La Corte e la scienza

 

Roberto Bin

Relazione al Seminario “Bio-tecnologie e valori costituzionali il contributo della giustizia costituzionale”, Parma 19 marzo 2004

 

1. Il tema che mi è stato assegnato presenta almeno due versanti, diversi ma non distanti. Un versante, il più noto e frequentato, guarda alla scienza come presupposto delle decisioni della Corte costituzionale. L’altro, il meno frequentato, è rivolto invece alla regolazione giuridica della ricerca scientifica e alle garanzie della libertà della scienza.

Il primo è più noto anzitutto perché non è circoscritto alla Corte costituzionale: anzi, il problema della rilevanza dei dati scientifici è cruciale soprattutto nei giudizi di merito, ove la tentazione di delegare alle scienze “certe” ciò che il giudice non ritiene di poter decidere sulla base dei soli strumenti giuridici costituisce ormai un problema di grande rilievo. Di rilievo sempre più crescente, come è ovvio, man mano si diffondono nel mercato i prodotti ad elevata tecnologia (con i possibili conseguenti impatti sulla vita delle persone e sull’ambiente), nonché si applicano sofisticate metodologie scientifiche nelle tecniche di indagine sui fatti: sicché ormai il rilievo delle perizie nell’ambito del processo è divenuto altamente problematico perché sposta, oltre il limite considerato tradizionalmente accettabile, l’incidenza della “scienza” sull’andamento del processo stesso. Nei grandi processi per danno ambientale o per responsabilità del produttore, come in molti giudizi penali, la costruzione delle relazioni causa – effetto sembra sfuggire agli strumenti cognitivi del giudice ed essere delegata ad altri soggetti. Le massime di esperienza, le nozioni di senso comune, la “normalità” dei fatti di natura, l’id quod plerumque accidit non possono più riempire le aree di contenimento in cui sfuma il ragionamento giuridico in senso stretto[1]. In un mondo in cui l’inizio e la fine della vita non sono determinati più soltanto da “eventi di natura”; in cui anche l’appartenenza di genere (un tempo limite intangibile persino della sovranità del legislatore) non è più un dato incontrovertibile, ma è anch’esso e soggetto a manipolazione; in cui le tracce dell’agire umano possono essere individuate dopo svariati anni grazie alle capacità d’indagine di un ristrettissimo novero di tecnici: in un mondo di tale complessità tecnologica anche i contenuti dei diritti ormai hanno subito un profondo mutamento. I diritti della personalità (l’identità sessuale, la procreazione, gli atti di disposizione del proprio corpo, il riconoscimento e il disconoscimento dei figli), la privacy, il diritto alla salute, il diritto alla difesa, il diritto di proprietà intellettuale, questi e tanti altri profili dei diritti fondamentali sono stati profondamente incisi dalle acquisizioni della scienza e delle tecnologie.

Tutto ciò si riflette immediatamente sull’esercizio della funzione giurisdizionale, ponendo il giudice in una posizione di “dipendenza necessaria” dai risultati della scienza.

È un fenomeno ben noto, da tempo studiato nell’àmbito del processo civile e penale[2]. È un fenomeno che pone spesso in crisi in concetto stesso di giurisdizione: il “caso Di Bella” ne è stato un esempio paradigmatico. Il Governo ha sollevato un conflitto di attribuzione contro il pretore di Maglie perché questi avrebbe “abusato della giurisdizione” nella ricerca dei presupposti fattuali necessari al riconoscimento di prestazioni sanitarie richieste in nome del diritto alla salute. Non sapendo come affrontare la domanda del paziente, ormai privo di altre prospettive terapeutiche, senza conoscere le risultanze scientifiche della sperimentazione del trattamento Di Bella, il pretore programmava un’attività di accertamento medico-legale intesa a verificare l’efficacia del trattamento in esame sui pazienti ammessi alla sperimentazione ministeriale, in vista della decisione finale che avrebbe dovuto emanare. Un indagine, dunque, svolta a tutto campo per poter ottenere le informazioni necessarie a comprendere se l’esclusione del ricorrente dalla sperimentazione ufficiale, disposta dalle strutture sanitarie, fosse o meno giustificabile in base alle conoscenze scientifiche disponibili.  La consulenza tecnica d’ufficio – avverte la Corte[3] - è strumento sovente indispensabile per l’esercizio della giurisdizione, quando bisogna attingere a conoscenze scientifiche per dirimere le controversie che il giudice è chiamato a decidere. Vi è però un “uso abnorme della giurisdizione” quando, come nel caso in questione, “non si riscontra quel necessario rapporto di congruenza fra gli accertamenti peritali e i casi concreti rimessi alla cognizione del giudice che è limite naturale della funzione giurisdizionale”.

Ma è possibile risolvere il caso concreto senza un quadro scientifico d’insieme? Non si può ammettere, aggiunge la Corte, che il giudice proceda ad un accertamento così esteso da implicare una riconsiderazione dei giudizi resi dagli organi tecnico-scientifici che hanno coordinato la sperimentazione ufficiale ordinata dalle strutture amministrative. Ma si deve ammettere che i dati della ricerca scientifica siano un monopolio dell’amministrazione che il privato non ha il diritto di contestare e il giudice non ha il potere di verificare? E vi è un quesito che sta ad un livello ancora più profondo: a prescindere da chi li fornisca i dati scientifici – sia tale soggetto l’amministrazione o il perito – sino a che punto il giudice può “deresponsabilizzarsi” ed affidarsi a dati esterni, facendo dipendere la decisione di sua competenza da soggetti che non hanno la legittimazione che è conferita al giudice dalla sua peculiare posizione?

Questo è un problema che altrove è scoppiato da tempo: i grandi mass tort cases sorti negli USA portano con sé un peso (anche economico) esorbitante delle consulenze tecniche[4], sino al punto di innestare nella logica del processo un serio problema di filosofia della scienza. Come si valutano i dati scientifici, mai univoci, introdotti nel giudizio? È compito del giudice essere arbitro non solo dei conflitti sul “diritto”, ma anche di quelli che vertono sulle metodologie scientifiche e i loro risultati? Una celebre sentenza della Corte suprema[5], ben nota anche in Italia[6], risponde di sì, stabilendo una serie di canoni che devono presiedere alla decisione del giudice, esplicitamente basati sulla metascienza falsificazionista di Popper, combinata però con una lettura della scienza come istituzione sociale, in cui si esalta il peso della comunità scientifica. Ciò sembra fare del giudice il “guardiano” dell’ammissibilità delle prove scientifiche che lo slega dall’ipse dixit dell’esperto[7]. Gli assegna dunque una posizione non molto lontana da quella in cui la Cassazione penale colloca il giudice italiano[8], sollecitato ad abbandonare, da un lato, la “teoria autoritaria” del libero convincimento cercando nelle leggi scientifiche la “copertura” delle proprie decisioni, ma, dall’altro, a non assumere atteggiamenti giudiziali “remissivi e rinunciatari, indulgenti alla acritica recezione specialmente dei contributi ricostruttivi e valutativi delle «persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina»”, e ad assumere piuttosto il ruolo del “reale dominus del processo acquisitivo e decisionale”, del “ricercatore solerte ed attento del «vero» attraverso la conoscenza ed il vaglio critico di ogni utile emergenza fattuale[9]. La qual cosa comporta però un mutamento importante nella formazione professionale dei giudici (e degli avvocati stessi), che certo non devono trasformarsi in scienziati, ma devono essere in grado di capire il loro modo di procedere[10]. E non è un problema limitato ad alcuni giudici o ad alcune scienze, come si può capire se solo si pensa all’importanza dei dati derivanti dalle scienze economiche, per esempio, per tutte le questioni relative alla applicazione delle misure antitrust[11].

 

2. Ciò sembrerebbe non valere però né per il giudice amministrativo, né per la Corte costituzionale. Per essi di regola non si pone il problema di verificare il nesso di causalità delle azioni umane, e quindi di ricercare la “copertura” delle leggi scientifiche. In quanto giudici di legittimità degli atti pubblici, nelle loro valutazione i dati della scienza entrano, per così dire, per via mediata, come parte di un ragionamento che resta comunque basato su argomenti di diritto e precedenti di giurisprudenza anche quando, come in alcune sentenze del Consiglio di Stato, sembra profilarsi una maggiore disponibilità del giudice ad affrontare la questione tecnico scientifica e a svolgere un sindacato più intenso sulle valutazioni tecnico-scientifiche operate dall’amministrazione[12]. Con una significativa differenza, però: mentre per il giudizio amministrativo vi sono ipotesi tipiche (il riconoscimento della causa di servizio, l’accertamento dell’idoneità fisica, le decisioni dell’Autorità antitrust ecc.), in cui i dati della scienza entrano direttamente nel giudizio, ponendo il problema se il giudice possa o meno svolgere un’attività istruttoria autonoma o attraverso la contrapposizione dei periti di parte tipica dell’adversary system, per la Corte costituzionale questo resta un orizzonte ancora lontano.

