Autonomia statutaria e “spirito della costituzione”

Roberto Bin

 

1. Non voglio vivere in curva

 Che le sentenze della Corte costituzionale possano e debbano essere sottoposte ad analisi critica è fuori discussione: come organo “tecnico-giuridico”, necessariamente sottratto al circuito della responsabilità politica, la Corte si legittima in forza delle argomentazioni che impiega e queste valgono solo per la loro capacità di persuasione, di superare il vaglio critico della comunità. Spesso però mi colpisce, e qualche volta un po’ mi turba, il tono con cui le critiche vengono avanzate. Non ce l’ho tanto con i politici, abituati, come sono, più alla frequentazione degli stadi e alla rozzezza dei tifosi che alla correttezza dei rapporti istituzionali, indispensabile ingrediente di uno stato costituzionale; mi amareggiano ancora di più le critiche che talvolta provengono dagli ambienti scientifici, anch’essi evidentemente corrosi dalle intemperanze linguistiche e argomentative dei leader ultras. La delusione di vedere smentiti dalle decisioni della Corte i propri paradigmi interpretativi, forse talvolta elaborati a troppo stretto contatto con i committenti politici, è umanamente comprensibile, ma può indurre ad un atteggiamento preconcetto nei confronti delle sentenze “commentate”, poco rispondente all’apertura mentale che la metodologia scientifica dovrebbe suggerire. A me sembra necessario impedire che questo atteggiamento irrompa nel dibattito scientifico e tolga alla Corte costituzionale quel tanto di controllo serrato, ma non pregiudicato, che è indispensabile accompagni le sue decisioni, specie quelle che incidono profondamente nella “carne politica” del paese. È un’esigenza che avverto con forza, perché se anche la dottrina giuridica si abitua al clima della curva nord, ciò significa che un altro passo avanti lo farebbero coloro che stanno operando con forza, attraverso gli atteggiamenti pubblici così come attraverso le proposte di riforma costituzionale, per demolire la credibilità della costituzione come regola del gioco politico, e della Corte costituzionale come arbitro necessario. Ben vengano dunque occasioni come questa per affrontare un dibattito sereno.

Primo passo da compiere – mi pare - è distinguere le questioni attinenti alla legittimità delle scelte introdotte nel testo di Statuto approvato dal Consiglio regionale calabrese, e censurato dalla Corte costituzionale, e le questioni relative all’opportunità o meno di mantenere nello Statuto un sistema di elezione diretta del Presidente della Regione così rigido come quello disegnato dalla legge cost. 1/1999. Sono due profili ovviamente diversi: affronterò per primo – come mi sembra inevitabile – il profilo della legittimità e dovrò quindi prendere in esame la sentenza 2/2004 della Corte costituzionale. Devo premettere che condivido a pieno le argomentazioni che essa sviluppa, e che sono ben note: per cui mi limiterò a controdedurre rispetto alle principali critiche che alla sentenza sono state mosse.

 

2. Il “servo arbitrio”

A me non pare dubbio che il sistema introdotto dallo Statuto calabrese sia una mera mascheratura di un sistema ad elezione diretta. Trovo che le tesi contrarie viaggino su argomentazioni esili e fragili, destinate a naufragare sbattendo contro difficoltà tanto ovvie e quanto insuperabili.

Del tutto nominalistico è l’argomento per cui non vi sarebbe elezione diretta perché tra proclamazione dei risultati della votazione e insediamento nella carica di Presidente vi sarebbe l’interposizione di un atto del Consiglio regionale, la “nomina” del Presidente. È vero che la nomina sarebbe vincolata, nel senso che il Consiglio regionale è tenuto a “nominare” il candidato indicato nella lista che ha vinto le elezioni; ma – si aggiunge – questo vincolo non sarebbe di natura giuridica, perché il Consiglio regionale potrebbe sempre “nominare” un altro candidato o non “nominarne” alcuno: in questo caso, però, verrebbe sciolto e si procederebbe ad una nuova elezione. Ora, a me sembra che questo argomento sia sorprendente e faccia acqua da tutte le parti. Vediamo perché.

