IMPUGNATIVA REGIONALE DI LEGGE STATALE. CONFLITTO DI ATTRIBU­ZIONE (ASPETTI SOSTANZIALI)

 

 

1. Vorrei prendere le mosse da alcuni dati meramente quantita­tivi desunti dall'esame delle giurisprudenza costituzionale in tema di conflitti di attribuzione Stato-Regione, comparandoli con dati analoghi relativi ai giudizi di legittimità; svolgere poi alcune con­siderazioni sui contenuti dei conflitti trattati;  affrontare ancora il problema della saldatura che si sta deli­neando sempre più chiaramente tra il giudizio di legittimità delle legge statale e il conflitto di attribuzioni; per chiu­dere poi con qualche considerazione sulle prospettive che sem­brano aprirsi per la difesa processuale del ruolo delle Re­gioni.

     Il primo dato da considerare conferma quanto già indicava Ro­berto Romboli nella sua relazione dell'anno scorso. I tempi ri­dotti con cui la Corte decide (tempi che general­mente si man­tengono sotto i sei mesi) fa sì che il con­flitto di attribu­zione possa essere considerato uno strumento efficiente di so­luzione delle controversie: lo prova il fatto che il nu­mero dei conflitti di attribuzione rimane piuttosto elevato (ho contato 56 decisioni della Corte nel biennio: una in meno rispetto a quelle relative ai giudizi di legittimità costituzionale pro­mossi in via principale).

     E' però uno strumento utilizzato quasi esclusivamente dalle regioni. Lo Stato, infatti, ha promosso in questo periodo solo tre con­flitti, e in modo così poco convinto che in due casi non è riuscito a superare la soglia dell'ammissibilità[1]. Il che è comprensibile, data l'attenta sorve­glianza a cui l'amministrazione regionale è sottoposta da parte degli organi che esercitano il controllo preventivo: il con­flitto di attri­buzione resta perciò, per lo Stato, uno stru­mento estremo da utilizzarsi essenzialmente quando si veda "bucata" la rete dei controlli preventivi sugli atti ammini­strativi o sulle leggi. I due ricorsi dichiarati inammissibili sono ottimi esempi di que­sto particolare uso "residuale" del con­flitto da parte dello Stato. In uno (sent. 357/1991), l' og­getto è l'atto di promul­gazione di una legge regionale (umbra), riapprovata a seguito di rinvio, ma nella legislatura succes­siva a quella della prima approvazione. Benché le argomentazioni addotte del Governo avessero un indubbio fondamento[2], tuttavia la pronuncia di inammissibilità ha inteso colpire l'uso improprio dello stru­mento del conflitto, ridotto a rimedio estremo di ricupero tar­divo, mirato ad arginare gli ef­fetti di un non tempestivo im­piego dei normali strumenti di rea­zione a disposizione del Go­verno[3]. Nell'altro caso (sent. 235/1992), l'inammissibilità colpisce il tentativo di impugnare tardivamente un atto della regione (una nota che indica criteri per la riorga­nizzazione dei servizi amministrativi delle USL e per l'indizione di con­corsi riservati), di cui il Governo aveva chiesto ma non ot­tenuto la revoca, ricorrendo contro un successivo atto conferma­tivo.

 

2. Tolti i ricorsi del Governo, tralasciando i pochi casi (tre) in cui la Corte ha dichiarato l'inammissibilità del ri­corso per cessazione della materia del contendere ed il caso in cui l'inammissibilità è stata pronunciata perché si era riten­tato di sollevare conflitto di attribuzione contro un decreto legge[4], resta un corpo di 49 sen­tenze dalla cui analisi emer­gono indicazioni interessanti.

     Il dato più evidente è il buon esito che in genere hanno avuto i ricorsi delle regioni, alle quali la Corte costituzio­nale ha dato ragione, almeno parzialmente, in quasi il 60% delle sentenze (nei giudizi di legitti­mità promossi dalle re­gioni, invece, la per­centuale dei successi non supera il 49%[5], contro il 53% dello Stato). Nel 77% dei casi le regioni si sono mosse da sole, con ricorso individuale (dato questo che contra­sta non poco con quanto poi si dirà a pro­posito dell'oggetto del ri­corso): in questi casi la percentuale di successo è un po' in­feriore alla media (l'hanno spuntata nel 55% dei casi), men­tre quando hanno agito in 3,4, 5 o anche 7 alla volta la per­centuale è stata altissima (hanno vinto nell'83,3% dei casi).

     La litigiosità delle regioni non è affatto distribuita equa­mente. Otto regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campa­nia, La­zio, Molise, Puglia e Sicilia) non hanno mai agito (ad esse an­drebbe aggiunto il Piemonte che ha agito esclusivamente contro un'altra Regione), mentre 4 regioni (e province auto­nome) hanno presentato il 64% di tutti i ricorsi: il record spetta proprio alla Toscana, con ben 16 ricorsi (la percentuale dei successi che essa ha ottenuto corrisponde per­fettamente alla media generale).