Le modalità con cui i “fatti” entrano nel giudizio costituzionale e l’uso molto limitato che la Corte ha fatto sinora dei suoi poteri istruttori sono stati oggetto di studi numerosi e ben noti[13]. I dati della scienza fanno capolino nella giurisprudenza costituzionale soprattutto nel giudizio sulla “verosimiglianza” delle relazioni causali ipotetiche e le relative prognosi che sorreggono la disciplina legislativa oggetto di giudizio. È fuori dubbio che viga una sorta di “presunzione” favorevole alle valutazioni che il legislatore ha compiuto in merito ai presupposti di fatto e alle prognosi[14]: è parte del self restraint che la Corte opera in nome della “discrezionalità” del legislatore, che si presume sappia quel che fa. Ma è una presunzione “debole”, destinata a cedere ad un’indagine più serrata ogni qual volta gli elementi fattuali e previsionali appaiano prima visu non del tutto immuni da critica e la legge “si palesi in contrasto con quelli che ne dovrebbero essere i sicuri riferimenti scientifici o la forte rispondenza alla realtà[15].

I rari episodi in cui la Corte è stata indotta ripercorrere i dati fattuali, le premesse scientifiche, i presupposti tecnologici delle leggi sottoposte al suo giudizio sono noti e non meritano di essere richiamati[16]. In genere si è trattato di leggi anacronistiche fondate su “fatti” ormai superati, come nel caso della giurisprudenza che ha demolito il monopolio pubblico della televisione; ma non mancano anche casi di leggi recenti di cui la Corte ha contestato i presupposti scientifici[17]. Molto spesso, in questi casi, la Corte colpisce fattispecie legislative troppo rigide attraverso dispositivi formulati in modo da renderle più flessibili, così che possa essere consentito al giudice di formulare la regola del caso concreto sulla base di valutazione tecnico-scientifiche più adeguate. Questa non è affatto un’ipotesi isolata, rappresenta anzi un risvolto del modo stesso in cui è costruito il processo incidentale (degli altri giudizi non intendo occuparmi, perché non mi sembrano particolarmente significativi per il profilo qui in esame). I “fatti” entrano nel giudizio della Corte essenzialmente come supporto argomentativo dell’ordinanza del giudice a quo. È vero che le parti possono integrare la documentazione nel contraddittorio, ma è anche vero che esso si instaura (quando si instaura) tra soggetti non sempre in grado di addurre documentazioni particolarmente significative, più significative di quelle prodotte nel giudizio principale e che hanno “stimolato” il giudice ad emettere (e motivare) l’ordinanza di rinvio.

Per cui l’accesso dei “fatti” nel giudizio della Corte soffre di tutti i limiti (insuperabili, a mio giudizio) di cui soffre il contraddittorio davanti alla Corte; né a ciò è pensabile che la Corte sopperisca con propria autonoma attività istruttoria, poiché i “fatti” non sono mai separabili dagli interessi di chi li produce (per questa ragione l’adversary system resta comunque il principale importatore dei dati scientifici in un processo). Dato il limitato ruolo formalmente riconosciuto all’amicus curiae – spesso costituito da soggetti che chiedono di intervenire costituendosi in giudizio, e a cui la Corte risponde negativamente, pur acquisendo di fatto le memorie[18] – i “fatti” e i dati scientifici sono e restano soprattutto quelli prodotti dal giudice: anch’essi non sono del tutto “oggettivi”, perché di fatto sempre orientati alla contestazione della legittimità della legge. Il giudice chiede alla Corte di consentirgli di risolvere il caso che ha di fronte “liberandolo” dal vincolo che lo lega ad una disposizione basata su “fatti” erronei o non rispondenti alla specifica situazione rispecchiata nel caso di specie. Molto spesso perciò, quando la Corte accoglie la questione, non contesta in radice la validità dei presupposti e delle prognosi assunti dal legislatore, ma solo la loro assolutezza, ritenendo che essi possano rivelarsi non attendibili nel caso concreto, per il quale al giudice di merito viene “delegato” il compito di procedere ad accertamenti ed a valutazioni coerenti con la specificità del caso[19]. E così siamo ritornati al punto di partenza, ossia al sovraccarico di responsabilità relative agli accertamenti scientifici che grava sul giudice di merito, che ne è sempre più oberato.

 

3. Il “caso Di Bella” ha generato una serie di pronunce della Corte che segnano lo spartiacque tra i due versanti del tema in discussione. La Corte nega che il giudice delle leggi possa arrogarsi la competenza “a sostituire il proprio giudizio alle valutazioni che, secondo legge, devono essere assunte nelle competenti sedi, consapevole com’è dell’essenziale rilievo che, in questa materia, hanno gli organi tecnico-scientifici[20], così come esclude che ciò possa rientrare nella giurisdizione ordinaria (sent. 121/1999): essa però (o perciò) fa prevalere il ragionamento in base ai diritti costituzionali su quello fondato sulla logica della ricerca scientifica. Se spetta alle sole autorità scientifiche valutare l’attendibilità di una terapia in cui ripone l’ultima speranza il malato “terminale”, tuttavia l’accesso ad essa, sia pure in via sperimentale, non può essere riservato a chi se lo può permettere e negato a chi dipende dall’assistenza pubblica: finché la scienza non dirà l’ultima parola, il principio di eguaglianza prevale su ogni altra considerazione, e spetta al singolo medico valutare se, risultando inutile ogni altra terapia, prescrivere quel trattamento o meno. Ma l’obiettivo polemico – per così chiamarlo – della sentenza non è la scienza, ma il legislatore. Il punto è importante e merita un chiarimento.

Se è vero che la scienza copre un ambito in cui le valutazioni del giudice non possono penetrare, questo non dipende dai limiti della giurisdizione (come fa intendere la sent. 121/1999, indotta dal conflitto che l’ha generata) ma dai limiti della regolazione giuridica. È lo stesso legislatore che si trova di fronte ad un divieto preciso, il divieto di incidere sui trattamenti sanitari limitandoli per ragioni diverse da quelle individuate dagli organismi tecnico-scientifici. Ad essi soltanto spetta di dire ciò che giova e ciò che danneggia la salute: ma il diritto individuale alla salute, così definito nei contenuti e nella strumentazione, si espande con la forza e le garanzie che sono proprie dei diritti fondamentali, condizionando ulteriormente il potere conformativo del legislatore ordinario.

Il punto è stato chiarito nella sent. 282/2002, che costituisce un leading case di notevole importanza. La questione nasce con riguardo ai poteri legislativi delle regioni, ma si chiude con una ridefinizione molto restrittiva dei poteri legislativi tout court, di qualsiasi autorità politica siano essi espressione. Come è noto, il problema era costituito da una legge regionale che decretava la sospensione dell’elettroshock e di alcuni interventi di psicochirurgia. La Corte sviluppa un ragionamento complesso:

a) la pratica medica si pone all’incrocio tra il diritto alla salute e il rispetto della dignità umana;

b) a vigilare questo incrocio sono poste le regole di deontologia professionale, il cui rispetto è a sua volta vigilato dagli organi della professione;

c) non spetta al legislatore il potere di “stabilire direttamente e specificamente quali siano le pratiche terapeutiche ammesse, con quali limiti e a quali condizioni”. “La pratica dell’arte medica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione”; perciò “la regola di fondo in questa materia è costituita dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione”;

d) il legislatore può dettare prescrizioni per garantire la sicurezza dei trattamenti, ma “un intervento sul merito delle scelte terapeutiche in relazione alla loro appropriatezza non potrebbe nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica dello stesso legislatore, bensì dovrebbe prevedere l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi - di norma nazionali o sovranazionali - a ciò deputati, dato l’"essenziale rilievo" che, a questi fini, rivestono "gli organi tecnico-scientifici" (cfr. sent. n. 185 del 1998); o comunque dovrebbe costituire il risultato di una siffatta verifica”.

 

La conclusione cui giunge la Corte è che la legge impugnata è illegittima non per incompetenza della Regione, ma perché è proibito al legislatore in sé, quale soggetto politico, di intervenire nelle scelte terapeutiche se non quando a guidarlo siano, non la “discrezionalità politica”, ma motivazioni fornite dagli organismi tecnico-scientifici. Nei fatti della scienza, insomma, il legislatore non può ingerirsi, ma di essi deve necessariamente tenere conto.

