CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE (ASPETTI SOSTANZIALI)

 

Roberto Bin

 

 

1. Al contrario degli anni scorsi, questa volta è davvero difficile ricomporre la relazione sugli aspetti sostanziali dei conflitti secondo filoni ben precisi. Il dato saliente non è infatti il leggero calo del numero dei conflitti (da 53 a 48), forse spiegabile con le vicende politiche nazionali e regionali, quanto piuttosto altri due aspetti: la polverizzazione dei conflitti e la minor qualità dei ricorsi.

         Un dato costante è lo scarso ricorso allo strumento del conflitto da parte dello Stato: solo due casi, contro gli 8 del biennio precedente. Si tratta sempre e comunque di atti non soggetti ad altri controlli amministrativi, trattandosi di atti “politici”: in un caso, siamo nella solita problematica degli accordi internazionali assunti dalle regioni senza le procedure della “leale cooperazione” (è il caso dell’accordo tra la Prov. Bolzano e il Voivodato di Suwalki: sent. 343/96): l’altro caso è un conflitto molto interessante, promosso contro un ordine del giorno del consiglio regionale sardo (sent. 341/96). Di quest’ultimo parlerò in seguito, e merita segnalare ora solo che in questo biennio, al contrario di quelli precedenti, lo stato la ha spuntata sempre. Ma è in relazione all’iniziativa delle regioni che compaiono mutamenti significativi, quelli a cui accennavo.

 

2. Il primo aspetto, la polverizzazione dei conflitti, consiste in ciò: sono pressoché scomparsi quei ricorsi plurimi che in passato hanno dato molta forza all’iniziativa delle regioni: 3,4 persino 7 o 8 ricorsi convergenti, segnavano un’opposizione vasta e quasi sempre vincente contro gli atti dello stato. In questo biennio, senza contare le convergenze del tutto particolari e ovvie tra le due province autonome, i casi di iniziative plurime sono scarsissimi: l’iniziativa di Liguria e Lazio contro il regolamento delegato che accolla alle regioni la legittimazione passiva nelle liti derivanti dagli accertamenti fatti dalle commissioni di valutazione delle minorazioni (sent. 156/96, di accoglimento parziale); l’iniziativa di Toscana e Veneto contro il regolamento sul riconoscimento della DOC dei vini (sent. 333/95, di inammissibilità); l’iniziativa di ben quattro regioni - Liguria, Marche, Molise e Piemonte - contro la delibera CIPE sui criteri di assegnazione degli alloggi di edilizia pubblica e sui relativi canoni di locazione (sent. 27/96, di inammissibilità). Il fatto è che in tre casi su quattro i ricorsi hanno colpito atti di interesse individuale, non generale, atti cioè in cui il controinteressato era la singola regione. Poche sono state le occasioni invece in cui ad essere impugnati sono stati atti di indirizzo e coordinamento o di natura regolamentare. Tuttavia qualche caso significativo non manca, significativo soprattutto per le conferme che la giurisprudenza costituzionale ha dato.

 

3. Segnalavo nelle relazioni scorse il buon grado di affidabilità della giurisprudenza costituzionale nell’impiego dei test da essa stessa elaborati per lo scrutinio sugli atti governativi di indirizzo e coordinamento; e segnalavo anche, nell’ultima relazione, come si stessero diffondendo nell’ordinamento atti di difficile classificazione formale, oggetti intermedi tra l’atto di indirizzo e coordinamento e il regolamento amministrativo. Entrambe le osservazioni trovano conferma.

         La Corte ripete ormai da almeno quindici anni che l’indirizzo e coordinamento, se esercitato in via amministrativa, è soggetto a requisiti formali e procedurali inderogabili: per di più deve rispondere a meno definibili caratteristiche di contenuto. Sull’altro versante, i regolamenti governativi non possono essere emanati nelle materie di competenza regionale, perché lo vieta la legge 400, e, dove possono valere nei confronti delle regioni, hanno un’efficacia meramente suppletiva, cedevole di fronte alla disciplina regionale. Gli atti amministrativi a carattere normativo devono passare attraverso la strettoia tra questi due principi. Alcuni, in questo biennio, sono passati, altri sono rimasti impigliati nei test della Corte.