 

     3. Se andiamo a vedere i motivi del conflitto, riscon­triamo su­bito un dato interessante. Solo in un'esigua minoranza dei casi (16 su 49: un po' meno di un terzo) la regione ricor­rente si è lamentata di una violazioni delle proprie specifiche competenze individuali, mentre per lo più il ricorso è stato rivolto con­tro atti che, al­meno potenzialmente, avrebbe dovuto interessare tutte le regioni.

     La tipologia delle violazioni di attribuzioni "individuali" è, ovviamente, molto differenziata. In due casi si è trattato di provvedimenti dell'autorità giudiziaria (sent. 99/1991: inammissi­bilità del ricorso contro un decreto ex 700 c.p.c. di sospensione cautelare del provvedimento regionale in attesa di giudizio ammi­nistrativo; sent. 175/1991: illegitti­mità dell' ordinanza preto­rile che impone alla PA di condurre a termine un procedimento di conferimento di un incarico a medico convenzionato usl e di fare uso a tal fine di una graduatoria formata nel procedimento stesso, ma ritenuta dalla PA inutiliz­zabile).

     In altri quattro casi la regione ha reagito contro provvedi­menti di organi locali dell'amministrazione statale, quali il com­missario del governo (sent. 43/1992: esercizio il­legittimo di po­teri sostitutivi in materia di nomine di ammini­stratori USL), la commissione di controllo sugli atti ammini­strativi regionali (sent. 473/1992: interferenza nella scelta dei legali esterni: inammissibilità per il "tono" non costitu­zionale del conflitto), la sovrintendenza ai beni artistici (sent. 438/1991: inammissibi­lità del ricorso per carenza d'interesse, in quanto la legge re­gionale, della cui disappli­cazione le regione si lamenta, è stata nel frattempo dichiarata illegittima), l'intendenza di finanza (sent. 383/1991: vindica­tio rei, relativa ad un bene immobile per il quale era ormai cessata la destinazione demaniale).

     Nei rimanenti casi la regione ha impugnato:

- il rinvio reiterato di una legge regionale (sent. 468/1991: ri­getto per il principio che la legge riapprovata nella legi­slatura successiva a quella del rinvio deve intendersi "nuova")

- provvedimenti del Governo che si riferiscono a beni siti nel territorio regionale (provvedimenti relativi alla costituzione di parchi naturali - sentt. 148, 422 e 464 del 1991 - oppure alla si­stemazione ambientale di aree determinate - sent. 282/1992 - od ancora all' assegnazione ministeriale di beni im­mobili degli enti mutualistici soppressi - sent. 351/1991)

- atti generali che però producono indebite assimilazioni di posi­zioni riconosciute alle regioni differenziate e alle pro­vince au­tonome (sentt. 98 e 232 del 1991).

     Oltre alla sent. 51/1991 - che costituisce il raro esempio di un conflitto di attribuzioni tra regioni, promosso dal Pie­monte con­tro il provvedimento della Valle d'Aosta di limita­zione della pra­tica della monticazione del bestiame - una se­gnalazione a parte merita la sent. 472/1992, provocata da un ricorso dell'Umbria con­tro una nota della Presidenza del Consi­glio che indicava la neces­sità della "previa intesa" sia per le attività promozionali svolte all'estero che per le attività di "mero rilievo internazionale". Benché generata da un atto ri­volto alla singola regione ricor­rente, la sentenza ha una note­vole importanza generale, perché in essa la Corte, sviluppando i princìpi già fissati dalla nota sent. 179/1987, ha modellato i procedimenti relativi alle attività pro­mozionali e alle atti­vità di "mero rilievo", nettamente differen­ziandoli. Per le at­tività di "mero rilievo", infatti, la Corte esclude la neces­sità dell'intesa, essendo sufficiente un previo assenso del Go­verno, che può manifestarsi anche in forma "tacita": mentre esplicito e motivato dovrà essere l'eventuale divieto. Da parte sua, la regione è tenuta a dare avviso delle attività in  pro­gramma con "ragionevole preavviso", preavviso che potrebbe es­sere regolato - dice ancora la Corte - da un atto di indirizzo e coordinamento "integrativo" del DPCM 11 marzo 1980.

 

4. In ben due terzi dei casi il ricorso delle regioni si è ri­volto contro atti di interesse generale e di natura normativa. Sono stati impugnati 6 DPCM, 3 DPR, 2 circolari e ben 26 de­creti mini­steriali con contenuto regolamentare. Al di là della forma dell'atto, mai decisiva per intenderne il contenuto, la Corte ha dovuto affrontare due blocchi di problemi.