Tenerne conto però in modo non solo, per così dire, passivo: non basta che la legge sia fondata su basi scientifiche e prognostiche adeguate, ma anche che si preoccupi di regolare certi aspetti della ricerca, della sperimentazione, dell’applicazione. Il “principio di incertezza” domina l’atteggiamento del diritto (e non solo) nei confronti dei dati della scienza: così come da esso deriva il problema di come i giudici possano “accertare” nel processo le prove scientifiche, allo stesso modo esso pone a carico del legislatore l’onere di provvedere al rischio che l’incertezza genera. Così, accanto al tradizionale (ma non per questo superato) profilo della disciplina normativa dell’organizzazione pubblica e dell’incentivazione della ricerca[21], la perdita di “oggettività” della scienza e l’aumento clamoroso del suo impatto applicativo ad ogni settore della vita sociale impone l’esigenza di una crescita del ruolo della regolazione giuridica[22]. Il comportamento del legislatore deve essere ispirato infatti al “principio di precauzione”, impostosi da tempo come cardine della legislazione europea e nazionale[23]: esso prescrive alle autorità politiche di introdurre le misure di cautela adatte alla situazione di incertezza scientifica nella quale si può ipotizzare un rischio per beni giuridici rilevanti, e proporzionate a questo[24].

La regolazione legislativa della ricerca, della sperimentazione e dell’applicazione della scienza preme dunque ormai, direttamente e in una misura non comparabile con il passato anche recente, sulla stessa libertà della ricerca, dunque su uno dei diritti fondamentali riconosciuti e tutelati dalla Costituzione. Su questo profilo vorrei ora concentrare l’attenzione.

 

4. Il secondo versante del tema che sto per affrontare è proprio questo: i contenuti della libertà di ricerca scientifica e i criteri di giudizio alla cui stregua deve essere valutata la legittimità costituzionale delle leggi che la limitano.

Nella nostra costituzione non manca una protezione della libertà di ricerca scientifica, anzi vi sono ben due previsioni: la norma “promozionale” dell’art. 9 (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”), e quella di segno marcatamente “negativo” dell’art. 33 (“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”). Non tutte le costituzioni contengono previsioni specifiche a garanzia della libertà della scienza: di solito essa è prevista solo nelle costituzioni più moderne. Ma che una previsione esplicita vi sia o meno cambia qualcosa?

Molto poco, credo. Le costituzioni moderne, anche quelle più recenti, non vanno molto più in là della nostra nella formulazione del livello di tutela della libertà di ricerca scientifica. Arte, scienza, qualche volta cultura e persino sport, sono in genere oggetto di una generica protezione che ne proclama la libertà per ciò che riguarda la pratica, la diffusione, l’insegnamento e (qualche volta[25]) lo sfruttamento economico; oppure la scienza viene menzionata come settore particolare e “privilegiato” nell’ambito della più generale protezione della libertà di manifestazione del pensiero e di informazione[26]. Questo, d’altra parte, è l’esempio degli Stati uniti, nei quali, in assenza di una norma costituzionale ad hoc, la giurisprudenza ha costruito la protezione della libertà della scienza proprio nell’ambito e con lo strumentario delle garanzie proprio della freedom of speech. D’altra parte, così come la complessità dell’incidenza della scienza e della tecnologia sulla vita sociale non è stata percepita a fondo da chi ha scritto i testi costituzionali anche recenti, essa non si è imposta neppure all’attenzione dei giudici americani: il profilo “critico” della libertà della scienza è stato a lungo esclusivamente quello connesso alla libertà di insegnamento e alle “libertà accademiche”[27], pur essendo stato chiara sin dalle origini del pensiero costituzionale la profonda connessione tra la libertà di espressione e il “metodo scientifico”[28]. La scienza non ha costituito una particolare ragione di allarme sociale, il legislatore non è stato stimolato a limitarne le pratiche. Sicché giudici e legislatori hanno a lungo continuato a ritenere che la libertà della scienza (come dell’arte, a cui è costantemente apparentata) costituissero un profilo della libertà di espressione, anzi un profilo di alto valore, meritevole di una protezione ancora più estesa di quella già ampissima garantita alla libertà di espressione[29]. Una famosa “opinione” di Felix Frankfurter, data in una non meno famosa decisione della Corte Suprema in pieni anni ‘50[30], ci chiarisce perfettamente la prospettiva: “la libertà di ragionare e la libertà di discutere sulla base di osservazioni e sperimentazioni sono le condizioni necessarie per l’avanzamento della conoscenza scientifica”. Ci si deve preoccupare di proteggere questa libertà, non certo di limitarla: questo è l’atteggiamento tradizionale in proposito. Quali mai potrebbero essere gli interessi pubblici degni di così alta protezione da porsi validamente come controlimiti di una libertà così profondamente connessa alla costruzione del sistema costituzionale? In fin dei conti la nostra costituzione (alla pari delle altre, nonché delle interpretazioni giurisprudenziali del primo emendamento) slega la ricerca scientifica persino da quel limite del “buon costume” che resta fissato per la libertà di manifestazione del pensiero.

È chiaro che una visione così idilliaca della libertà della scienza era destinata a tramontare di fronte ai problemi che sorgono dalla ricerca in campo genetico[31] e dall’applicazione massiccia che viene oggi fatta delle nuove tecnologie. Gli interessi “antagonisti” alla libertà di scienza oggi si profilano in tutta la loro evidenza e “dignità”, chiedendo un attento bilanciamento. Anche le costituzioni più avanzate sul terreno delle proclamazioni “assolute” della libertà di ricerca, come la costituzione ungherese[32], dovranno fare i conti con queste esigenze. Ecco che allora i paesi che non hanno una tutela costituzionale autonoma della libertà di ricerca, ma la includono nella libertà di espressione, possono affrontare queste tematiche nuove sfruttando la ben consolidata giurisprudenza sui limiti posti alla libertà di espressione in nome di interessi concorrenti. Che strada ci indicano?

Innanzitutto che la “ricerca scientifica” forse non è un “bene” omogeneo, un “tutto” che può essere trattato alla stregua di un unico parametro costituzionale. Coesistono aspetti molto diversi: la ricerca teorica, la sperimentazione delle ipotesi scientifiche, la diffusione delle teorie e lo sfruttamento economico dei “prodotti” scientifici. Quest’ultimo aspetto ci porta probabilmente ai margini o fuori dall’ambito che qui ci interessa, mentre la diffusione e l’insegnamento delle teorie scientifiche sta tutto dentro l’alveo della libertà “privilegiata” di espressione. I nodi da sciogliere stanno, al solito, nel mezzo: per esempio, se si possa separare un’attività di ricerca sicuramente protetta dall’ombrello delle previsioni costituzionali e l’attività di sperimentazione, che di per sé non potrebbe essere (o almeno non tutta) costruita come “espressione di pensiero”; tormentare le cavie in laboratorio o miscelare sostanze nell’alambicco sono attività materiali che non veicolo “pensiero”. Già nella sua giurisprudenza più lontana la Corte costituzionale italiana, così come la Corte suprema ancora prima, ha praticato una difficile cesura tra ciò che è espressione e ciò che è azione: può applicarsi questa distinzione alla libertà di ricerca, nel senso di separare la ricerca-pensiero dalla ricerca-sperimentazione?

Da un certo punto di vista, la scienza senza sperimentazione perde qualsiasi valore[33]; da un altro punto di vista non c’è dubbio che la scienza non può che godere di una libertà assoluta (e quindi perfettamente rientrante nella immagine della manifestazione “privilegiata” del pensiero), mentre non ogni tipo di sperimentazione deve necessariamente essere protetta, e forse neppure ammessa. Il che significa che nessuna restrizione può essere imposta alla elaborazione (diffusione, insegnamento ecc.) delle teorie scientifiche, mentre è possibile che venga ristretta l’attività di sperimentazione scientifica, purché ricorrano alcune condizioni. Il problema allora è verificare quali siano queste condizioni.

 

5. Non inizierò dalla ricognizione degli interessi che possono validamente competere con la libertà della scienza e della relativa sperimentazione. Ho sempre pensato infatti che il bilanciamento degli interessi non possa essere preceduto da una ricognizione astratta degli interessi “ammessi” e dalla loro sistemazione in un ordine logico di precedenze. Più che a uno scaffale in cui sistemare ordinatamente  contenitori contrassegnati da etichette che si riferiscono ad interessi o ai “diritti”, la scena assomiglia piuttosto ad un marciapiede affollato in una giornata di pioggia e di vento. La tutela costituzionale dei diritti e delle libertà funziona come funzionano gli ombrelli in quella circostanza: vi è una parte della persona sicuramente ben protetta (se l’ombrello è ben costruito), ma poi, man mano che ci si allontana dalla testa, le macchie di umidità diventano sempre più evidenti, senza però che vi sia una linea precisa che separi l’asciutto dal bagnato[34].

