COMUNQUE INAMMISSIBILE
di Roberto Bin*
SOMMARIO: 1. Franti e Garrone. – 2. Acquiescenza. – 3. Del merito è meglio tacere.
1. Per ammettere il conflitto di attribuzioni promosso
da un ex Presidente della Repubblica bisogna, come è stato già abbondantemente
illustrato dalla relazione introduttiva di Antonio Ruggeri e in molti
interventi, derogare dalla regola generale che impone, trattando della
legittimazione processuale, di distinguere nettamente tra il munus e la persona fisica che ricopre la
carica. Che questa deroga sia giustificabile per ciò che riguarda l’organo
monocratico Capo dello Stato a me pare sostenibile con buone argomentazioni.
Non bisogna infatti restare pregiudicati dal fatto
che sia sempre Franti – il discolo della classe per antonomasia – a sollevare i
“casi di scuola”. A farlo non sono mai i Garrone, che vivono nelle istituzioni
e ne condividono profondamente il senso morale, ma i Cossiga, i Mancuso, i
Previti, gli Sgarbi, cioè i personaggi che ritengono di poter “picconare” le
istituzioni, quando non cerchino di piegarle al proprio tornaconto personale.
Il deamicisiano disprezzo per Franti (“lo
detesto costui. È malvagio”) non ci deve impedire di immaginare che i casi
di scuola, per quanto appaia oggi
improbabile, possono comunque proporsi in relazione ad episodi di ben diversa
cifra morale: e che, perciò, un sistema costituzionale ben formato deve
contemplare anche norme di chiusura adatte a risolvere casi estremi – casi che
mai si porrebbero in concreto se il sistema funzionasse normalmente e i
protagonisti agissero muniti di una media educazione istituzionale.
In uno scenario realmente drammatico (e non
semplicemente farsesco come quello attuale) potrebbe accadere che il Presidente
della Repubblica, come ultimo atto del suo mandato, decidesse di denunciare
pubblicamente l’instaurazione del “regime” e cercasse di impedirla attraverso i
suoi atti; e potrebbe accadere che per questo motivo il “regime” lo
perseguisse, non attraverso il regolare impeachment
davanti alla Corte costituzionale, ma con la subdola attivazione della
giustizia ordinaria, nel preciso intento di delegittimare l’operato del
Presidente uscente senza offrire a costui le garanzie del giudizio davanti alla
Corte. Minare la rispettabilità dell’ex Presidente della Repubblica e la
legittimità dei suoi atti e detti, attraverso lo schermo legalizzante
dell’apparato giudiziario, non sarebbe un modo per “menomare” ex post le attribuzioni
dell’organo-persona? E aggirare la procedura costituzionale di impeachment non significherebbe persino
menomare le attribuzioni della Corte costituzionale? Capisco che sia difficile
scolpire l’ipotesi col taglio esatto del diamante, ma sono troppo convinto
della natura “residuale” dello strumento costituito dal conflitto interorganico
per concludere risolutamente che alle esigenze di flessibilità, proprie di un
meccanismo di chiusura del sistema costituzionale, non si possano validamente
opporre considerazioni di geometria teorica.
2. La premessa del ragionamento che mi induce a
ritenere che non si debba escludere in radice l’ammissibilità del conflitto
promosso dall’ex Presidente della Repubblica, è che per gli organi monocratici
– o forse per il solo organo Capo dello Stato – si possa o si debba derogare al
principio della scissione tra persona fisica e munus. Da questo punto di vista sembra saggia (benché imprudente,
se vista da un punto di vista strettamente utilitaristico) l’ordinanza della
Corte, non solo per non aver chiuso in
limine litis la questione negando la legittimazione all’ex Presidente che
intende difendere il ruolo esercitato in
concreto dalla propria persona, ma anche per aver esteso il contraddittorio
al Presidente della Repubblica in carica, che certamente può avere interesse a
difendere le prerogative astratte del
munus. Tuttavia, se nel “caso
Cossiga” noi accettiamo di derogare a questo principio, dobbiamo trarre tutte
le conseguenze di questa deroga. Una di queste conseguenze è che possono
acquistare rilevanza sul piano processuale anche quei comportamenti tenuti
dalla persona fisica che, in genere, in base al principio di scissione,
risulterebbero irrilevanti.
È vero infatti che non ha mai trovato applicazione
nel conflitto di attribuzioni l’istituto dell’acquiescenza. Ciò rientra
senz’altro nel quadro complessivo di un giudizio dal grado di formalità
eccezionalmente basso, caratteristica che è imposta proprio dalla sua natura
residuale: ma, a ben vedere, altra ne è la causa. Non vi può essere
acquiescenza innanzitutto perché bisogna mantenere distinte la carica dalla
persona che ne è temporaneamente titolare, i cui atti non possono pregiudicare
mai le attribuzioni del potere che la persona incarna pro tempore. La rinuncia al ricorso (se accettata) chiude il
giudizio, e l’inattività può causarne l’estinzione[1]:
ma il “potere” non decade mai dal diritto d’azione e il conflitto è
riproponibile in ogni tempo. L’attribuzione costituzionale non è mai
negoziabile, la persona che ne è titolare pro
tempore non può fissare definitivamente, con i suoi atti o comportamenti,
assetti delle attribuzioni costituzionali diversi da quelli scritti, appunto,
in costituzione. Il conflitto di attribuzione è stato progettato proprio per
scongiurare le trasformazioni di fatto della forma di governo e dell’assetto
costituzionale dei poteri.