     Il primo e, se vogliamo, il più tradizionale ormai, ri­guarda l'esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento. La sin­tesi dell'operato della Corte sta tutta in questo dato: negli 11 casi in cui la Corte si è pronunciata su questo tema, essa è giunta a pronunciare ben 10 sentenze di accoglimento (magari par­ziale). I motivi dell'annullamento dell'atto gover­nativo , ed ap­partengono tutti ai test elaborati dalla sofferta giurisprudenza costituzionale degli anni ottanta, nel tentativo di garantire qualche limite e qualche controllo sull'esercizio dei poteri go­vernativi. Essi sono:

 

- la violazione del principio di legalità sostanziale, cui la Corte ha legato l'esercizio in via amministrativa della fun­zione sin dalla sent. 150/1982. La mancanza di uno specifico supporto legislativo è stata riscontrata nelle sentt. 359/1991, 517/1991, 30/1992, 384/1992 (quest'ultima, in particolare, nega che la legge 400 sia un fondamento legislativo sufficiente);

 

- l'insufficienza dell'atto quanto a forma, non essendo frutto di una delibera collegiale del Governo: sentt. 24/1991, 204/1991,  422/1991, 453/1991, 486/1992;

 

- l'inadeguatezza dell'atto quanto a contenuti, poiché in esso vi sono disposizioni tassative (relative a controlli, procedure ecc.) che non lasciano margini di scelta alla regione, indebi­tamente vincolandole: sentt. 507/1991, 517/1991, 263/1992 (rigetto "interpretativo" del ricorso).

 

     La prima conclusione che sembra lecito trarre da questa giuri­sprudenza è che dopo molti anni di dure contestazioni, spesso ri­sultate velleitarie, le regioni sembrano aver final­mente accettato che il Governo sia legittimato ad esercitare in via amministrativa la funzione di indirizzo e coordinamento, con tutte le conseguenze che ne derivano, e si limitano a rea­gire (con molta precisione, dato l'elevato tasso di successi) nei soli casi in cui l'atto del Governo vada ad infrangere le poche regole che la Corte è riuscita a porre. Due di esse sono sostanzialmente formali (la forma dell'atto e l'obbligo di espressa autorizzazione legislativa), ed essendo essenzialmente formali le operazioni richieste per accer­tarne il rispetto la Corte non può esimersi di accogliere il ri­corso se la difesa della regione è chiara e puntuale nell'indicare il vizio dell'atto (si veda per es. la sent. 453/1991, in tema di set-aside, in cui la Corte sembra quasi costretta ad accogliere le argomentazioni "formali" della regione Emilia-Romagna, dopo averne respinte le obiezioni "sostanziali").

     La terza regola, che riguarda il contenuto normativo dell'atto, è invece di applicazione assai meno sicura. Prova ne sia che, in tutti i casi di applicazione riscontrati, le considera­zioni dell'aspetto "sostanziale" si saldano con quelle degli aspetti "formali". Nelle due sentenze di accoglimento le critiche rivolte al contenuto dell'atto si confondono del tutto con quelle relative al rispetto del principio di legalità, per­ché l'atto pre­senta contenuti che stanno oltre la funzione di indirizzo e coor­dinamento ma che, ancor prima, non rientrano nell' autorizzazione legislativa (altrimenti sarebbe questa a presentare profili di il­legittimità). Ma anche nella sentenza di rigetto, la Corte per­viene a tale pronuncia solo in forza di un'interpretazione "adeguatrice" del decreto (e, ad un tempo, della legge che lo au­torizza), interpretazione che si riflette nel dispositivo della sentenza, laddove esso riconosce che "spetta allo Stato disporre ... indicazioni orientative per la ripartizione dei posti disponi­bili per il trattamento a domici­lio dei malati di AIDS ecc.". Que­sto è un fenomeno assai co­mune, del resto, nella giurisprudenza costituzionale: basti pensare, per esempio, a quante volte la vio­lazione del princi­pio di eguaglianza (formale) si confonde con la lesione di qualche parametro sostanziale (per esempio, se una certa limi­tazione dell'iniziativa economica non è giustificata dall'interesse generale, si evidenzia immediatamente anche la in­giustificata discriminazione dei soggetti che subiscono tale limi­tazione dagli altri appartenenti alla categoria).

     L'altra osservazione che emerge da queste sentenze è che il principio di legalità sostanziale crea un legame assai in­tenso tra l'atto di previsione del potere e l'atto di esercizio di esso, cioè tra la legge autorizzante e il decreto autoriz­zato. Questo fenomeno ha riflessi molto interessanti sul modo di atteggiarsi del conflitto di attribuzioni come strumento di difesa dell'autonomia regionale: ma siccome esso non è limitato alle que­stioni relative agli atti di indirizzo e coordinamento, ma si ri­presenta anche nell'altro blocco di conflitti che devo esaminare, mi riservo di ritornarvi in sede di conclusioni.

 

5. Il secondo blocco di questioni sottoposte alla Corte dalle re­gioni riguarda il grosso problema dei poteri regolamentari che gli organi statali esercitano in materie attribuite alle regioni. Per dire della difficoltà del problema, ancora una volta ricorrerò a dati quantitativi: nei conflitti che, nel pe­riodo considerato, hanno avuto questo oggetto (complessivamente 20) le regioni l'hanno spuntata solo nella metà dei casi: ma, per lo più (70% dei casi) hanno ottenuto sentenze favorevoli solo in parte, mentre laddove hanno perso, nel 30% dei casi il rigetto è stato mitigato da una interpretazione "adeguatrice" della portata dell'atto impu­gnato.