La “testa” della libertà di ricerca scientifica è sicuramente protetta dalle garanzie costituzionali, in modo almeno altrettanto intenso di quello assicurato dalla protezione della libertà di espressione: nessun interesse competitivo appare in grado di minacciarla. Poi, man mano ci si allontani da questo nucleo e entrino in considerazione le attività “materiali” collegate alla ricerca, ecco che la protezione si attenua, filtra la considerazione di altri interessi, altri ombrelli si contrappongono. La sperimentazione, per esempio, incontra sicuri limiti in interessi protetti da “ombrelli” costituzionali ben saldi, come la tutela della salute (vedi le complesse regole che disciplinano l’introduzione di nuovi farmaci) e della dignità delle persone (il principio del “consenso informato” per i trattamenti medici è ormai costituzionalizzato in alcune recentissime costituzioni[35]); la applicazione delle tecnologie derivanti dalla ricerca – ma non la ricerca stessa[36] - si scontra con interessi molto più lontani dalla “persona”, e tuttavia sicuramente protetti, quali la tutela dell’ambiente e la protezione dei consumatori; i diritti derivanti dallo sfruttamento economico dei “prodotti” della ricerca scientifica trovano probabilmente la loro tutela sotto un ombrello diverso, quello che copre la proprietà e l’iniziativa economica. Ma vi è poi anche un altro versante, l’interesse “positivo” della collettività allo sviluppo della ricerca, e l’interesse che i singoli possono vantare – anche, per esempio, in nome del diritto alla salute, come nel “caso Di Bella”[37] – ad usufruire dei risultati della ricerca[38].

Insomma, il marciapiede è affollato, molteplici i sensi di marcia, e il gioco degli ombrelli in movimento assai complesso. Bisogna muoversi con le tecniche tipiche del bilanciamento degli interessi[39], ricostruendo dunque di volta in volta la mappa degli interessi in gioco, valutando quanto la protezione di uno comprima la tutela dell’altro, badando che nessuno venga interamente sacrificato, che il sacrificio sia proporzionato, che non vi siano soluzioni meno “costose” che limitino il sacrificio richiesto, che comunque il sacrificio non tocchi il “contenuto essenziale” del diritto o interesse in questione. L’esperienza della giurisprudenza, anche italiana, in tema di libertà di espressione ci viene incontro, mostrandoci quale siano i punti nevralgici attorno ai quali focalizzare l’attenzione. I punti sono essenzialmente due: l’uno guarda alla connessione tra la libertà “negativa” di manifestazione del pensiero e la disponibilità degli strumenti necessari perché il pensiero possa essere efficacemente espresso; l’altro all’incidenza che le limitazioni degli strumenti o delle attività connesse all’espressione del pensiero abbiano sui contenuti del pensiero stesso.

Si possono dunque sviluppare due test a cui sottoporre le leggi che intervengono per limitare la sperimentazione scientifica. Il primo pone la domanda: quanto una determinata limitazione apposte alla attività di sperimentazione incide sulla concreta possibilità di svolgere la ricerca scientifica? Il secondo propone invece un quesito del tutto diverso: le limitazioni poste alla sperimentazione sono “neutrali” rispetto al contenuto della ricerca, agendo in via generale su qualsiasi tipo o settore di attività scientifica, o invece sono rivolte proprio a colpire un determinato contenuto, una determinato filone di ricerca scientifica? Superati questi primi test preliminari, che servono a verificare il rispetto della parte più gelosa della tutela delle libertà di scienza, la “testa” che è al centro dell’area coperta dall’ombrello, si potrebbe poi passare ai test successivi: alla protezione di quali interessi è ispirata la limitazione introdotta? Vi è proporzione tra sacrificio richiesto e beneficio ottenuto? Vi sarebbero soluzioni meno costose? ecc.

 

6. Proviamo ora ad applicare i nostri test a quelle che probabilmente sono le prime leggi italiane che esplicitamente si propongono di introdurre limitazioni alla ricerca: la disciplina “di protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali o ad altri fini scientifici” (D.lgs. 116/1992) e la legge sulla procreazione medicalmente assistita (L. 40/2004).

La prima introduce:

-               un limite alle “finalità” per cui gli animali possono essere utilizzati a fini scientifici[40];

-               un limite relativo alle specie animali utilizzabili[41];

-               un regime di autorizzazione delle strutture.

Come si vede, si tratta di un divieto limitato e “mirato”. Il legislatore ritiene di dover tutelare la vita degli animali escludendo che essi vengano sacrificati se non per ricerche e sperimentazioni rivolte ad obiettivi non futili; si preoccupa di impedire che i prelievi destinati alla sperimentazione animale abbiano un impatto sull’equilibrio biologico; sottopone ad un controllo, implicito nel regime autorizzatorio, le strutture che operano, in modo da evitare che proliferino centri di sperimentazione privi dei requisiti richiesti. Con una legge successiva (L. 413/1993) il legislatore è poi intervenuto per tutelare un altro interesse, il diritto all’obiezione di coscienza di quanti si trovino coinvolti in pratiche di sperimentazione animale (ecco un altro ombrello far capolino sul nostro marciapiede).

Quanto queste limitazioni alla sperimentazione sugli animali incide sulla concreta possibilità di svolgere la ricerca scientifica? Indubbiamente incide, ma non in modo tale da impedire o rendere estremamente difficile l’attività di ricerca. La legge è costruita soprattutto per mettere sotto controllo un fenomeno e per evitare che la vita degli animali sia sacrificata per ricerche low value e fortemente orientate allo sfruttamento economico (si pensi a quelle connesse all’industria cosmetica), oppure che agli animali siano inferte sofferenze inutili.

Queste limitazioni all’attività di sperimentazione sono “neutrali” rispetto al contenuto della ricerca? Difficilmente si può negarlo: benché vengano enumerate le finalità per le quali la sperimentazione sugli animali è consentita, esse sono definite in modo talmente ampio da togliere ogni sospetto che il legislatore sia mosso dall’intento di colpire determinati filoni di ricerca ed abbia prevenzioni od obiettivi ideologiche. È vero che istituisce un ordine di precedenza tra interessi (la salute e l’ambiente vengono prima della ricerca scientifica; altri obiettivi di ricerca e la loro utilizzazione commerciale vengono dopo), ma è vero anche che nessun tipo di ricerca viene direttamente vietata o indirettamente impedita.

È quanto ha indirettamente osservato la stessa Corte costituzionale. Giudicando della legittimità costituzionale di una legge della Regione Emilia-Romagna, che introduceva una serie di divieti rigidi e assoluti rivolti contro la pratica della vivisezione[42]. La Corte contrappone a questo indirizzo legislativo quello seguito dal legislatore statale, che “bilancia attentamente il doveroso rispetto verso gli animali sottoposti a sperimentazione e l’interesse collettivo alle attività di sperimentazione su di essi che sono ritenute indispensabili, sulla base delle attuali conoscenze di tipo scientifico, sia dall’ordinamento nazionale che dall’ordinamento comunitario”. È interessante anzi che “nell’ambito della materia «ricerca scientifica»” la Corte individui come interessi di cui tenere particolare conto lo sviluppo della ricerca” e “la massima tutela degli animali che possono essere coinvolti nelle sperimentazioni” (ecco dunque avanzare l’ennesimo “ombrello”), e riconosca alla disciplina statale il merito di aver fissato “il punto di equilibrio della sperimentazione”, ricavandone perciò il divieto per le regioni di modificarlo riducendo ulteriormente la relativa libertà della ricerca scientifica o comprimendo l’attuale livello di tutela degli animali sottoponibili a sperimentazione”.

 

7. Discorso ben diverso sembra doversi fare per la legge sulla procreazione assistita. Si tratta di una legge ben più complessa di cui non intendo occuparmi in questa sede se non per il profilo che attiene, appunto, alla libertà di ricerca.

La disciplina dettata dalla legge (art. 13) introduce:

-               un divieto generalizzato di “qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano”;

-               una eccezione per cui “la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell'embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative”;

-               una serie di divieti rafforzati (anche nella sanzione) per le ipotesi di produzione di embrioni umani per fini di ricerca e di sperimentazioni che abbia scopi eugenetici, pratichi la clonazione degli embrioni o produca ibridi e chimere;

-               un apparato sanzionatorio molto pesante, sia amministrativo che penale, a “copertura” dei divieti.