Ma questo ragionamento, perfettamente coerente con
il principio di scissione tra persona e munus,
manterrebbe la sua validità anche qualora si accettasse che per l’organo
Presidente della Repubblica si possa derogare da quel principio? Mi sembrerebbe
del tutto coerente rispondere di no. Se si ammette che l’ex Presidente della
Repubblica possa eccezionalmente agire per conflitto al fine di tutelare, non
le prerogative in astratto del suo passato ufficio, ma la correttezza del suo
personale operato, non v’è ragione per escludere poi che vengano meno quelle
particolarità del giudizio che sono causate proprio dalla scissione tra persona
e carica.
Nel caso sollevato dall’ex Presidente Cossiga questa
linea di ragionamento dovrebbe necessariamente portare a dichiarare inammissibile
il ricorso per intervenuta acquiescenza. Infatti, quando ancora era in carica,
Cossiga aveva dedotto di fronte al giudice di primo grado l’improcedibilità
della domanda contro di lui, appellandosi all’art. 90 Cost.; ed il giudice
aveva ampliamente motivato le ragioni per cui rigettava l’eccezione,
correttamente sottolineando per giunta la possibilità che il Presidente, allora
ancora in carica, difendesse persona e munus
con il conflitto di attribuzioni. Quello era il momento in cui Cossiga poteva
sollevare il conflitto: ma invece ha accettato la giurisdizione ordinaria,
proseguendo la sua difesa in appello e in Cassazione, per poi ricorrere alla
Corte costituzionale solo di fronte all’esaurimento dei gradi di giudizio. Il
comportamento della persona Cossiga è
chiarissimo: accettando la giurisdizione è acquiescente e, oltretutto, non può
certo appellarsi al carattere “residuale” del conflitto di attribuzione, dato
che la via della giurisdizione ordinaria era per lui praticabile ed è stata da
lui praticata. La sua acquiescenza di allora non pregiudica certo il diritto
del titolare attuale del munus di
difendere, se lo ritiene, le attribuzioni del Presidente della Repubblica, ma
impediscono di ammettere il ricorso sollevato dall’ex Presidente a difesa del
proprio operato.
3. Il ben poco onorevole comportamento di personaggi
politici che approfittano dell’accesso preferenziale ai media, che ad essi è consentito, per diffamare ed ingiuriare chi
non dispone, per difendersi, degli stessi strumenti non è una novità in Italia.
In una coraggiosa sentenza del 1911, il Tribunale di Verona riconosceva
all’offeso il diritto di ritorsione, quasi l’immunità parlamentare si
estendesse anche a lui[2]:
ragionamento che avrebbe perfettamente senso ancora oggi, se è vero che l’istituto
dell’insindacabilità è pur sempre ispirato all’esigenza di garantire la libertà
del dibattito politico nelle Camere, e non di assicurare un privilegio ai
deputati. Il sistema democratico, dunque, si gioverebbe di un’estensione
dell’insindacabilità al privato che, offeso dai giudizi espressi dal
parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, esprimesse a sua volta i suoi
giudizi in merito all’accusa e all’accusatore senza dover temere una querela da
parte di quest’ultimo.
E per quanto riguarda il Capo dello Stato?
L’irresponsabilità del Presidente della Repubblica va letta a sua volta “nel
sistema”: come è stato messo bene in risalto dalla miglior dottrina, “la mancanza di responsabilità… è solo
espressione e riaffermazione della mancanza di potere”; “il Presidente della Repubblica… è
irresponsabile perché gli atti da lui emanati si riferiscono ad attribuzioni di
altri organi”[3].
L’irresponsabilità è il risvolto della controfirma e i due istituti sono gli
strumenti tecnici con cui il costituente ha delimitato i poteri del Presidente
della Repubblica. Una tecnica di drafting
costituzionale che continuo a guardare con ammirazione (e rimpianto, visto come
sono scritte le attuali riforme della Costituzione): invece di avventurarsi a
definire ciò che il Presidente della Repubblica non può fare - operazione
difficile di per sé e che rischierebbe di oscurare la figura del Presidente –
il costituente si limita a sancire che il Presidente non reca (se non per le
due gravi ipotesi penali) responsabilità per i propri atti, dei quali deve
rispondere (per averli voluti o per averli consentiti poco importa) il Governo.