Come si sa, il libero arbitrio è un concetto su cui il dibattito teologico e filosofico non si è mai sopito. Chi ti punta la pistola alla tempia e ti intima “o la borsa o la vita” ti lascia un grado di libertà di scelta davvero risibile (come diceva una voce dal pubblico – Luigi D’Andrea – se proprio sei così sciocco da scegliere la borsa, prima ti sparano e poi te la portano via: per il Consiglio regionale non sarebbe diverso, a ben pensarci). “Vedi, io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione[1]: messa in questi termini, e se l’alternativa va presa alla lettera, non ha torto Lutero a respingere la difesa che Erasmo fa del libero arbitrio: ma che libero, è servo! Nel caso, ben più terreno, del Consiglio regionale calabrese, la scelta è poi ancora più ridotta. Il candidato alla presidenza della Regione non è stato estratto a sorte, né è immaginabile che venga introdotto un sistema elettorale basato sullo splitting, per cui il Presidente della Regione potrebbe essere diverso da quello scelto e proposto agli elettori dalla coalizione che ha vinto e conquistato la maggioranza. E allora, di quale scelta si sta parlando? Che cosa può essere successo nella campagna elettorale di così grave da spingere il Consiglio regionale a rinnegare il suo candidato e quindi “scegliere” di perire con lui? Si possono prendere sul serio simili argomentazioni, basate su sofismi e artifici formalistici? Si tenga poi presente che una simile disposizione nulla aggiungerebbe al quadro costituzionale attuale: senza neppure attendere la “nomina” del Presidente della Regione, e votargli quindi la sfiducia, la maggioranza dei consiglieri potrebbe immediatamente dimettersi e provocare lo stesso esito, cioè impedire la “nomina” del Presidente designato.

In somma, dire che il meccanismo escogitato dal legislatore calabrese non maschera un sistema di elezione diretta, perché dal voto popolare non consegue un effetto giuridico immediato per ciò che riguarda l’insediamento del Presidente della Regione, significa avvalersi di un ragionamento sofistico che lede anzitutto il buon senso. Ma è contrario anche ad una corretta metodologia dell’interpretazione costituzionale.

 

3. Questione di metodo

Nella ormai considerevole serie di pronunce in cui ha applicato le riforme costituzionali del 1999 e del 2001, la Corte costituzionale sta impartendo un’importante lezione di metodo, su cui i suoi critici farebbero bene a riflettere. Riassumendola in breve, il senso è questo: le riforme costituzionali vanno prese sul serio e non come l’occasione per una generale decomposizione della costituzione, per sbriciolarne la capacità regolativa, per indebolirne la rigidità. Ne sono dimostrazione l’insistenza con cui la Corte ha sottolineato il mutamento di prospettiva che deve assumere il giudizio di legittimità costituzionale sulle leggi regionali dopo che la riforma del Titolo V ha invertito il senso della enumerazione delle materie, e il rifiuto di accogliere interpretazioni estensive dei “titoli” giustificativi della potestà legislativa statale (sent. 282/2002); la difesa anche puntigliosa della “lettera” e dello “spirito” della costituzione (sentt. 304 e 306/2002); il rifiuto di accreditare interpretazioni basate sulle astrazioni modellistiche della teoria delle forme di governo e tese, sulla base di esse, a superare le evidenze testuali delle nuove disposizioni (sent. 313/2003); l’attenzione per il diverso status che hanno assunto gli enti che “compongono la Repubblica” dopo la riforma (si vedano da ultimo del sent. 43/2004 e successive).