 

Questa disciplina può superare i test che abbiamo elaborato? Si deve notare anzitutto che siamo di fronte ad un divieto generalizzato, poiché l’unica eccezione prevista (di cui mi sfugge il senso, non essendo un tecnico, ma che forse un senso neppure lo ha[43]) non apre affatto uno spiraglio alla “ricerca”, bensì, semmai, a qualche ipotetico tentativo di intervento terapeutico[44]. Il divieto è disancorato dal resto della legge, in quanto colpisce non soltanto la ricerca sugli embrioni prodotti nell’ambito dei tentativi di procreazione assistita, ma anche quella sugli embrioni già esistenti, soprannumerari o importati da altri paesi. Come intitola il capo VI, che la ospita, la disciplina mira alla “tutela dell’embrione” in sé per sé, vietando ogni tipo di sperimentazione che lo assumano come oggetto, qualsiasi sia lo scopo prefissato dalla ricerca, anche se attinente ai più elevati tra gli interessi protetti dalla costituzione.

Questa norma, dunque, sembra fatta apposta per fallire tutti i test predisposti. Un divieto così rigido e generale potrebbe essere giustificato soltanto se:

a)                 la sperimentazione colpita fosse sicuramente pregiudizievole per interessi sociali altamente apprezzabili e largamente condivisi

b)                 e non risultasse essenziale alla ricerca scientifica,

c)                 oppure compromettesse un tipo di ricerca di così “basso livello” da non reggere il confronto con l’importanza degli interessi minacciati.

 

Se proviamo a verificare queste condizioni, ci accorgiamo che nessuna di esse si verifica.

Gli interessi tutelati dalla norma sono quelli dell’“embrione”, genericamente individuato. La premessa da cui si prendono le mosse è che ciò che genericamente viene chiamato “embrione” sia “vita”, sia – come dice uno degli slogan più noti – “uno di noi”. Ma questa premessa che statuto ha? Vi è in essa qualche prova oggettiva, qualche dimostrazione condivisa, qualche elemento di verità incontrovertibile e universalmente condivisa? Certamente no: i “misteri” della vita e della morte sono fuori delle conoscenze scientifiche e delle certezze umane, nel dominio del “principio di ignoranza”[45]. In questo dominio la norma vuole muovere armando con gli strumenti punitivi dello Stato ciò che corrisponde ad una visione della vita e della sua morale che è condivisa da una parte limitata della società. Non importa se si tratti di una parte minoritaria o maggioritaria, non è questo che conta: in uno Stato costituzionale e pluralista nessuno, per quanto numericamente “pesante”, ha il diritto di imporre le proprie opzioni etico-religiose agli altri[46]. Nessuno costringe altri ad abortire o a sottoporsi a tecniche di procreazione medicalmente assistita: ma nessuno può neppure imporre agli altri di non farlo, se non in nome di interessi fondamentali che siano ampiamente condivisi e perciò – si deve supporre - scritti nella Costituzione. Ed invece la legge sposa una concezione del tutto discutibile di “vita” e di “persona”, di ciò, dunque, di cui non si è neppure in grado di determinare con sicurezza l’inizio, il quale comunque non sarebbe accertabile se non con gli strumenti del laboratorio: un evento che sfugge alla percezione diretta delle persone ma da cui scatta un “regime giuridico” che ha un impatto duro, inflessibile (e persino tragico per coloro che l’hanno voluto).

Ecco che allora risulta con evidenza che il divieto di svolgere ricerca sugli embrioni umani non è affatto content neutral, ma anzi va a colpire proprio il “contenuto” della libertà scientifica, imponendo ad esso un limite dettato esclusivamente da una visione ideologica. Perché non ci si può certo neppure appellare al “grave pericolo” che la ricerca sugli embrioni comporta per la società: i divieti speciali (la produzione ad hoc di embrioni umani, la clonazione, la generazione di ibridi) sono già di per sé sufficienti a proteggere gli interessi e i “valori” che si possono ritenere minacciati da una ricerca sperimentale che “sfugga di mano”[47]. Rendere effettivi questi divieti si può farlo senza bisogno di porre un divieto generale, ma semplicemente con l’introduzione di un regime di autorizzazione e di controllo sui centri di ricerca, come si fa negli altri paesi[48]. Il divieto generalizzato risulta perciò uno strumento sproporzionato rispetto all’obiettivo dichiarato, dimostrando ad abundantiam che l’obiettivo vero è quello intimamente legato alla visione ideologica di cui si diceva.

Né si può ritenere che la ricerca sugli embrioni sia low value. Può essere che la ricerca genetica sulle cellule embrionali sia ancora lontana dal produrre risultati utili alle applicazioni terapeutiche, ma non c’è dubbio che solo la comunità degli scienziati può essere giudice dell’utilità o meno di un tipo di ricerca, delle sue promesse e del suo futuro[49]. È ciò non corrisponde soltanto agli interessi di chi fa parte di quella comunità (o dei soggetti economici che attendono impazienti di sfruttarne i risultati, altro spauracchio che spesso viene agitato, come se la libera iniziativa economica non fosse l’angelo e il diavolo di tante altre situazioni, non meno delicate della ricerca genetica), ma anche all’interesse dell’intera collettività allo sviluppo della ricerca scientifica. L’imposizione di questo divieto risulta gravemente lesiva degli equilibri tra principi costituzionali anche per questo: perché esprime la protervia di una maggioranza “dei sani” sul diritto alla salute di quella minoranza che alla ricerca genetica lega la sua speranza di vita. Una speranza mal riposta? Non credo che spetti al legislatore stabilirlo, se non su sicure basi “scientifiche” e non certo per scelta squisitamente politica: non è questo che ci ha insegnato la Corte costituzionale[50]?

 

8. Non voglio intrattenermi sui tanti profili critici che la legge 40/2004 presenta, perché esorbiterei dal mio tema. Ma la norma che ho preso in esame non è facilmente separabile dal resto della legge, poiché essa è tutta intessuta dallo stesso filo ideologico, che si enuncia sin dalla disposizione di esordio. Tutto è giocato infatti sull’equivoco che si forma attorno alle figure del “concepito” e dell’“embrione” quali soggetti di diritto, la difesa dei cui interessi andrebbe portata in primo piano, parificata alla difesa dei diritti fondamentali degli individui (questo è infatti il contenuto “programmatico” dell’art. 1 della legge). Per intenderci, non la ritengo una visione spregevole, e mi sembra comprensibile e apprezzabile che essa sia assunta a regola della propria vita; ma diviene inaccettabile se posta come regola “oggettiva”, gravante sul comportamento di tutti[51].

Se risaliamo a prima della nascita, incontriamo una serie di stadi evolutivi del “concepito” – i cui “diritti” la legge intende tutelare - che possono avere (e in parte hanno[52]) rilevanza giuridica diversa dallo status del nato; e che risulta a sua volta differenziata man mano che si regredisce nel tempo della gestazione. Perché ad essi andrebbe estesa la tutela garantita all’essere umano, come non ci fossero distinzioni rilevanti da compiere? Solo un dogma fideistico può portare a queste conseguenze, giungendo a conclusioni grottesche, come quella di preoccuparsi non della sorte dei vivi, che aspettano i risultati delle ricerche genetiche, ma dei “concepiti” soprannumerari, che devono attendere nel limbo delle celle frigorifere una lenta e irreversibile agonia, perché essere utilizzati a fini di ricerca lederebbe invece la loro “dignità umana”. Si arriva persino ad una tale inversione dell’ordine delle precedenze da immaginare che l’unica ricerca da autorizzare sia quella finalizzata a migliorare le tecniche di criorefrigerazione del “limbo” in cui sono relegati gli embrioni non impiantati, sacrificando a tal fine, con buona pace della loro dignità umana (e senza le garanzie della giurisdizione che trattamenti “personalizzati” del genere richiederebbero se condotti su “uno di noi”), gli “embrioni orfani”, quelli “per i quali sia stato accertato lo stato di abbandono[53]. Su quali basi, se non un dogma di fede, si può affermare e imporre agli altri l’idea che sia più “vita” l’oocita fecondato che – per dirne una - un animale destinato alla vivisezione?