     Come si vede, siamo molto lontani dal quadro ormai stabiliz­zato dei poteri di indirizzo e coordinamento. La Corte sembra an­cora oscillante tra posizioni piuttosto diverse, e i punti fermi sono ancora pochi.

     Un primo punto è il principio di separazione dell' amministra­zione regionale dall'amministrazione statale, princi­pio già accre­ditato nella nota sent. 229/1989, in riferimento all'annullamento governativo degli atti amministrativi regio­nali. La Corte ha rica­vato da questo principio la regola per cui non sarebbe consentito ai regolamenti statali di incidere direttamente sull'efficacia dei provvedimenti regionali (cfr. sent. 53/1991, sui valori limite di emissione delle sostanze inquinanti; sent. 135/1992, in cui si an­nulla la norma che pre­vedeva che il parere negativo della regione, nell'ambito di una procedura di "leale cooperazione" in materia sanitaria, potesse essere impugnato davanti al Ministro). Espres­sione dello stesso principio può essere considerata la regola che vieta all'amministrazione statale di "forare" le competenze regio­nali nell'individuazione di organi o strutture amministrative (essa è stata applicata nella sent. 355/1992, in cui si nega che lo Stato possa individuare direttamente gli organi o gli uffici regionali che entrano a comporre organi sottoposti alle proprie competenze, e nella sent. 279/1991, relativa all'assegnazione "diretta" di risorse a strutture sanitarie della Toscana). Ma an­che questo criterio non sembra seguito con assoluta costanza dalla Corte: per esempio, la norma regolamentare che assegna diretta­mente al coordinatore sanitario delle USL certe funzioni in mate­ria di polizia mortuaria è sì annullata dalla Corte, ma con un di­spositivo diretto espressamente a far operare l'annullamento nei soli confronti della ricorrente (la Lombar­dia), perché essa dimo­stra di aver diversamente disciplinato quelle funzioni.

     Le regole tratte dal principio di separazione attengono però ai contenuti che gli atti regolamentari (alla pari di quelli legi­slativi) dello Stato non possono avere, ma non an­cora alla confi­gurazione che assume lo stesso potere regolamen­tare, quando eser­citato in materia di competenza regionale. A questo proposito si pone innanzitutto il problema di intendere quale efficacia si vo­glia riconoscere al divieto, posto dall'art. 17 della legge 400/1988, di emanare regolamenti (governativi) di attuazione nelle materie di competenza regio­nale (comma 1, lett. b). La Corte sem­bra tener conto di questa disposizione in alcune delle decisioni passate in rassegna: ma l'impressione è che non si tratti mai di un giudizio rigido, strettamente formale, che prescinda da altre valutazioni. Nella sent. 391/1991, per es., l'argomentazione ex legge 400 chiude un più complesso ragionamento, teso a provare (a) che non sus­sistono ragioni di interesse nazionale riferibili all'oggetto del regolamento, e (b) che non vi è uno specifico ap­piglio le­gislativo cui riferire l'atto impugnato: sicché è la vio­lazione del principio di legalità che domina l'argomentazione, ed essa, trattandosi di regolamento ministeriale (al rispetto di tale principio comunque soggetto ex art. 17, 4 comma), prescinde dalla sussistenza di una qualche competenza regionale. Una con­clusione del tutto simile può trarsi dalle sentt. 204/1991 e 355/1992, nelle quali l'esclusione del potere ministeriale di incidere in via regolamentare nelle attribuzioni regioni (in questi casi addi­rittura esclusive) è sì affermata con forza[6], ma solo per ribadire che spetta alla sola legge individuare e definire ciò che è di in­teresse nazionale, non escludendo af­fatto che la tutela di questo interesse possa dalla stessa legge essere affidata ad un decreto ministeriale. Per contro, nella sent. 341/1992 il fondamento della legalità del DM è in­dividuato non già nella legge, ma in quell'atto "del tutto pe­culiare" che è il DPR di recezione del contratto di lavoro. E, a dimostrare che il principio di legalità non funziona per i decreti ministeriali in modo diverso da come funziona per gli atti amministrativi di indirizzo e coordinamento, in questa sentenza si annulla in parte il decreto perché esso con­tiene disposizioni (limitazione delle piante organiche, trasforma­zione di posti ecc.) che non rientrano nella "copertura" data dal DPR.