Naturalmente si potrebbe obiettare sostenendo invece una lettura della giurisprudenza costituzionale in chiave di attenuazione del significato della riforma e di restaurazione di vecchie strategie argomentative che riportano ben lontano dal testo. Potrebbero essere perciò citate le tante sentenze che “smaterializzano” le materie enumerate dalla costituzione nei commi 2 e 3 dell’art. 117 (l’ambiente, l’ordinamento civile, la tutela della concorrenza, i livelli essenziali, i lavori pubblici ecc.), e riportano l’attenzione al “variabile livello degli interessi” che in esse si intrecciano; oppure ricordare la (apparente) trasposizione del principio di sussidiarietà e di adeguatezza dal piano dell’assegnazione delle funzioni amministrative a quello del riparto della potestà legislativa (operato soprattutto dalla ben nota sent. 303/2003), dietro alla quale sembra riaffiorare lo spettro dell’interesse nazionale. Ma, se si arretrasse di un passo per guardare questi primi pochi anni di “nuova” giurisprudenza in una prospettiva d’insieme, a me pare che il quadro risulterebbe chiaro: dove ha potuto, la Corte ha tenuto fermo l’ormeggio al “nuovo” testo costituzionale, respingendo così ogni tentativo di slegare da esso l’interpretazione, per avventurarsi verso mete confuse, prive di legittimazione testuale, proiettate verso una rilettura creativa che avrebbe massacrato la capacità delle nuove regole costituzionali di disciplinare i rapporti tra i diversi enti di governo. Con ciò la Corte ha garantito la tenuta del testo costituzionale, la sua “rigidità”, valorizzando il “nuovo” che la riforma ha prodotto.

Non sempre ciò è stato possibile, però. Soprattutto la riforma del 2001 presenta, come da tutti è stato rilevato, diverse lacune, corrispondenti a gravi nodi problematici già noti prima della riforma e non affrontati dalla stessa. Si pensi, per esempio, al nodo del coordinamento tra Stato e Regioni al fine di assicurare quelle esigenze unitarie che la Corte aveva ritenuto da sempre tutelate dallo stesso art. 5 Cost. Puntualmente questi problemi sono riaffiorati nell’applicazione del nuovo Titolo V, rilanciando il contenzioso tra Stato e Regioni. Che si sarebbe dovuto fare, dato che i meccanismi di raccordo “spontaneo” non hanno funzionato? La Corte ha dovuto ricreare interi lembi di tessuto normativo mancanti nel testo costituzionale “riformato”, e ha cercato di scriverli coniugando i nuovi princìpi costituzionali (quello di sussidiarietà, per esempio) con le strutture argomentative già consolidate dalla sua giurisprudenza storica, in quanto compatibili con i nuovi princìpi stessi.

La sent. 303/2003 a me sembra un esempio assai apprezzabile di questo tentativo. So di esprimere un’opinione minoritaria, ma non mi stupisce affatto. Devo confessare che buona parte dei commenti alle sentenze della Corte mi sembrano peccare di presunzione. Sono troppo spesso ben poco attenti a cogliere il perché delle scelte interpretative compiute; quante volte il commentatore si limita sovrapporre i propri schemi astratti, perfettamente rispondenti alla visione monofocale assunta nella sua prospettiva teorica, alle argomentazioni che la Corte ha faticosamente sviluppato nel tentativo di individuare una soluzione equilibrata di tutti i vari problemi concreti che si pongono nel caso specifico in relazione all’assetto dei rapporti tra Stato e Regioni, e di mantenersi tuttavia nell’àmbito di un sistema di rapporti che sia dotato di una certa coerenza e stabilità?

 

4. “Si turpitudinem sequatur litterae…[2]

Torniamo allo Statuto calabrese. Molti critici rimproverano alla Corte di aver inventato per l’occasione il limite dello “spirito della costituzione”, con il risultato di allargare a dismisura i vincoli costituzionali entro cui si può svolgere l’autonomia statutaria delle Regioni, che ne resterebbe perciò pressoché annientata[3]. Non vedo perché tale espressione venga giudicata “sibillina ed oggettivamente fuorviante[4]; né perché la sua applicazione significherebbe sottrarre alle Regioni “ogni spazio di flessibilità e di sperimentazione e rende assai improbabile qualsiasi rivalutazione del ruolo del Consiglio regionale nella determinazione dell’indirizzo politico[5]; neppure mi è chiaro per quale ragione si debba concludere che a causa della sent. 2/2004 quel che rimane dell’autonomia statutaria regionale “non è molto, specialmente per quanto riguarda la forma di governo ed il sistema elettorale delle singole Regioni[6].

