Roberto Bin (*)
CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE (ASPETTI SOSTANZIALI)
1. La giurisprudenza costituzionale più recente sembra confermare tutte le principali linee di tendenza emerse negli ultimi tempi[1].
I conflitti di attribuzione restano alquanto frequenti (54 in due anni) e si presentano ancora come uno strumento utilizzato soprattutto dalle Regioni. Solo 8 sono le sentenze provocate dal ricorso dello Stato, la cui iniziativa appare collocarsi in quelle nicchie dell'attività regionale che per loro natura sono sottratte a controllo preventivo. In tre casi si è trattato di contestazione di attività di "rilievo internazionale" assunte senza informazione o intesa preventiva con il Governo (sentt. 124/1993, 290/1993, 212/1994, su questo punto ritornerò in seguito); in due casi il Governo ha impugnato note regionali che istruivano le strutture amministrative in merito all'esercizio di determinate competenze (sentt. 58/1993 e 60/1993, quest'ultima a proposito di un conflitto negativo: anche su questo ritornerò in seguito); in altrettanti vi è una contestazione specifica alle autonomie speciali di aver cercato di "forzare" il blocco contrattuale per il comparto pubblico (sentt. 296/1993 e 497/1993); e poi v'è il caso isolato, e un po' comico, del ricorso contro i moduli che la Provincia di Bolzano aveva destinato alle scuole tedesche, così chiamandole anziché "scuole di lingua tedesca". I ricorsi dello Stato hanno avuto sempre esito positivo per le contestazioni "tipiche" (attività di rilievo internazionale, blocco contrattuale), sempre esito negativo negli altri casi.
Le Regioni hanno agito in massima parte individualmente (86,67%)[2]. Il dato è significativo perché in almeno 11 casi l'atto impugnato aveva interesse generale, anche se la contestazione è stata mossa da una sola Regione: in quattro casi la contestazione ha avuto successo pieno, con annullamento (magari solo in partem) dell'atto impugnato (sentt. 316/1993, a proposito del DM che indiceva corsi di formazione in medicina generale, 21/1994, a proposito delle disposizioni ministeriali per l'ammissione ai corsi regionali nelle arti ausiliari di ottico e odontotecnico, 113/1994, a proposito del DM sulla prevenzione dell'inquinamento atmosferico, e 342/1994, in merito alle direttive ai Commissari del Governo), ma in altri quattro casi la pronuncia negativa della Corte è stata accompagnata da un'interpretazione riduttiva della portata normativa dell'atto, il che già di per sé gratifica il ricorrente (ed è questo il terzo punto che vorrei approfondire in seguito).
Quando poi le Regioni hanno agito insieme (in due o più), il successo è stato sempre raggiunto: così sono stati annullati la direttiva del Presidente del Consiglio sulla gestione di bilancio del settore pubblico allargato (sent. 45/1993, su impugnazione della Lombardia e della Toscana), la circolare ministeriale che inseriva i consorzi di bonifica tra gli "enti locali" sottoposti a vigilanza antimafia (sent. 346/1994, su ricorso del Friuli-Venezia Giulia e dell'Umbria), l'ordinanza del ministro per l'ambiente che sospendeva la caccia su tutto il territorio nazionale (sent. 289/1993, ricorrenti Emilia-Romagna, Sardegna e Valle d'Aosta), il regolamento sull'agricoltura biologica (sent. 278/1993, su ricorso di Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Liguria), il DPR che fissava i livelli uniformi delle prestazioni sanitarie (sent. 116/1994: ben 7 le ricorrenti!).
Un ultimo dato statistico, prima di passare ad aspetti più sostanziali. Vi sono Regioni che in ben quattro anni non hanno mai mosso contestazioni allo Stato: sono Basilicata, Calabria, Campania, Molise e Puglia; ma anche Abruzzo, Lazio, Piemonte e Marche agiscono assai sporadicamente (non più di due ricorsi in quattro anni). Al contrario Lombardia, Toscana e le Province autonome confermano la loro elevata litigiosità, avendo promosso in quattro poco meno della metà dei ricorsi.
2. Esistono "luoghi" tipici in cui si concentrano i conflitti di attribuzione? La risposta è senz'altro affermativa.
Un luogo tipico è quello delle relazioni internazionali. Oltre ai tre ricorsi dello Stato, già citati, in due casi sono state le Regioni a contestare il comportamento ostruzionistico dello Stato. Nella sent. 204/1993 la Corte dà ragione al Friuli-Venezia Giulia che protesta contro ben sei provvedimenti di diniego del Governo del tutto privi di motivazione; nel contempo accorda allo Stato la possibilità di indicare condizioni cui è sottoposta l'intesa, nell'intento di limitare la spesa pubblica: ma queste condizioni non possono riflettersi sull'autonomia politica della Regione, sino al punto di imporre una riduzione dei piani di attività (per questo motivo è stato accolto il ricorso della provincia di Trento, con la sent. 26/1994).