     Da un lato, quindi, si pone anche qui il principio di le­galità sostanziale; dall'altro, resta riaffermato, come punto di riferi­mento necessario, che l'atto ministeriale deve essere rivolto alla tutela dell'interesse nazionale. Si noti però che qui, al contra­rio che per gli atti di indirizzo e coordina­mento, non vale anche il limite riferito ai contenuti normativi dell'atto: infatti non entra in considerazione il "risvolto po­sitivo" dell'interesse na­zionale, il quale si esprime nella fissazione di obiettivi, cri­teri generali e linee uniformi per l'esercizio di attribuzioni re­gionali, che non devono essere risultare eccessivamente compresse. Qui l'interesse nazionale opera con le tecniche del ritaglio delle materie: vi sono, cioè, "oggetti" che vengono direttamente disci­plinati dallo Stato. Se il "ritaglio" è disposto dalla legge sta­tale, la di­sciplina dell'oggetto "ritagliato" è di competenza sta­tale, senza che si ponga, neppure in linea di principio, alcun pro­blema di "quantità" o di "qualità" delle norme regolamentari conseguenti. In questo modo, per esempio, è lecito che sia deman­data alla disciplina ministeriale la regolamentazione delle moda­lità organizzative e di funzionamento dell'albo na­zionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento dei ri­fiuti (sent. 220/1992), la regolamentazione dei corsi di quali­ficazione per l' accesso al profilo professionale di operatore tecnico addetto all'assistenza (sent. 341/1992), la determina­zione dei valori mi­nimi e massimi di emissione (sent. 53/1991) e delle norme tecniche relative alle acque destinate al consumo umano (sent. 507/1991).

     Sembra, insomma, che due siano le ipotesi: o si tratta di "oggetti" che per loro natura (attinenza alla regolazione del mer­cato, all'accesso alle professioni, all'attuazione di obbli­ghi in­ternazionali ecc.) sono sottratti a disciplina regionale, oppure si tratta del c.d. "coordinamento tecnico". Figura, quest'ultima, in via di grande diffusione nei rapporti tra Stato e regioni[7], ma di inquadramento tutt'altro che semplice. Quel che la Corte ci dice è che il coordinamento tecnico mire­rebbe ad ottenere una omo­geneità delle me­todologie ("tecniche", appunto) con cui operano ammini­strazioni diverse, e non po­trebbe perciò incidere sul merito delle scelte po­litico-ammini­strative delle re­gioni, né sulle solu­zioni organizzative o pro­cedurali attraverso cui quelle scelte si esprimono o si produ­cono[8]. Essendo una figura minore dell'indirizzo e coordina­mento, "depurata" da scelte politico-am­ministrative, il suo esercizio - assai spesso, per altro, affidato ad organi tecnici (come l'ISTAT) - "non è disciplinato dalle re­gole proprie della funzione di in­dirizzo e coordinamento politico-amministrativo e, in particolare, non esige il rispetto delle norme procedu­rali attinenti allo svolgimento della predetta fun­zione" (sent. 85/1990). Per cui, quantomeno per gli atti di coor­dinamento tecnico, sono individuati dei requisiti relativi ai con­tenuti normativi dell'atto, accertabili dalla Corte. Con la conse­guenza che, laddove la Corte constati che i contenuti dell'atto non sono "depurati" da scelte politiche, ma che ciononostante l'atto presenta le forme "minori" del coordinamento tecnico, lo annullerà, come è avvenuto nella sent. 384/1992 (relativa alle di­rettive governative sulla gestione di bilancio).

 

6. Vorrei dedicare una riflessione finale alla particolare connes­sione, che ho avuto modo di rilevare in precedenza, tra il giudi­zio di legittimità costituzionale della previsione le­gislativa di poteri normativi o d'indirizzo del Governo e il giudizio sul con­flitto di attribuzioni insorto sull' atto di concreto esercizio di quei poteri. Osservava Roberto Rom­boli, già nella sua relazione di due anni fa, che il conflitto di at­tribuzioni può diventare "una seconda puntata" di una storia iniziata da una sentenza interpre­tativa di rigetto, pronunciata in un giudizio in via principale. In realtà il fenomeno è molto più diffuso di quanto potrebbe sem­brare e in esso sta la spie­gazione di un dato altrimenti difficil­mente comprensibile.

     Quando le regioni attaccano le norme legislative che at­tribuiscono poteri normativi agli organi governativi assai ra­ramente ot­tengono sentenze di accoglimento[9]; mentre, come ab­biamo visto, nel conflitto di attribuzione hanno per lo più successo. Assai spesso il conflitto riguarda l'esercizio pro­prio dello stesso potere messo in discussione, nella sua previ­sione astratta, in sede di giudizio di legittimità: Roberto Romboli faceva l'esempio delle sentt. 85/1990 e 126/1990 (implicita inclusione "interpretativa" vs. concreta esclusione della Provincia autonoma dagli organi delle autorità di ba­cino); ma si possono aggiungere le sentt. 139/1990 e 359/1991 (esclusione "interpretativa" che la legge pre­veda un potere di indirizzo e coordinamento in materia di organiz­zazione degli uffici statistici vs. concreto esercizio di tale po­tere); sentt. 85/1990 e 30/1992 (stessa ipotesi, in materia di at­tività conoscitive connesse alla difesa del suolo); sentt. 483/1991 e 244/92 (esercizio di potere previsto da norma già par­zialmente dichiarata illegittima); sentt. 386/1991 e 43/1992 (stessa ipotesi); sentt. 188/1992 e 370/1992 (sentenza formal­mente interpretativa, che restringe il significato dell'obbligo di comunicare i prezzi degli alberghi vs. regolamento ministe­riale che lo espande).