         Sono rimasti impigliati, per esempio, il regolamento delegato sulla semplificazione delle procedure in materia di fiere (sent. 69/95) e il DPCM sui compensi ai membri di commissione di concorso (sent. 250/95): per entrambi non era contestabile che fossero rivolti anche alle regioni, e la logica della Corte li ha affossati: o si tratta di regolamenti, e allora non possono essere emanati in materia riservata alla regione (se non per la esclusiva disciplina delle amministrazioni statali); oppure sono atti di indirizzo e coordinamento, e allora violano il principio di legalità sostanziale.

         Impigliato, sempre per carenza di fondamento legislativo, è rimasto anche il famigerato regolamento delegato che attribuiva la legittimazione passiva alle regioni nelle cause contro gli accertamenti delle minorazioni (sent. 156/96). Qui concorrono anche altre censure: l’atto è illegittimo anche perché pone a carico delle regioni una responsabilità dissociata dall'esercizio delle funzioni, e perché accolla alla regione oneri (ingenti e imprevedibili) senza provvista di mezzi finanziari, il tutto in assenza di copertura legislativa.

 

4. Tra gli atti passati, il caso più curioso è quello del DPR sulle attività “estere” delle regioni (sent. 425/95). Come avevo osservato in un commento sulle Regioni 1996 (L'atto di indirizzo e coordinamento può trovare nella giurisprudenza costituzionale il fondamento della sua legalità?), la caratteristica di questa sentenza è di dover fare i conti con un atto che si autoqualifica come indirizzo e coordinamento, modifica un precedente atto di indirizzo e coordinamento, ma è privo di un fondamento legislativo, non risponde cioè al criterio della legalità sostanziale che la Corte ha sempre avvalorato. Il suo fondamento è la stessa giurisprudenza costituzionale, perché era stata la Corte a sollecitare il Governo a riformare la disciplina precedente per adeguarla alle numerose correzioni interpretative apportate dalla Corte stessa. La situazione era perciò paradossale, perché la Corte avrebbe dovuto dichiarare illegittimo il decreto, che recepiva l’invito della Corte e i contenuti delle sue decisioni precedenti in merito alle attività regionali di rilievo internazionale, per contrasto con quanto la stessa Corte ha sempre affermato a proposito dei requisiti formali degli atti di indirizzo e coordinamento. Paradossale è perciò anche la motivazione della sentenza: che nega valore all’autoqualificazione dell’atto come espressione della funzione di indirizzo e coordinamento (ma sullo scarso valore dell’autoqualificazione degli atti la Corte aveva già posto numerosi precedenti),  per poi negare che esso fosse atto rivolto alle Regioni: lo ricostruisce come disciplina delle attività dello stato, come regolamento dei procedimenti amministrativi degli organi statali in relazione alle comunicazioni che le Regioni devono inviare ad essi.

         In altri cinque casi l’atto regolamentare del governo è riuscito a passare. Le motivazioni - l’atto attiene a funzioni di competenza dello stato, per cui a torto la Regione lamenta un’invasione della sua competenza - sono gravi per le Regioni, perché ne circoscrivono le attribuzioni. Gli esempi sono: sent. 333/95  (sul riconoscimento vini DOC);  sent. 70/95 (manutenzione straordinaria edifici di interesse storico - artistico: dove si stabilisce che sono diversi gli interessi curati dagli interventi del Ministero dei beni culturali e quelli delle Regioni in materia di lavori pubblici; e che se essi occasionalmente coincidono, scatta l’obbligo di avviare procedure di leale cooperazione); sent. 303/95 (decreto di istituzione repertorio degli stalloni di razze equine inglese e trottatore italiano); sent. 27/96 (delib. CIPE su assegnazione e canoni per l’edilizia pubblica: carattere composito della materia edilizia pubblica, divisa tra urbanistica, lavori pubblici e una “terza fase” di “politiche pubbliche della casa”, quella dell’assegnazione, di competenza statale); sent. 300/95 (inammissibile il ricorso contro il regolamento di riorganizzazione del ministero agricoltura perché non determina la distribuzione degli organici alle regioni: la legge prevede più regolamenti, di cui quello impugnato è solo il primo, anche in ordine logico).