Ma questo significa una cosa sola: che il Presidente
in tanto è irresponsabile in quanto sia il Governo a rispondere, ossia che è
solo agli atti controfirmati che l’irresponsabilità si estende (ed è anzi
rafforzata dal divieto, penalmente sanzionato dall’art. 279 cod. pen., di
imputare al Presidente della Repubblica la responsabilità degli atti del
Governo). Fuori dalla controfirma il Presidente risponde secondo le regole
generali: per cui, dal mio punto di vista, l’irresponsabilità del Capo dello
Stato non è affatto una deroga al principio generale di responsabilità, dato
che del contenuto dei suoi atti o risponde il Governo o risponde il Presidente
stesso.
So bene che non è certo questa la posizione
dominante in dottrina, ma credo abbia ancora una volta ragione Lorenza
Carlassare a ritenere che sbagli la dottrina a restare imprigionata nell’idea
che l’irresponsabilità del Presidente della Repubblica, in una forma di governo
parlamentare, sia solo l’evoluzione dell’immunità assoluta del Re. Né, d’altra
parte, uscendo dall’àmbito degli atti presidenziali, tutti necessariamente
controfirmati, riesco a darmi una spiegazione del perché il Presidente della Repubblica
debba essere irresponsabile delle sue “esternazioni”: quale congegno delicato
del sistema costituzionale imporrebbe di ritenere “immune” il Presidente che si
diletta a parlare in libertà, ad esprime giudizi oltraggiosi su persone e
istituzioni, mettendo in serio imbarazzo, magari, lo stesso Governo? Per
contro, mi è del tutto chiaro che cosa resterebbe irrimediabilmente danneggiato
dalla sua irresponsabilità: nientemeno che i diritti fondamentali dei privati.
Il dilagare di comportamenti diffamatori da parte di
parlamentari eroicamente pronti a nascondersi dietro alla loro insindacabilità,
ha indotto la Corte costituzionale alla nota evoluzione giurisprudenziale sul
nesso funzionale. Ma l’ha spinta anche a porsi finalmente il problema del
diritto di difesa del diffamato. Benché la breccia si sia aperta solo nel
particolare caso del conflitto intersoggettivo deciso con la sent. 76/2001, sul
terreno “minore” delle prerogative dei consiglieri regionali, la ratio decidendi ha una forza espansiva
che la dottrina unanime ha considerato incontenibile ogniqualvolta – come dice
la sentenza - la parte lesa vedrebbe altrimenti “compromessa la stessa possibilità … di agire in giudizio a tutela dei
suoi diritti”. Se la Corte costituzionale, di fronte al “caso Cossiga”,
dovesse pronunciarsi nel merito, affermando l’insindacabilità del Presidente
della Repubblica per ogni sorta di “esternazione” a cui carattere ed educazione
lo inducono, non v’è dubbio che i privati, non solo si vedrebbero negare il
ricorso alla giustizia per difendere i propri diritti personali, ma sarebbero
oltretutto gabbati perché se lo sentirebbero dire solo dopo aver faticosamente
percorso tutti i gradi del giudizio.
Si potrebbe persino aggiungere che se l’apertura
della Corte nei confronti dell’intervento del terzo può valere per i conflitti
in cui venga in questione l’insindacabilità dei parlamentari, vale a molta
maggior ragione quando invece entri in gioco la pretesa irresponsabilità del
Presidente della Repubblica. Il prestigio del deputato, preso singolarmente,
non gode di protezioni speciali, quali quella accordata “all’onore o al
prestigio” del Presidente della Repubblica dall’art. 278 cod. pen.: per cui,
ragionando con la logica (e l’etica) del Tribunale di Verona ricordato sopra,
al privato danneggiato dall’esternazione presidenziale non potrebbe essere
neppure concesso il diritto di ritorsione, cioè di esprimere liberamente e con
altrettanta secchezza il suo giudizio su chi lo ha diffamato. Nessuna difesa
dialettica, nessuna difesa processuale. Può la Corte, decidendo – com’è ormai
inevitabile - sul punto dell’ammissibilità del loro intervento, negare questa
evidenza? E potrebbe la Corte, decidendo sul merito del conflitto – com’è
invece evitabile, se dichiarasse inammissibile il ricorso dell’ex Presidente
Cossiga – non ricordare al ricorrente che “chi,
sapendo o credendo di restare impunito, approfitta della debolezza altrui”
è la definizione che i dizionari correnti[4]
della lingua italiana impiegano per designare il comune vocabolo ‘vigliacco’,
non le prerogative del Presidente della Repubblica in una democrazia
parlamentare?
*
Ordinario di Diritto costituzionale,
Università di Ferrara
[1] Come affermato dalla criticata sent. 87/1977
[2] La decisione è pubblicata in “Riv.dir.proc.pen.” 1911, 508 ss. e difesa da I. BRUNELLI, Insindacabilità parlamentare e diritto di ritorsione, in “Cassaz. Unica” XXIII, 12, 1912.
[3] L. CARLASSARE, Il Presidente della Repubblica II, sub art. 90, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna Roma 1983, 156 s.
[4] Il Nuovo Zingarelli, XI ed.