     Questo sdoppiamento dei giu­dizi, che possono riguardare, in suc­cessione, la previsione astratta e l'esercizio concreto dello stesso potere, è deliberatamente perseguito dalla Corte: lo si può vedere, per esempio, nella sentenza 482/1991, laddove indica alla ricorrente, cui nega la le­gittimazione ad agire in astratto contro la legge, la possibilità di difendere le pro­prie attribu­zioni qua­lora fossero violate in concreto dal sin­golo atto di esercizio del potere contestato. La consapevolezza della Corte non può certo stupire, dato che tecniche analoghe di "sdoppiamento" sono impie­gate anche in altri settori della giurisprudenza costituzionale, ap­parentemente molto lontani dal contenzioso Stato-Re­gioni, e vi svolge  esattamente la stessa funzione. Tipico è l'atteggiamento in materia di diritti costi­tuzionali: la Corte assai spesso non riesce a compiere un bilan­ciamento degli in­teressi in gioco ragio­nando in astratto sulla fattispe­cie normativa definita dalla legge, e perciò "delega" al giu­dice di merito (o ai soggetti dell'applicazione ammini­strativa della legge) il compito di bilan­ciarli "in con­creto", in considera­zione della situazione specifica del caso. Ma non è che così sia denegata giustizia: vi è una ef­fettiva diffi­coltà a colpire, attraverso la dichiarazione di ille­gittimità della disposizione legislativa "astratta", i soli casi concreti possibili di cattiva applica­zione della norma conte­stata. Quello che la Corte può fare invece, e assai spesso fa, è di ga­rantire che la formu­lazione astratta della norma in questione non sia tale da pre­giudicare, già di per sé, la pos­sibilità di una corretta concor­renza de­gli interessi rilevanti; se tale pregiudi­zio fosse accertato, la Corte potrebbe porvi rimedio impiegando i suoi strumenti più raffinati, come le pro­nuncie interpretative di rigetto (laddove per questa via si possa incidere sull' interpre­tazione che verrà data alla dispo­sizione nella sua applicazione) e le pronuncie "manipolative" di accoglimento (laddove si voglia ga­rantire l'inclusione di interessi che, in base al te­nore letterale della disposizione o del "diritto vi­vente", risulterebbero invece illegittimamente esclusi).

     Anche nelle questioni regionali, la Corte segue questo schema di giu­dizio. Lo sta a dimostrare la frequenza con cui ricorre a pronuncie interpretative di rigetto[10]: servono anche qui a restrin­gere l'estensione dei poteri assegnati all'autorità statale, in modo da evitare che nel loro esercizio si superi la linea di un corretto bilancia­mento degli interessi unitari con quelli della regione. Gli stessi conflitti di at­tribuzione spesso si chiudono con sentenze di rigetto che sono, nella sostanza se non già nella forma, interpretative[11]. E nep­pure di questo bisogna meravigliarsi, perché, come si è visto, nella maggior parte di casi il conflitto non sorge da comporta­menti puntuali d'invasione delle competenze individuali della singola regione, ma da atti generali sostanzial­mente normativi, di indirizzo e coordinamento o di "coordinamento tecnico": ed è quindi ovvio che la Corte sia tentata di ricuperare i mo­delli elabo­rati per il giudizio di legittimità delle fattispecie legisla­tive "astratte", trasferendoli nei giudizi sui conflitti lad­dove di "astratte" fattispecie normative comunque si discuta.

     Ecco che allora lo sdoppiamento dei giudizi acquista una sua funzione precisa. In materia di diritti costi­tuzionali lo sdoppia­mento comporta che il giudizio "in concreto" sia dele­gato al giu­dice di merito, mentre nei rapporti Stato-Regioni il conflitto di attribuzioni può far sì che "delegata" sia la stessa Corte costituzio­nale: "Ed è inutile dire - è ricordato nella sentenza 294/1986 - che è riservato a que­sta Corte, in sede di conflitto di attribuzione, il sindacato sul rispetto dei limiti così dise­gnati". Questa particolarità non è affatto priva di con­seguenze, perché è chiaro che più forte sarà la rica­duta prescrittiva delle regole che la Corte ha elabo­rato in sede di giudizio di legitti­mità (attraverso pronuncie interpre­tative di rigetto o di accogli­mento), se sarà la Corte stessa a doverle appli­care al caso con­creto[12] (anche se può valere il contra­rio, perché la Corte potrebbe non sentirsi troppo inti­morita dall'autorità del suo stesso prece­dente, di cui, tra l'altro, è l'unica interprete autentica).