         In tutti questi casi il regolamento è assolto perché non sposta la demarcazione delle competenze. Per lo stesso motivo vengono fatte salve, con pronuncia di inammissibilità, alcune circolari: sent. 245/96 (sull’autorizzazione a accettare donazioni da parte della associazioni di volontariato: per le associazioni non riconosciute la delega di funzioni non è traslativa, e perciò è revocabile senza che la regione possa opporsi con lo strumento del conflitto); sent. 174/96 (in materia di risorse idriche: preteso differimento dei termini di operatività della competenza normativa regionale. Il ricorso è dichiarato inammissibile per ben tre diversi motivi: perché denuncia un' erronea interpretazione non collegabile a violazione delle competenze regionali;  perché si tratta di competenze solo delegate, non traslative; perché la circolare non modifica l’ordine delle competenze: infatti alcune regioni hanno già legiferato, ma non quella agente).

 

5. Questa sentenza rimanda all’altro dato caratteristico di questo periodo: l’alto tasso di sentenze di inammissibilità, che sfiora 1/3 di tutte le decisioni. L’impressione è che i ricorsi siano spesso improvvisati o mal formulati, il che espone le Regioni al rischio di pronunce dagli effetti molto negativi, perché vengono fissati precedenti sulla ripartizione delle funzioni tra Stato e Regioni - precedenti che, se non formalmente, di fatto pesano su tutte le Regioni, non per quelle sole che agiscono - in processi in cui la difesa degli interessi regionali non è adeguata. Nella sentenza appena citata, per es., la Corte afferma il carattere non traslativo delle funzioni delegate alle Regioni in materia di acquedotti: è un precedente di diritto che avrà un effetto erga omnes sebbene scaturisca da un ricorso avventato e inutile promosso da una sola regione.

         Un altro esempio è la sent. 378/95, che dichiara inammissibile il ricorso contro il decreto ministeriale che regolamenta lo sci nautico nelle acque interne, perché non si tratta di un atto di indirizzo e coordinamento né formalmente né sostanzialmente: è “una disciplina di dettaglio che involge competenze normative delle regioni”, in funzione transitoria e funzione suppletiva, in attesa che le regioni dettino una propria normativa; esso si applica quindi alle sole Regioni inerti, e non in quelle, come la ricorrente (il Piemonte) che hanno già normato la materia. Questa decisione, di cui il Piemonte indubbiamente si avvantaggia (perché ottiene il riconoscimento della prevalenza delle propria disciplina su quella statale), non tocca però gli aspetti formali del decreto ministeriale, che, ai sensi dell’art. 17.3 della legge 400/1988, non può essere emanato se non su specifica autorizzazione legislativa (principio di legalità sostanziale): e non li tocca - come la stessa sentenza avverte - per il semplice fatto che il ricorso non li denuncia. Il risultato, per niente rassicurante, è che è “passato” attraverso il sindacato della Corte il fatto (per fortuna non ancora il principio) che esista un regolamento ministeriale e per di più indipendente che “involge” le competenze regionali.

 

6. Ultime tre segnalazioni:

 

         La prima è che appare evidente ed allarmante il blocco della Corte a difesa delle funzioni ministeriali in materia di agricoltura. Le sconfitte delle Regioni sono numerose: due volte sconfitta l’ Emilia-Romagna sul commissariamento dei consorzi agrari provinciali, rimasti nell’orbita delle competenze statali nonostante i trasferimenti del ‘72, il DPR 616 e la soppressione del MAF (sentt. 384/95 e 517/95, quest’ultima con richiesta di sollevare la questione di legittimità della legge di riforma del Ministero, così come interpretata dalla Corte stessa, per violazione dell’art. 75 Cost., richiesta dimenticata dalla Corte); e poi sconfitte sul riconoscimento dell’origine controllata dei vini (sent. 333/96), sul repertorio delle razza equine (sent. 303/95),  sul regolamento per la ridistribuzione organici (sent. 300/95, ma qui la responsabilità è più della avventata ricorrente che della Corte). Le uniche vittorie si sono registrate sulla circolare sulle quote latte, perché individua gli organi regionali, violando la riserva statutaria, e forza  l’interpretazione della legge (sent. 534/95), e sul decreto ministeriale che irroga a un privato sanzioni per l’impianto non autorizzato di viti (il potere autorizzativo in materia agricoltura è regionale e le sanzioni, come ribadito in numerosi precedenti, seguono la competenza sostanziale: sent. 85/96, su ricorso della Toscana).

