utile) di negare, in limine litis, la natura legislativa degli atti regolamentari e rifiutare l’ipotesi che il T.U. abbia in qualche modo “incorporato”, già esprimendosi sulla loro vigenza potrebbe trovare l’occasione di fissare qualche importante principio. Se quei regolamenti non sono più vigenti – si potrebbe per esempio sostenere – ciò lo si deve al fatto che sono contrari al principio di laicità dello Stato, con ciò già dicendo quale siano i termini costituzionali entro cui tutta la questione andrebbe trattata nel merito.

  

   3. Nel merito, per altro, la questione mi pare molto semplice. Non voglio neppure controbattere alla tesi per cui il crocifisso sia, non già un simbolo religioso, ma un simbolo di valori universali dell’umanità. Qualsiasi tifoso della Juventus o del Milan è spontaneamente indotto a credere che i suoi colori (e valori) trascendano la propria fede e rappresentino un faro per tutti: tifosi sono, e questo basta. I tifosi, si sa, leggono poco, se non le gesta dei propri eroi: un po’ di letteratura yiddish forse basterebbe a far loro capire che cosa provavano gli ebrei russi o polacchi quando vedevano avanzare la croce, preannuncio del pogrom; non mille, ma cent’anni fa, sin poco prima che si affacciasse Hitler, anch’egli sotto le insegne di una croce.

   Già, perché anche questo è un bel problema. Se le disposizioni sull’esposizione del crocifisso nelle scuole (e altrove) sono ancora vigenti, come pare intendere e volere il ministero, ciò significa che c’è un preciso obbligo per i capi delle strutture scolastiche (e pubbliche in genere). Allora c’è un problema pratico da risolvere: come si fanno gli acquisti dei crocifissi? Un bando di gara, ci pensa la Consip? E chi definisce quali caratteristiche deve avere il crocifisso da acquistare, quali segni “identitari” deve portare: o basta una croce qualsiasi, magari tracciata sul muri con il pennarello? Chi crede che questo sia un problema un po’ sciocco si sbaglia: e su questi profili pratici che si registra la consistenza dei grandi problemi. Ci deve essere una precisa descrizione del bene da acquistare nel bando di gara: plastica o legno, con o senza il corpo di Cristo (cattolici e protestanti si dividono), greca o latina (cattolici e ortodossi si dividono), ovviamente senza uncini o altri simboli più fortemente connotanti. Chi è l’autorità pubblica, in uno Stato laico, che definisce quale sia la “vera” croce? Tutto ciò non incide sulla libertà religiosa? Tutto ciò non “taglia” la pretesa “universalità” del simbolo?

   Forse qualcuno potrebbe rispondere che sono problemi eccessivi, che la croce è un simbolo, se non universale, certo della nostra nazione, delle sue radici cristiane (con buona pace per gli ebrei che sono in Italia dal 70 d.c.). Quindi, così ridotta la “scala” del problema rappresentativo, viene semplificata l’iconografia, riportata alle radici cattoliche (con buona pace dei Valdesi, che hanno in Italia una storia tanto lunga quanto la lista delle loro persecuzioni) e ai simboli ad esse collegati. Ma qui ci si infila in una strettoia insuperabile: più si connota come appartenenza religiosa, il simbolo si scontra con il muro del principio di laicità; più si connota come simbolo dell’identità nazionale, il simbolo si scontra con un preciso “muro” costituzionale, posto da un articolo della costituzione ingiustamente trascurato dal dibattito: l’art. 12. Sì, perché prescrivere in costituzione i colori della bandiera a questo è servito, a irrigidire l’emblema della nazione, il suo simbolo identitario, impedendo che una maggioranza politica (o religiosa) determinata vi aggiunga i suoi “simboli”: e di ciò i nostri costituenti erano perfettamente consapevoli (cfr. FALZONE-PALERMO-COSENTINO, La Costituzione della Repubblica italiana, p. 43). Ed è per questo che, se qualcosa deve sopravvivere degli arredi prescritti dal regio regolamento, solo il tricolore si salva.