Allo “spirito” della Costituzioni e di singole sue disposizioni la Corte ha fatto appello decine di volte, sin dalle sue sentenze più lontane. Anzi, la locuzione “la lettera e lo spirito”, riferita alle disposizioni costituzionali, sembra fissare i margini entro i quali deve tenersi l’attività dell’interprete, “essendo canone ermeneutico comunemente accettato il ricercare nelle norme il senso più conforme alla Costituzione, s'intende ove ciò, come nella specie, sia consentito dalla lettera e dallo spirito della disposizione[7]. La sent. 2/2004, come la precedente sent. 304/2002, non inventa proprio nulla, dunque; semplicemente svolge l’espressione testuale dell’art. 123.1 Cost. “in armonia con la Costituzione” indicando i termini entro i quali lo Statuto regionale può muoversi: “il riferimento all’«armonia», lungi dal depotenziarla, rinsalda l’esigenza di puntuale rispetto di ogni disposizione della Costituzione, poiché mira non solo ad evitare il contrasto con le singole previsioni di questa, dal quale non può certo generarsi armonia, ma anche a scongiurare il pericolo che lo statuto, pur rispettoso della lettera della Costituzione, ne eluda lo spirito[8].

Che cosa c’è di ambiguo e di nuovo in tutto ciò? Credo che nessuna teoria dell’interpretazione possa negare la validità di questo assunto: l’interpretazione di un testo si può dire corretta (“in armonia” con lo stesso) solo quando essa non travisi il senso comune delle singole parole impiegate (la “lettera”) e, al contempo, si sforzi di rispecchiare il senso complessivo del discorso, il suo “spirito”. Del resto, non siamo eredi di una tradizione esegetica che, da Origene alla grande scolastica, ha fondato la fabrica dell’interpretazione sulla contrapposizione paolina tra “lettera” e “spirito” (lettera enim occidit, spiritus autem vivificat[9]), tra il “senso letterale” e i tre “sensi spirituali” dei passi delle Scritture? Che non si tratti di criteri vaghi e inutili nell’interpretazione costituzionale lo mostra proprio il caso in questione.

La soluzione proposta dal Consiglio regionale calabrese si basa su un’interpretazione capziosa del testo della riforma costituzionale introdotta nel 1999, la quale cerca di giocare sul significato delle parole in modo di preservare il rispetto formale della “lettera” della costituzione stravolgendone però il significato complessivo, il suo “spirito”. Così si presenta come “indiretta” la scelta del Presidente perché tra l’elezione e l’insediamento si interpone un atto di nomina da parte del Consiglio regionale, ma si tradisce lo “spirito” della riforma perché l’atto del Consiglio non ha alcun margine di libertà e nessuna rilevanza politica, essendo la scelta del Presidente rimessa in toto al corpo elettorale. Che la nomina del Presidente la faccia il Consiglio regionale, il suo Presidente o, per dirne una, il difensore civico non cambierebbe di un millimetro il meccanismo: il Consiglio è tenuto a nominare l’eletto perché altrimenti verrebbe sanzionato con lo scioglimento. Mi risulta davvero misterioso perché questo scioglimento automatico dell’assemblea non sarebbe lesivo del suo status, mentre lo è quello conseguente all’applicazione della clausola “simul… simul”.

Il fatto è che la lettera della costituzione è chiarissima: qualsiasi causa portasse il Presidente della Regione eletto direttamente ad abbandonare la carica deve comportare nuove elezioni; se la Regione mantiene l’elezione diretta, questa deve essere la regola tassativa, e nessuno può sostituirsi al Presidente eletto direttamente dai cittadini se non è a sua volta eletto dai cittadini. È una soluzione sbagliata? È ingiusto “castigare” il Consiglio, sciogliendolo anticipatamente, anche se il Presidente viene colpito da un evento naturale o decide di andare a ricoprire un altro incarico, incompatabile? Se la regola è sbagliata, bisogna cambiarla, non evaderla; non ci sono margini per un’interpretazione “adeguatrice” e l’alternativa è secca: o la norma è rispettata o è violata.