 

         La seconda osservazione è che forse le decisioni più interessanti sono quelle in materia istituzionale. Merita segnalare in particolare:

 

- la sent 274/95, su ricorso (della Toscana) contro il decreto del gip che rinvia a giudizio un consigliere regionale per aver dato notizia per stampa di un'interrogazione di contenuto ritenuto lesivo della reputazione di un amministratore regionale. La sentenza è interessante perché coinvolge la delicata problematica dell’ambito di applicazione del principio costituzionale di insindacabilità dei deputati (art. 68.1 Cost.) e dei consiglieri regionali (art. 122.4 Cost.): tra gli atti “insindacabili” vi sono non solo le interrogazioni e le interpellanze, ma anche il semplice riferire fatti conosciuti nell'esercizio delle proprie funzioni ovvero i punti di vista che ispirano il proprio comportamento in sede parlamentare. La Corte ipotizza ma non avalla l’interpretazione ristrettiva delle funzioni coperte da irresponsabilità per i consiglieri regionali, ma afferma che sarebbero compresi comunque gli atti tipici di esercizio della funzione consiliare.

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- la sent. 515/95, che accoglie il ricorso del Veneto contro il rinvio di una legge regionale perché approvata alcuni minuti dopo la scadenza del 46° giorno antecedente alle elezioni regionali. Richiama l’importante precedente sul regime di prorogatio dei consigli regionali (sent. 468/91), e sul bilanciamento tra principio di continuità e principio di discontinuità: l'approvazione della legge, iniziata tempestivamente, può essere ultimata anche dopo il termine, purché non vi sia interruzione dei lavori.

 

- sent. 357/96, che rigetta il ricorso della Calabria contro una sentenza che dichiara la decadenza di un consigliere regionale per la medesima causa di incompatibilità che il Consiglio regionale aveva ritenuto ormai superata, dopo aver invitato l'interessato a rimuoverla: la procedura di convalida presso il Consiglio e il giudizio difronte al tribunale - dice la Corte - stanno su piani diversi, il primo essendo rivolto alla verifica del titolo di partecipazione all'organo, nell' interesse dell'organo, il secondo a tutela dell'interesse generale al rispetto delle cause di ineleggibilità o di incompatibilità.

 

- sent. 341/96, in cui è ammesso e accolto conflitto contro un ordine del giorno votato dal Consiglio regionale sardo che impegna la Giunta a non sottoporre più a controllo ministeriale i provvedimenti in materia urbanistica. E’ interessante che la lesività sia riconosciuta già nell’atto politico di indirizzo, ritenendo che esso possa turbare la trasparenza e la lealtà dei rapporti tra Regione e Stato.

 

 

Terza e ultima osservazione è che la leale cooperazione resta uno dei grossi fili di tessitura della giurisprudenza costituzionale sulle relazioni Stato - Regioni. In alcuni casi essa è anzi l’oggetto specifico della decisione della Corte:

 

- sent. 109/95, in cui viene annullato l'atto ministeriale di nomina del presidente della commissione paritetica perché, in assenza di una norma esplicita, la natura paritetica dell'organo tocca anche il suo funzionamento: o c'è intesa o la elezione spetta ai componenti dell’organo (il principio può interessare in genere gli organi collegiali).

 

- sent. 389/95, in cui viene parzialmente accolto il ricorso contro la delib. del CIPE che approva il piano unico di programmazione SFOP, individuando nel Ministro l'autorità nazionale per i piani operativi, con la attribuzione della sola acquacoltura alle regioni: giusta - dice la Corte - è l'individuazione dell'autorità unica (prevalenza dell'interesse nazionale), ma devono essere salvaguardate le competenze (specie se primarie: ricorrente era la Sardegna) delle regioni nell'ambito della leale cooperazione: in presenza di potestà primaria, non basta la mera informazione ma occorre l'intesa.

 

- 207/96 annullato, su ricorso della Sardegna, l’ atto con cui, senza intesa, il governo individua il dipendente regionale da adibire ai servizi tecnici regionali e lo mette fuori ruolo: l'atto unilaterale lede la leale cooperazione, che in questo caso deve avere la forma dell'intesa "forte"; e poi - aggiunge la Corte - l'onere finanziario non può essere posto a carico della regione, come sembra disporre la lettera della legge: questa va interpretata in senso conforme a Costituzione, ricavandone che nei rapporti con amministrazioni a finanza autonoma costituzionalmente garantita non può valere una simile ripartizione degli oneri finanziari.