Il divieto di svolgere la ricerca sperimentale sugli “embrioni” umani rivela tutta la sua matrice ideologica ed è diretta a colpire proprio il “contenuto” della ricerca scientifica: ne è riprova il fatto che essa sia ammessa invece, pur a danno degli “embrioni”, al solo fine di procrastinarne la “scadenza”, un evento  che il legislatore non osa chiamare “morte”, pur finendo una “esistenza” che egli equipara alla vita. Quale competenza ha in materia il legislatore? Quali basi scientifiche armano la sua mano quando interviene in questioni dominate non dal “principio di incertezza”, ma dal “principio di ignoranza”? Quali confini potranno essere fissati alla sua ingerenza in questioni così marcatamente esistenziali? Se si retrocede all’embrione e, ancor prima, allo zigote, all’ootide e a tutte le fasi che la legge non distingue, includendole nel termine impreciso ‘concepito’ ed estendendo ad esse un unico status di tutela giuridica, perché fermarsi nel ripercorrere il processo della fertilizzazione dell’ovocita? E perché non affrontare il tema della tutela giuridica dei gameti? Perché negare la personalità individuale dello spermatozoo (così ben impersonata da Woody Allen nel noto film), dalla cui lotta per la vita tutto trae origine?

Qualche base testuale pure l’abbiamo nelle Sacre scritture. La storia di Onan[54] lo dimostra, presentandoci anzi quello che è probabilmente il primo caso documentato di “procreazione assistita” (non medicalmente, però). Onan è stato invitato da suo padre Giuda a fecondare la moglie di suo fratello defunto; ma a Onan non piace l’idea di divenire il padre di una prole che non sarebbe stata considerata sua (affiora già il tema del riconoscimento del nato da procreazione “eterologa”!) e perciò fonda la fortunata pratica, che da lui prende appunto il nome, di disperdere il seme per terra. E’ un racconto modernissimo, ma la scelta di Onan “non fu gradita al Signore, il quale fece morire anche lui”. Come si vede un principio di tutela dello spermatozoo, per di più duramente sanzionato, non manca affatto.

 



[1] Cfr. M. TARUFFO, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudice, in “Riv.trim.dir.proc.civ.” 2001, 665 ss. e, con particolare riferimento a come il ricorso alla scienza sia il necessario superamento del tradizionale riferimento al “senso comune”, 687 ss.

[2] Oltre allo scritto di Taruffo citato alla nota precedente, cfr. dello stesso A. Il giudizio prognostico del giudice tra scienza privata e prova scientifica, in Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, Bologna 2002, 329 ss., spec. 340 ss.; L. LOMBARDO, Prova scientifica e osservanza del contraddittorio nel processo civile, “Riv.dir.proc.” 2002, 1083 ss., 1122. Per il diritto penale, scienza causale per eccellenza, cfr. per tutti F. STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, 2.a ed., Milano 2000. Per una valutazione d’insieme cfr. ora anche G. SILVESTRI, Scienza e coscienza: due premesse per l’indipendenza del giudice, in “Dir.pubbl.” 2004, 411 ss.

[3] Sent. 121/1999.

[4] Vicende descritte e commentate con grande attenzione da S. JASANOFF, Science at the Bar, Cambridge, Mass. 1995 (di cui esiste una traduzione italiana con il titolo La scienza davanti ai giudici: la regolazione giuridica della scienza in America , Milano, 2001).

[5] Il riferimento è alla Daubert v. Merrell Dow Pharms., 509 U.S. (1993), 579 ss., 592-595 (se ne può leggere una traduzione in “Riv.dir.proc.civ.” 1996, 277 ss., con la nota di Dondi citata alla nota seguente), su cui vedi, tra i tantissimi commenti, le considerazioni di M. G. FARRELL, Daubert v. Merrell Dow Pharmaceuticals, inc.: Epistemiology and Legal Process, in 15 “Cardozo L. Rev.” (1994), 2183 ss.

[6] Cfr. G. PONZANELLI, Scienza, verità e diritto, in “Foro it.” 1994, IV, 184 ss.; M. TARUFFO, Le prove scientifiche nella recente esperienza statunitense, in “Riv.dir.proc.civ.” 1996, 219 ss.; A. Dondi, Prardgmi processuali ed “expert witness testimony” nell’ordinamento statunitense, ibidem, 1996, 261 ss.; G. CANZIO, Prova scientifica, ragionamento probatorio e libero convincimento del giudice nel processo penale, in “Diritto penale e processo” 2003, 1193-1200; G. SILVESTRI, op.cit., 424. Anche nella giurisprudenza italiana non mancano riferimenti espliciti alla sentenza Daubert: cfr. per tutti la sentenza Petrolchimico di Marghera (Trib. Venezia, Sez. I pen., 29 maggio 2002, di cui vedi ampi stralci in “Riv. it. med. leg.” 2002, IV, 1634 ss.) in cui si elaborano quattro criteri per l’accertamento delle prove scientifiche che sono evidentemente ispirati a quelli elaborati dalla Corte suprema americana (v. pag. 1650).

[7] In termini espliciti General Electric Co. v. Joiner, 522 U.S. (U.S., 1997), 136 ss., 146: cfr. D.S. CAUDILL - L.H. LARUE, Why Judges Applying the Daubert Trilogy Need to Know about the Social, Institutional, and Rhetorica - and not Just the Methodological - Aspects of Science, 45 “Boston College Law Review” (2003), 1 ss.

[8] Cfr. la “storica” sentenza (così la definisce R. BLAIOTTA, Con una storica sentenza le Sezioni unite abbandonano l'irrealistico modello nomologico deduttivo di spiegazione causale di eventi singoli. Un nuovo inizio per la giurisprudenza, nel suo commento in “Cassaz. pen.” 2003, 1176 ss.) della Cassazione, S.U., sent. 10 luglio 2002 (dep. 11 settembre 2002), n. 30328, in “Cassaz. pen.” 2002, 3643 ss. (con nota di T. MASSA, Le Sezioni unite davanti a “nuvole ed orologi”: osservazioni sparse sui principio di causalità) o in “Dir. pen. e proc.” 2003, 50 ss. (con nota di A. DI MARTINO, Il nesso causale attivato da condotte omissive tra probabilità, certezza e accertamento), od ancora in “Foro it.” 2002, 601 ss. (con nota di O. DI GIOVINE, La causalità omissiva in campo medico-chirurgico al vaglio delle sezioni unite), in “N.Giur.civ.comm.” 2003, 246 ss. (con nota di M. CAPECCHI, Le sezioni unite penali sul nesso di causalità omissiva. Quali riflessi per la responsabilità civile del medico?).

Sul “filo d’oro” che collega la giurisprudenza della Cassazione italiana avversa al “principio autoritario del libero convincimento” e la giurisprudenza Daubert della Corte suprema, cfr. F. STELLA, L’ultimo decennio di sentenze della Cassazione sulla condizione necessaria “conforme” a leggi di copertura, Postfazione a Leggi scientifiche cit., 414.

[9] Così G. IADECOLA, Colpa medica e causalità omissiva: nuovi criteri di accertamento, in “Dir. pen e proc.” 2003, 603 ss., 606. Sul rischio che i giudici, di fronte all’incertezza dei dati scientifici, approdino ad un’anarchia metodologica che indebolisca le garanzie derivanti dal vincolo che lega il giudizio ai dati scientifici, si veda, con riferimento ad alcune decisioni più recenti della IV Sez. penale della Cassazione, F. STELLA, Fallacie e anarchia metodologica in tema di causalità, in “Riv.it.dir.proc.pen.” 2004, 23 ss., nonché ID., L'allergia alle prove della causalità individuale. Le sentenze sull'amianto successive alla sentenza Franzese, ivi 379 ss.

[10] Cfr. M. TARUFFO, Le prove scientifiche cit., 248 ss.

[11] Cfr. I. A. GAVIL, After Daubert: Discerning the Increasingly Fine Line between the Admissibility and Sufficiency of Expert Testimony in Antitrust Litigation, in 65 “Antitrust L.J.” (1997), 663 ss. Un nesso diretto tra la sentenza Daubert e l’incremento della presenza si esperti in materie economiche nelle cause relative alla regolazione antitrust è messo in luce da R. D. BLAIR – J. B. HERNDON, The Implications of Daubert for Economic Evidence in Antitrust Cases, in 57 “Wash & Lee L. Rev.” (2000), 801 ss., 801. 

[12] Cfr. A. TRAVI, Il giudice amministrativo e le questioni tecnico-scientifiche: formule nuove e vecchie soluzioni, in “Dir.pubbl.” 2004, 439 ss.