Anche se il contenzioso in materia "internazionale" è probabilmente destinato a diminuire dopo le nuove norme di indirizzo e coordinamento emanate con il DPR 31 marzo 1994[3], merita sottolineare che tutti i 5 ricorsi, fosse il ricorrente lo Stato o la Regione, sono stati accolti. Il fatto è che le attività internazionali o promozionali delle Regioni sono sottoposte ad un procedimento di "leale cooperazione", e la "leale cooperazione" è uno di quei princìpi di origine giurisprudenziale che richiede continue precisazioni e aggiustamenti, la cui fonte non può che essere, ancora, la giurisprudenza. Sono almeno 6 (che si aggiungono a quelle citate in precedenza) le sentenze decise applicando le regole della "leale cooperazione", quattro delle quali di accoglimento (sentt. 6/1993, sul piano delle radiocomunicazioni, 148/1993, in merito ad un'autorizzazione prefettizia di attività di cava, 116/1994, sui livelli di prestazione, 444/1994, sulla ripartizione di immobili tra Stato e Regione), due di rigetto (277/1993, sull'autorizzazione al restauro di opere possedute da un museo locale, 377/1993, sulla determinazione delle tariffe aeree per la Sardegna). Sembra che ormai la "leale cooperazione" abbia assunto contenuti abbastanza precisi, stabili e affidabili: ciò vale, in particolare, per le implicazioni del meccanismo dell'intesa e per l'obbligo di motivazione dei provvedimenti assunti in difformità delle indicazioni date dalla Regione. Le denunce regionali per violazione di queste regole hanno infatti un accoglimento quasi automatico; quando il ricorso è respinto, spesso ciò avviene perché la Corte ritiene che l'esercizio delle attribuzioni regionali incontri una limitazione nella cura, da parte degli organi statali, di interessi che intersecano le competenze locali: la leale cooperazione funziona allora da ammorbidente, da giunto elastico rivolto a coordinare funzioni statali e regionali, ispirate ad esigenze e interessi diversi, ma occasionalmente convergenti (un esempio lo si trova nella sent. 277/1993, in cui la leale cooperazione serve a coordinare la competenza locale sui musei con l'esigenza di una valutazione tecnico-scientifica, propria delle sovrintendenze, dell'opportunità e delle modalità del restauro delle opere in essi conservate).
3. L'esperienza degli anni recenti mostra come i test inventati dalla giurisprudenza costituzionale per mettere a regime la funzione di indirizzo e coordinamento mostrino ormai un tal livello di affidabilità da garantire alle Regioni un successo sistematico nella contestazione degli atti statali di esercizio[4]. Queste indicazioni mi sembrano pienamente confermate dall'esperienza dell'ultimo biennio. Anche se la casistica è ridotta (solo 5 sentenze), la Corte ha (quasi) sempre accolto le contestazioni delle Regioni per mancanza dei requisiti "formali" dell'atto di indirizzo e coordinamento: vuoi per carenza della forma consiliare dell'atto (sentt. 45/1993, sul settore pubblico allargato, 26/1994, sull'attività promozionale all'estero, 113/1994, sulla prevenzione dell'inquinamento atmosferico), vuoi per lesione del principio di legalità sostanziale (sentt. 45/1993, 26/1994 e 278/1993, quest'ultima in tema di agricoltura biologica). Del tutto inutilizzata, invece, è stata in questo periodo quella figura carsica, in cui le contestazioni delle Regioni assai spesso si perdevano, che è costituita dal c.d. "coordinamento tecnico": due anni non bastano certo a segnare una linea di tendenza nella giurisprudenza costituzionale, ma l'assenza di riferimenti al coordinamento tecnico va comunque segnalata.
In un unico caso, ricorrendo contro atti amministrativi di indirizzo, la Regione sembra soccombere: si tratta del ricorso mosso dall'Emilia-Romagna contro una nota della Presidenza del Consiglio, rivolta ai Commissari di Governo, che sembra invitare a ritardare l'applicazione di una decisione della Corte cost. sull'indennità di rischio radiologico (sent. 169/1993). Ma la pronuncia di inammissibilità data dalla Corte costituisce invece, per la ricorrente, una mezza vittoria. Ecco perché.