    

7. Ma se dal giudizio sul bilanciamento de­gli inte­ressi la Corte importa - come sembra se­riamente intenzionata - la tec­nica dello sdoppiamento dei giu­dizi che si è descritta in pre­cedenza, possono derivarne alcune impli­cazioni "tecnologiche" di notevole portata per i modi di costruire la difesa giudi­ziale delle Regioni: la quale dovrà anch'essa essere conce­pita come qualcosa che si svolge in due fasi fortemente correlate. Ciò significa che il ricorso contro la legge "invasiva", invece di essere concepito come l'unica oc­casione in cui è possibile ottenere la dichiarazione dell'astratta competenza della Re­gione - i cui inte­ressi, invece, la Corte ritiene così spesso di poter bilanciare con le esigenze che si richiamano all' inte­resse nazionale, secondo una varietà flessibile di so­luzioni di compro­messo - potrebbe essere più util­mente conge­gnato come strumento per stimolare pronuncie interpreta­tive della Corte che integrino la norma impu­gnata e fissino i punti fermi di de­limitazione dello spazio consen­tito ai poteri d'intervento delle autorità statali, e le forme garantite di "leale cooperazione". La questione di legittimità della legge servirebbe dun­que a provocare l'elaborazione, da parte della Corte costituzionale, della "regola" specifica delle rela­zioni Stato-Regione, da difendere poi, contro il sin­golo atto di ap­plicazione, in sede di conflitto di at­tribuzione. Sono queste regole che la Corte si mostra sempre più disposta ad elaborare nelle tante pronunce di rigetto interpretative, come pure nelle non meno frequenti sentenze di accoglimento "additivo"[13] o "sostitutivo"[14]. Lette in questa prospettiva, anche alcune im­pugnative regionali che in apparenza possono sembrare un po' eccessive e prive di fondamento, acquistano invece un senso preciso: per esempio, i ricorsi contro leggi come la 400/1988 o contro regolamenti ministeriali di organizzazione - dove è del tutto evidente talvolta la mancanza di lesione delle attribu­zioni regionali, trattandosi di semplici norme organizzative o procedurali - può acquistare un significato strategico, perché costringe la Corte a dare un'interpretazione precisa e impegna­tiva sulla reale portata delle disposizioni, così da costituire l'elemento di base su cui appoggiare gli eventuali successivi ricorsi nell'eventualità di un esercizio di quei poteri dif­forme dalla "regola" fissata dalla Corte. Se è questa la stra­tegia che si persegue impugnando la legge, anche una sentenza di rigetto, se "interpretativa", può essere considerata un suc­cesso da parte della regione ricorrente (esattamente come spesso avviene per chi eccepisce l'incostituzionalità di una legge nel corso di un giudizio).

     Anche nelle tecniche di propettazione delle questioni qualcosa si potrebbe apprendere dalla giurisprudenza in materia di diritti. Esattamente come avviene nel giudizio incidentale, quando si invoca il controllo di ragionevo­lezza e si adopera il principio di eguaglianza per con­sentire alla Corte di dichia­rare l'illegittimità della legge in re­lazione alle sole ri­strette fattispecie, ac­curatamente ritagliate e delimitate, an­che nel giudizio in via principale può essere assai vantaggioso per la Regione che il ricorso sia impostato in modo da provo­care la pronuncia della Corte su singoli aspetti e sugli speci­fici meccanismi, così da ottenere una "regola" del bi­lanciamento degli interessi che sia il più possibile precisa e circostanziata. Obiettivo che si può raggiungere addu­cendo tutti gli elementi di fatto che con­sentano alla Corte di ragio­nare, non sulla base dell'astratta di­stribuzione delle compe­tenze, ma sul concreto atteg­giarsi dei rapporti (organizzativi, pro­cedurali, finan­ziari ecc.) nel settore specifico.

     Ottenere nel giudizio preliminare sulla legitti­mità della previsione legislativa elementi utili di de­limitazione della "regola", che fissa per la materia in questione il punto di bi­lanciamento degli interessi in concorso, facilita ovviamente la difesa degli interessi della Regione nella seconda fase del giudizio "sdoppiato", cioè nell'eventuale conflitto insorto sull'atto amministrativo che applica la disposizione legisla­tiva "interpretata" dalla Corte. In fondo si tratta soltanto di far valere il rispetto della "regola" di fronte a chi l'ha ela­borata.

 

 

 

                        Roberto Bin*

 

(* Università di Macerata)

 

 



[1] Nello stesso periodo, invece, il 28% dei giudizi di legitti­mità in via principale sono stati promossi dallo Stato, con esito favorevole in oltre il 53% dei ricorsi.

 

[2] Ed infatti nella nota sent. 468/1991, di poco succes­siva, la Corte avrebbe dichiarato che deve conside­rarsi "nuova" la legge riapprovata, a seguito di rinvio, se tra la prima e la seconda approvazione la legislatura si sia interrotta.