È interessante che anche in Italia le vertenze in materia antitrust abbiano posto il giudice (amministrativo) di fronte al problema di valutare il peso da assegnare ai dati della scienza economica: ma non sembra che l’atteggiamento del Consiglio di Stato sia propenso ad aprire il credito alla capacità delle scienze economiche di offrire risposte univoche e “vere”: Cfr. ancora A. TRAVI, Il giudice amministrativo cit. 440-445.

[13] Senza alcuna pretesa di completezza, cfr. A. BALDASSARRE, I poteri conoscitivi della Corte costituzionale e il sindacato di legittimità astratto, in “Giur.cost.” 1973, 1497 ss.; A.CERRI, I poteri istruttori della Corte costituzionale nei giudizi sulle leggi e nei conflitti, in "Giur. Cost." 1978, 1335 ss.; M. CHIAVARIO, Ordinanze interlocutorie della Corte costituzionale nei giudizi di legittimità promossi in via incidentale, in Scritti in onore di Vezio Crisafulli I, Padova 1985, 215 ss., 232-239; LUCIANI M., I fatti e la Corte: sugli accertamenti istruttori del giudice costituzionale nei giudizi sulle leggi, in Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Milano 1988, 521 ss.; R. BIN, Atti normativi e norme programmatiche, Milano 1988,313 ss.; G. BRUNELLI - A. PUGIOTTO, Appunti per un diritto probatorio nel processo costituzionale: la centralità del "fatto" nelle decisioni della Corte, in Annali dell'Università di Ferrara, 1995, 185 ss. e in L’organizzazione e il funzionamento della Corte costituzionale (a cura di P. Costanzo),Torino 1996, 245 ss.; T. GROPPI, I poteri istruttori della Corte costituzionale nel giudizio sulle leggi, Milano 1997; G. D’AMICO, La Corte e lo stato dell’arte (prime note sul rilievo del progresso scientifico e tecnologico nella giurisprudenza costituzionale), in Il giudizio sulle leggi e la sua “diffusione” (a cura di E. Malfatti, R. Romboli, E. Rossi), Torino 2002, 431 ss.

[14] Prognosi rilevata già da A. CERRI, Divieto di differenziazioni normative per ragioni di sesso e carattere “privilegiato” delle valutazioni legislative, in “Giur.cost.” 1986, I, 956 ss., 958 s.

[15] Sent. 114/1998, in “Giur.cost.” 1998, 965 ss. (con nota di L. VIOLINI, Sui contrasti tra valutazioni giuridiche e valutazioni scientifiche nella qualificazione della fattispecie normativa: la Corte compone il dissidio ma non innova l'approccio).

[16] Sia consentito rinviare all’analisi compiuta in Atti normativi cit., 328 ss.

[17] È il caso delle sent. 438 e 439 del 1995, che dichiarano illegittime le norme sulla detenzione di persone affette da HIV, introdotte nel 1993: cfr. le osservazioni di A. PUGIOTTO, Due casi di controllo della Corte costituzionale sui presupposti empirici di scelte legislative “penali”, in “Giur.cost.” 1995, 3460 ss.

[18] Proprio attraverso l’espansione di un’apertura “informale” del contraddittorio, cioè l’indizione di udienze conoscitive a cui invitare le organizzazioni d’interessi coinvolte nella decisione, la Corte potrebbe risolvere il problema di come utilizzare l’adversary system senza aprire formalmente il contraddittorio accreditando diritti di intervento la cui dilatazione sarebbe inevitabile e incontrollabile. È significativo il fatto che nella citata sentenza Daubert v. Merrell Dow Pharms., la Corte Suprema sia stata “assistita” da tre nutriti ed autorevoli gruppi di “amici”, tra cui ben sei Premi Nobel e le Associazioni nazionali che rappresentano parte significativa del mondo scientifico (cfr. FOSTER, K. R. – HUBER, W. H., Judging Science: Scientific Knowledge and the Federal Courts, MIT Press 1999, 2). Questo tipo di mobilitazione ha probabilmente influito sulla ispirazione “istituzionalista” che si rintraccia nella motivazione della sentenza (vedi § 1).

[19] È questo il caso, per esempio, delle sentenze citate nella nota precedente e, tra le decisioni più recenti, della sent. 253/2003, che dichiara l’illegittimità dell’articolo 222 del codice penale, “nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale”. Può essere richiamata a questo proposito la più generale figura della “delega di bilanciamento”, cfr. R. BIN, Diritti e argomenti, Milano 1992, 120 ss.

[20] Sent. 185/1998: il principio è ribadito in termini ancora più drastici nella sent. 188/2000. L’equiparazione tra il giudice costituzionale e il giudice ordinario, per quanto riguarda l’esclusione dalle valutazioni che spettano agli organi tecnico-scientifici, è espressamente affermata nell’ord. 385/1998, che dichiara ammissibile il conflitto di attribuzione che sarà poi deciso con la sent. 121/1999.

[21] L’intervento pubblico nella ricerca non è peraltro privo di incidenza sulla libertà della ricerca scientifica, che esso infatti tende ad orientare: cfr. in questo senso G. ENDRICI, Poteri pubblici e ricerca scientifica, Bologna 1991, cap. I. Sull’organizzazione pubblica della ricerca cfr. anche F. MERLONI, Autonomie e liberta nel sistema di ricerca scientifica, Milano 1990 e L. FULCINITI, L'organizzazione della ricerca scientifica, Milano 1993.

[22] Cfr. A. ORSI BATTAGLINI, Libertà, legalità, mercato. Profili comparatistici del diritto della scienza, in Scritti per Nigro, I, Milano 1991, 465.

[23] Sul tema ormai la letteratura è più che abbondante: per tutti cfr. M. CECCHETTI, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, Milano 2000, 174 ss.; S. GRASSI – A. GRAGNANI, Il principio di precauzione nella giurisprudenza costituzionale, in Biotecnologie e tutela del valore ambientale (a cura di  L. Chieffi), Torino 2003, 149 ss.

[24] S. GRASSI – A. GRAGNANI, Il principio di precauzione cit., 152-154.

[25] Cfr. per es. l’art. 42.2 Cost. potoghese, l’art. 60 della Cost. slovena, l’art. 43 Cost. slovacca, l’art. 68.4 Cost. croata, l’art. 113 Cost. lettone, l’art. 42.3 Cost. estone, l’art. 21.4 Cost. lituana ecc.

[26] Cfr. per es. l’art. 13.2 della Cost. svedese o l’art. 20 della Cost. spagnola.

[27] Così le intitola T. I. EMERSON, The System of Freedom of Expression, New York 1970, 593 ss., testo fondamentale in cui però la libertà di ricerca scientifica non ottiene ancora un rilievo autonomo.

[28] Cfr. T. I. EMERSON, Colonial Intentions and Current Realities of the First Amendment, in 125 “U. Pa. L. Rev.” (1976-1977), 737 ss., 741.

[29] Il che per altro corrisponde ad un’opinione diffusa in dottrina, per cui la vicinanza del riconoscimento della scienza, dell’arte e della religione  si spiega “in quanto esperienze di senso” che le fanno collocare ad un livello alto nelle gerarchia dei valori costituzionali: cfr. in questo senso, citando Häberle, A. ORSI BATTAGLINI, Liberta scientifica, libertà accademica e valori costituzionali, in Nuove dimensioni nei diritti di libertà (Scritti in onore di Barile), Padova 1990, 89 ss., 96.

[30] Sweezy v. New Hampshire, 354 U.S. (1957), 234 ss., 262-63.

[31] Il che è stato perfettamente intuito già da T.I. EMERSON, Colonial Intentions cit., 746. Nella sua audizione al Comitato del Congresso americano che studiava i profili costituzionali della regolazione della ricerca sul DNA, Emerson pose in chiaro sia la relazione tra sperimentazione e ricerca, sia la possibilità che un certo tipo di sperimentazione estrema possa definirsi “azione” e porsi fuori dalla tutela della libertà di espressione: cfr. G. L. FRANCIONE, Experimentation and the Marketplace Theory of the First Amendment, in 136 U. Pa. L. Rev.” (1987), 417 ss., 420.

[32]Solo gli scienziati possono decidere sulle questioni relative alla verità scientifica e determinare il valore scientifico della ricerca”, proclama l’art. 70G.2 della costituzione attualmente in vigore.

[33]La sperimentazione rappresenta quella sequenza del fenomeno scientifico in cui il ragionamento umano lascia il posto ad un’azione materiale diretta a verificare concretamente la serietà della ipotesi… precedentemente elaborata, ma solo in astratto, dal ricercatore”: L. CHIEFFI, Ricerca scientifica e tutela della persona, Napoli 1993, 181.