4. In altre occasioni[5], sviluppando uno spunto precedente di Romboli, evidenziavo come si stia diffondendo una tattica di difesa delle Regioni giocata su due tempi: in un primo tempo si provoca una sentenza interpretative di rigetto, tesa a circoscrivere e condizionare la portata normativa delle leggi statali; in un secondo tempo, forti del precedente, si attaccano, in sede di conflitto, gli atti applicativi di quella legge che fuoriescano dai limiti o dalle condizioni fissati dall'interpretazione precedente della Corte. Segnalavo ancora, in quella occasione, come gli stessi conflitti di attribuzione potessero costituire una prima tappa di questa difesa in due tempi, quando vertessero su atti normativi generali: poiché la interpretazione restrittiva della loro portata poteva servire ad una successiva difesa contro atti di applicazione puntuale altrettanto bene del rigetto interpretativo dell'eccezione di legittimità di una legge.
Puntuale conferma di queste tendenze ci viene - mi sembra - dalla giurisprudenza sui conflitti degli ultimi due anni, anche se la casistica è limitata alle sentt. 132/1993 (che dà ragione alle Regioni, ricorrenti contro il Ministro del tesoro, in forza della precedente ricostruzione della ratio della tesoreria unica e 6/1993 (in "esecuzione" della sent. 21/1991, che aveva dichiarato illegittima la legge 223/1990 sulle radiofrequenze nella parte in cui prevedeva, come meccanismo di cooperazione, il parere anziché l'intesa). Ma è proprio l'obiettivo di ottenere una pronuncia di principio della Corte, come difesa preventiva della Regione, che spiega alcuni ricorsi solo apparentemente disperati delle Regioni: come quello dell'Emilia citato in precedenza, come i ricorsi dell'Umbria contro una circolare ministeriale che precisa le funzioni di controllo dell'AIMA in materia di interventi comunitari a favore dei coltivatori di seminativi (sent. 425/1993) e contro il regolamento ministeriale sui servizi aggiuntivi dei musei (sent. 462/1994), come il ricorso delle Province autonome contro il decreto interministeriale che regole le attività omologative dell'ISPESL (sent. 307/1994), od ancora come il ricorso della Lombardia contro il decreto ministeriale sulle funzioni degli uffici veterinari del Ministero stesso (sent. 458/1993). In tutti questi casi la Corte pronuncia il rigetto o, più spesso, l'inammissibilità a seguito di un'interpretazione che fuga ogni pericolo di invasione per le attribuzioni regionali: lo toglie delimitando la portata della astratta previsione normativa o negando in radice che la forma irrituale dell'atto (è un fenomeno che va diffondendosi l'emanazione da parte degli organi del Governo di atti "informali" o comunque privi della necessaria tipicità, tutti però attinenti, sotto il profilo dei contenuti, all'attività di indirizzo e coordinamento), gettando perciò le basi della difesa futura della Regione contro eventuali atti puntuali difformi.
5. L'ipotesi di un conflitto negativo di attribuzione, sinora considerata solo come un problema teorico, nell'ultimo biennio si è verificata due volte. In entrambi i casi è stata protagonista l'Umbria: una volta perché citata in giudizio dallo Stato a causa di una circolare che istruiva gli uffici a non applicare sanzioni amministrative per le infrazioni alla disciplina sul prelievo di corresponsabilità sui cereali, ma di limitarsi a trasmettere allo stato una relazione sulle infrazioni (sent. 60/1993); l'altra volta è invece la Regione a ricorrere contro lo Stato per sentirsi dire non spetta ad essa svolgere funzioni di controllo di pertinenza dell'AIMA (sent. 425/1993). In entrambi i casi la Regione la spunta, anche se nel secondo la pronuncia, come già ricordato, è di inammissibilità, perché "non è pensabile" che una semplice circolare possa modificare il riparto di competenze fissato dalla legge. Ma siccome gli organi dello Stato potevano pensarlo, tanto valeva, quasi per un principio di economicità, chiarire il punto sin dall'inizio.
Va aggiunto che non è affatto improbabile che i conflitti negativi si estendano in futuro. La continua restrizione della spesa pubblica e dei trasferimenti finanziari alle Regioni, e l'endemica situazione di deficit organico e organizzativo che ne deriva, potranno infatti indurre le Regioni ad un'accurata difesa del proprio equilibrio finanziario: ciò può attuarsi, oltre che con la puntuale reazione contro l'affidamento ad esse di compiti "ulteriori" non adeguatamente retribuiti (la Corte ha ormai da tempo codificato il principio della loro copertura finanziaria: cfr., per es., sentt. 216/1987, 996/1988, 452/1989, 314/1990, 283/1991, 317/1990), attraverso un'interpretazione restrittiva delle norme statali di attribuzione o di disciplina delle funzioni in questione.