 

[3] La Corte ha ritenuto che il Governo avrebbe dovuto, di fronte alla legge esplicitamente "riapprovata ai sensi del quarto c. dell'art. 127 Cost.", usare il suo potere di rinvio (o, semmai, impu­gnarla direttamente di fronte alla Corte nel termine di 15 giorni), e non agire sola­mente a seguito dell'intervenuta pro­mulgazione della legge non impugnata

 

[4] Sent. 283/1991, in cui la Corte ha unificato la deci­sione del conflitto con le questione di legittimità del provve­dimento sollevate da altre regioni

 

[5] Si noti che in oltre il 42% dei casi in cui le regioni hanno ot­tenuto una pronuncia almeno in parte favorevole, questa è consi­stita in una affermazione dell'obbligo a carico dello Stato di ri­spettare il principio di "leale cooperazione", dando luogo alle intese o alle altre procedure in cui questo princi­pio si incarna.

 

 

[6] Perché "non è ammissibile che norme dirette a limitare l' eser­cizio delle competenze regionali o provinciali, tanto più se di carattere esclusivo, siano poste attraverso una fonte qualifica­bile come regolamento ministeriale" (sent. 204/1991).

 

[7] Cfr. ad esempio le sentenze 214/1988, in materia di coordi­namento degli uffici sanitari nelle zone di confine; sent. 474/1988, sulle "direttive" del CIP che bloccano le tariffe dei servizi pubblici di trasporto; sent. 924/1988, in merito al "coordinamento" dei programmi promozionali regionali da parte dell'Enit; sent. 242/1989, in riferimento alle norme della legge 400 sull'esercizio della funzione di indi­rizzo e coordi­namento e, in particolare, ai poteri di  dell'ISTAT; sent. 452/1989, a propo­sito delle misure ministeriali volte a razio­nalizzare l'utilizzazione delle strutture pub­bliche di diagno­stica; sent. 85/1990, in riferi­mento ai compiti di coor­dinamento dell'attività dei servizi tecnici provinciali affi­data, dalla legge sulla difesa del suolo, al Consi­glio dei di­rettori; sent. 139/1990, ancora sul "coordinamento tecnico" dell'Istat; sent. 49/1991, a pro­posito del coordinamento dei centri provin­ciali di coordinamento e compensa­zione in materia di raccolta del sangue, svolto dall'Istituto su­periore di sa­nità; sentt. 483/1991 e 245/1992, con riferimento ad un potere re­golamentare del go­verno e dei singoli ministri relativo alla de­finizione di prescrizioni tecniche tese al ri­sparmio energe­tico.

 

[8] Cfr., ad es., sentt. 242/1989 e 139/1990, nonché (tra quelle emanate nel biennio in esame) 483/1991 e 245/1992.

 

 

[9] Fa eccezione, nel biennio considerato, la sent. 49/1991, in cui la Corte ha negato che potessero avere natura di atto di indirizzo e coordinamento i poteri normativi conferiti al mini­stro dalla legge 107/1990, in materia di attività trasfusio­nali.

 

 

[10] Nel biennio considerato, il 30% delle sentenze di rigetto pro­nunciate su ricorso delle regioni presentano un dispositivo inter­pretativo. Sul fenomeno, in generale, cfr. V.ONIDA, I giu­dizi sulle leggi nei rapporti fra Stato e Regione: profili pro­cessuali, in Le Regioni 1986, 986 ss., 1002 s.; F.DIMORA, Le sentenze inter­pretative di rigetto nei giudizi in via d'azione: qualche conside­razione, in Le Regioni 1987, 749 ss.

 

[11] La sent. 38/1991, a proposito della vigilanza sulle attività di formazione "cofinanziate", dichiara nel dispositivo che essa spetta allo Stato "d'intesa con le regioni interessate", con l'aggiunta di questa clausola facendo salva la circolare ministe­riale; la sent. 465/1991, a proposito della richiesta di informa­zioni sulla tipologia dei procedimenti amministrativi di compe­tenza regionale, dichiara nel dispositivo che essa è cor­retta se "a fini informativi e di apporto collaborativo", in modo da tran­quilizzare la regione ricorrente sul fatto che lo Stato non può poi pensare di disciplinare con regolamento i procedimenti regio­nali; la sent. 263/1992 fa salvo il DPCM sulla lotta all' Aids specificando però nel dispositivo che spetta all' Stato emanare "indicazioni orientative"; e analoga­mente, nella sent. 233/1992, la Corte fa salvo il regolamento dell' ISPELS e delle sue strut­ture periferiche, ma con l'indicazione, ancora nel dispositivo, dell'obbligo di rispet­tare le regole speciali in materia di pro­porzionale etnica; talvolta, infine, il carattere "interpretativo" del rigetto è implicito (cfr., per es., sentt. 279/1992, 408/1992, dove si fa salvo il potere dello Stato definendone però precisa­mente la natura).

 

[12] Cfr. ancora F.DIMORA, op.cit., 758 s.

 

[13] V. sopra, nota 5.

 

 

[14] Cfr., per esmpio, la sent. 407/1992.