[34] Ho introdotto e elaborato questa metafora in Diritti e fraintendimenti, in "Ragion pratica" 2000, 15 ss., e poi l'ho ulteriormente sviluppata in Diritti e fraintendimenti: il nodo della rappresentanza, in Scritti in onore di G. Berti (in corso di stampa, ma leggibile in rete, all'indirizzo www.robertobin.it/ARTICOLI/DirfraII.htm).

[35] Cfr. per esempio l’art. 39 Cost. polacca, l’art. 18 Cost. slovena, l’art. 52.2 Cost. ungherese, l’art. 23 Cost. croata, l’art. 18.2 Cost. estone, l’art. 42.3 Cost. lituana ecc.

[36] Si veda per esempio il decreto-legge 279/2004 (Disposizioni urgenti per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica) che, dando attuazione alla Raccomandazione della Commissione 2003/556/CE, “definisce il quadro normativo minimo per la coesistenza tra le colture transgeniche, escluse quelle per fini di ricerca e sperimentazione, nonché quelle convenzionali e biologiche, al fine di garantire la libertà di iniziativa economica ed il diritto di scelta dei consumatori.

[37] Vedi sopra § 1.

[38] Per un’intuizione nel senso del riconoscimento in capo ai singoli e alla collettività di un “diritto che si faccia scienza”, cfr. A. ORSI BATTAGLINI, Liberta scientifica cit., 98.

[39] Sia consentito ancora il rinvio a Diritti e argomenti cit., 62 ss.

[40] Art. 3: “1. L'utilizzazione degli animali negli esperimenti oltre che per quelli previsti dall'art. 1, comma 1, della legge 12 giugno 1931, n. 924, come modificata con legge 1 maggio 1941, n. 615, è consentito solo per uno o più dei seguenti fini: a) lo sviluppo, la produzione e le prove di qualità, di efficacia e di innocuità dei preparati farmaceutici, degli alimenti e di quelle altre sostanze o prodotti che servono: 1) per la profilassi, la diagnosi o la cura di malattie, di cattivi stati di salute o di altre anomalie o dei loro effetti sull'uomo, sugli animali o sulle piante; 2) per la valutazione, la rilevazione, il controllo o le modificazioni delle condizioni fisiologiche nell'uomo, negli animali o nelle piante; b) la protezione dell'ambiente naturale nell'interesse della salute e del benessere dell'uomo e degli animali.

[41] Art. 3: “2. Gli esperimenti su animali delle specie elencate nell'allegato I possono aver luogo soltanto su animali da allevamento e negli stabilimenti utilizzatori autorizzati; per quanto riguarda primati non umani, cani e gatti è necessaria anche l'autorizzazione prevista dall'art. 8, comma 1, lettera b).

 3. Gli esperimenti sono vietati sugli animali appartenenti a specie in estinzione… nonché sugli animali appartenenti a specie minacciate ai sensi dell'allegato C1 del regolamento CEE 3626/82.

[42] Sent. 166/2004.

[43] Si può fare una ricerca sperimentale sull’embrione per curare l’embrione stesso? E si può immaginare di impiantare un embrione su cui si è svolta la supposta attività di ricerca senza conoscerne il risultato, visto che la legge vieta l’analisi preimpianto? Cfr. R. VILLANI, La procreazione assistita, Torino 2004, 61 ss. e 199 ss.

Merita sottolineare anche la indeterminatezza della norma, che sembra tagliare con una linea netta ciò che è “ricerca clinica e diagnostica a fini terapeutici” da ciò che invece è “ricerca sperimentale” di altro tipo: proprio per l’impossibilità di distinguere con nettezza tra test, terapia e ricerca sperimentale, e quindi di determinare la condotta penalmente rilevante, alcune Corti federali hanno dichiarato contrarie a costituzione le leggi di alcuni stati americani che avevano introdotto divieti, penalmente sanzionati, di svolgere ricerche sui feti abortiti: cfr. HARRIS M.R., Stem Cells and the States: Promulgating Constitutional Bans on Embryonic Experimentation, in 37 “Val. U.L. Rev.” (2003) 243 ss., 261 ss.

[44] Il DM 4 agosto 2004 autorizza, probabilmente illegittimamente, un’ulteriore ipotesi di sperimentazione: la sperimentazione sugli “embrioni orfani” al fine di migliorare le tecniche di crioconservazione, da svolgersi esclusivamente nella struttura ospedaliera da cui proviene il Ministro emanante e che ha come obiettivo solo di prolungare il gelido limbo di azoto in cui “quelli come noi” vengono puntigliosamente conservati in attesa della loro “naturale” estinzione: cfr. poi alla nota 53.

[45]These are the kinds of issues for which the law, especially in its more intrusive modes, is unsuited – issues of intense moral controversy, involving almost infinite factual variability and constantly changing scientific facts”: R. B. DWORKIN, Limits. The Role of the Law in Bioethical Decision Making, Bloomington – Indianapolis 1996, 146.

[46] È l’argomento usato dalla Corte suprema americana per dichiarare incostituzionale la legge texana che criminalizzava l’omosessualità: per un uso di questo precedente contro la legittimità di una legge repressiva della ricerca sugli embrioni cfr. S. GOLDBERG, Cloning Matters: How Lawrence v. Texas Protects Therapeutic Research, in 4 “Yale J. Health Pol'y L. & Ethics” (2004), 305 ss., 315.

[47] Non affronto qui l’ulteriore problema se il divieto di clonazione di cellule umane a fini terapeutici sia anch’esso una limitazione illegittima della libertà di ricerca, problema per altro già molto dibattuto all’estero, anche in relazione ad iniziative legislative che si muovono in tale direzione, come la moratoria introdotta per la clonazione umana dalla legge della California sin dal 1998 (su cui cfr. K. ABEL, California Legislative Service 688 (West) - Human Cloning,
 in 13 “Berkeley Tech. L.J.” 1998,  465 ss.): cfr. tra i tanti R. G. SPECE Jr. – J. WEINZIERL, First Amnd. Protection of Experimentatiton: A Critical Review and Tentative Synthesis/Reconstruction of the Literature, in 8 “S.Cal.Interdis.L.J.” (1998) 185 ss.; R.H. TAYLOR, The Fear of Drawing the Line at Cloning, in 9 “Boston Un. J. Sci. & Tech.” (2003), 379 ss. Sullo stato della legislazione degli stati americani cfr. HARRIS M.R., Stem Cells cit., 277 ss. Per una comparazione tra la legislazione americana con quella britannica e tedesca cfr. K. L. BELEW, Stem Cell Division: Abortion Law and Its Influence on the Adoption of Radically Different Embryonic Stem Cell Legislation in the United States, the United Kingdom, and Germany, in 39 “Tex. Int'l L.J.” (2004), 479 ss.

[48] Cfr. il § 5.6 del Rapporto Donaldson, stillato da un Gruppo di esperti dell’United Kingdom Department of Health per valutare la potenzialità degli sviluppi nella ricerca sulle cellule staminali e la sostituzione del nucleo cellulare a beneficio della salute umana.

[49] Che le aspettative siano tutt’altro che infondate lo dimostrano i documenti prodotti per incarico del Governo britannico (Rapporto Donaldson: cfr. in particolare le Conclusioni, § 5) e di quello italiano (Rapporto Dulbecco, redatto dalla Commissione ministeriale di studio sull’utilizzo di cellule staminali per finalità terapeutiche): cfr. P. VERONESI, La legge sulla procreazione assistita alla prova dei giudici e della Corte costituzionale, in “Quad.cost.” 2004, 523 ss., 536.

[50] Vedi § 3: il riferimento è in specifico alla sent. 282/2002.

[51] Oltretutto smentisce quanto la Corte costituzionale ha già avuto modo di sancire in occasione della sentenza sull’aborto (sent. 27/1975), ossia che “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare”

[52] Per esempio nella legislazione sull’aborto.

[53] Di “embrioni orfani” parla l’art. 5 del Decreto ministeriale 4 agosto 2004, “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, che affida alla struttura sanitaria citata alla precedente nota 44, “il compito di effettuare studi e ricerche sulle tecniche di crioconservazione dei gameti e degli embrioni orfani ivi conservati”; mentre le procedure di dichiarazione di “abbandono” dell’embrione sono disciplinate dalle “Linee guida” approvate con il D. M. 21 luglio 2004: su queste normative cfr. P. VERONESI, Le “linee guida” in materia di procreazione assistita. Nuovi dubbi di legittimità all’orizzonte, in “Studium Iuris”, 2004, 1356 ss. (e in “Forum di Quaderni cost.”: http://www.forumcostituzionale.it/contributi/temagiorno.htm#pv2).

[54] Genesi, 38.