6. Su un ultimo punto vorrei richiamare l'attenzione. Nella sent. 72/1993, la Corte dà ragione alla Toscana che agiva contro l'esclusione delle sue isole dall'elenco delle aree del Mezzogiorno in cui possono essere erogate le agevolazioni per l'imprenditoria giovanile: il decreto ministeriale violava con ciò la legge. Mi preme sottolineare che la via maestra che si pratica in questi casi è l'impugnazione dell'atto amministrativo da parte dei soggetti esclusi dai benefici. Ma la Corte riconosce il conflitto di attribuzione affermando che vi è lesione della sfera di attribuzioni regionali "stante l'incidenza della disciplina in questione sia nell'assetto di settori, quali l'agricoltura e l'artigianato, di spettanza regionale, sia, più in generale, nello sviluppo economico della popolazione regionale".
Può essere che la "generosità" della motivazione della Corte sia da mettere in relazione con la mancata costituzione del Presidente del Consiglio dei Ministri: ma, se la prendiamo sul serio, essa segna una grande novità. E' vero che la Corte è sempre più favorevole a riconoscere alla Regione una rappresentanza generale degli interessi delle popolazioni locali (cfr. sentt. 251/1993, 470/1992, 829/1988 ...), ma mi sembra che sia la prima volta che lo fa in sede di conflitto di attribuzioni, anziché a proposito di leggi di spesa o di proposte di legge nazionale.
La cosa - sempre che, ripeto, vada presa sul serio - è meritevole di attenzione, perché riconoscere alla Regione il potere di agire direttamente contro gli atti dello Stato che non invadono o non interferiscono con loro specifiche attribuzioni, ma con gli interessi che essa rappresenta, significherebbe fare un passo di grande importanza. Penso soprattutto agli sviluppi che potrebbero derivarne in una direzione, verso un obiettivo che mi pare di grande valore: la possibilità che la Regione agisca per conflitto in difesa di attribuzioni non proprie, ma dei "suoi" enti locali. Forse un progresso deciso in questa direzione potrebbe essere compiuto con l'emanazione delle leggi regionali di riordino delle funzioni locali in attuazione della legge 142/1990 (mentre nelle Regioni ad autonomia speciale è la stessa legge cost. 2/1993 ad aprire questa porta), perché in questo modo la Regione verrebbe ad esercitare (e quindi, poi, a difendere) la propria competenza a qualificare il livello di interesse delle singole attribuzioni, le forme di coordinamento ecc., competenza che verrebbe incisa da eventuali atti statali che turbassero gravemente l'ordinato riparto dei compiti, la loro copertura finanziaria, la regola della sussidiarietà. Ciò potrebbe rimettere in equilibrio l'intero assetto dei poteri locali: dando ai Comuni una difesa adeguata del loro ruolo "costituzionale", attualmente giocato esclusivamente contro la Regione e non nei confronti dello Stato; e dando alla Regione quella posizione di supremazia e rappresentanza unitaria degli interessi locali che è tipica di una concezione quasi-federale dei rapporti tra i diversi livelli di amministrazione, per la quale non è concepibile il gioco a tre, tra le amministrazioni statali, regionali e locali, che oggi caratterizza la nostra prassi istituzionale.
(*)
Università di Macerata
[1] Per
un esame dei conflitti decisi nel biennio 1991-1993 si rinvia alla relazione
pubblicata in CONSIGLIO REGIONALE DELLA TOSCANA, La giurisprudenza della
Corte costituzionale di interesse regionale (1991-1992), Rimini 1993, 149
ss.
[2] Per
il profilo che mi preme considerare qui, non considero come ricorso
"collettivo" quello promosso assieme dalle due Province autonome,
essendo del tutto particolare la loro convergenza di interessi. Infatti una
certa quota dei ricorsi delle Province e delle relative sentenze riguardano
problemi particolari sorti in merito all' interpretazione delle nuove norme di
attuazione dello Statuto a proposito dell'accesso delle province ai piani
statali di riparto finanziario (sentt. 126/94, 165/94, 416/94) e sull'
applicazione della normativa nazionale contro la criminalità organizzata
(sentt. 218/93, 191/94).
[3] "Atto di indirizzo e
coordinamento in materia di attività all'estero delle regioni e delle province
autonome".
[4] Rinvio
alla relazione citata alla nota 1.
[5] Rinvio ancota alla relazione citata alla nota 1, nonché ad un altro scritto: "Coordinamento tecnico" e poteri regolamentari del Governo; spunti per un'impostazione 'posteuclidea' della difesa giudiziale delle Regioni, in "Le Regioni" 1992, 1449 ss. (con ulteriori indicazioni bibliografiche).