L’impossibilità di un trattamento interpretativo “ammorbidente” riduce a “quasi nulla” l’autonomia statutaria delle Regioni? Anche questa affermazione è un po’ sorprendente. Alla Regione è lasciata piena libertà di uscire dalle strettoie imposte dall’art. 126.3 Cost., semplicemente non scegliendo l’elezione diretta. Il sistema elettorale introdotto nel 1995, attraverso l’indicazione nella lista del candidato alla presidenza, costituisce per esempio un sistema ormai sperimentato di designazione del Presidente da parte degli elettori, ma che non è qualificabile come elezione diretta se e in quanto al Consiglio regionale sia lasciata piena libertà di attenersi alle indicazioni degli elettori. Perché gli Statuti non optano per una soluzione di questo tipo? Perché devono “camuffare” il sistema elettorale in modo da poterlo presentare come se, all’inizio, ci fosse un’elezione diretta, e quindi il Presidente venisse scelto dall’autorità del voto, ma da poterlo usare, poi, come se l’elezione fosse indiretta, lasciando quindi il Presidente alla mercé del Consiglio? Chi si vuole ingannare con questo imbroglio?

 

5. Quando i rappresentanti hanno paura dei rappresentati

Qui sta il punto: si vogliono ingannare gli elettori. Si fa finta di lasciare loro la scelta del Presidente, perché si teme che togliergliela possa provocare reazioni politiche dure: il referendum nel Friuli Venezia Giulia è stata una lezione per tutti, agli elettori non piace che gli organi politici sottraggano loro gli strumenti di decisione. Quindi, per non sfidare la reazione popolare, viene mantenuto il simulacro di un sistema in cui la scelta iniziale del Presidente è sì di fatto decisa dagli elettori in modo vincolante, ma poi ci si sottrae alle rigida coerenza delle conseguenze che la costituzione ricollega ad una vera elezione diretta: il Consiglio regionale viene infatti lasciato arbitro delle sorti di un Presidente privato di strumenti adeguati alla difesa della propria autonomia politica, derivante dall’investitura popolare. Avvicendamenti e “staffette” difficilmente permetterebbero a quel Presidente, eletto direttamente dai cittadini, di ritornare da essi a rendere conto del suo mandato. La soluzione calabrese questo è: un inganno perpetrato nei confronti degli elettori, ai quali si vuole “scippare” il diritto di scegliere il Presidente che dovrà governare per tutta la legislatura. Ma è un inganno nei confronti degli elettori anche per un altro aspetto.

Il candidato alla presidenza della Regione non viene scelto dagli elettori nel corso di “primarie”, né viene imposto dal fato. È scelto dalla forze politiche della coalizione nella convinzione – si suppone – che sia una personalità di grande richiamo, tale da favorire la vittoria dello schieramento. Perché mai la coalizione dovrebbe cambiarlo in seguito? Perché governa male? Perché è prepotente e non riconosce al Consiglio il giusto ruolo? Perché, poco stimando la carica che ricopre, preferisce mirare a più ambito incarico? Perché la coalizione era abborracciata e si sfalda, costringendolo alle dimissioni? Può capitare, ma chi paga? Chi risponde della cattiva scelta compiuta, forse solo per ottenere qualche voto in più e battere l’avversario? Se la coalizione ha deciso di candidare un incapace, un prepotente o un vanesio, perché non deve risponderne agli elettori? Consentire al Consiglio regionale di sopravvivere al Presidente eletto dal popolo significa proprio questo, togliere al popolo il potere di sanzionare la coalizione che ha scelto un cattivo Presidente o si rivela una cattiva coalizione. Anche questo è un modo di ridurre l’influenza degli elettori, di diminuirne il ruolo, di “scippare” il loro diritto di essere il giudice della responsabilità politica.

Non c’è nulla di più irritante di assistere ad un dibattito politico attorno alla “forma di governo” che è tutto dominato dal leit motiv della crisi del ruolo del Consiglio regionale e poi scoprire che il Consiglio regionale ritiene di poter ricuperare il suo ruolo solo attraverso uno stratagemma che si risolve in un inganno nei confronti degli elettori. È un’idea che trovo grave e insopportabile: la convinzione che il ruolo del Consiglio regionale si preservi se e solo se il Consiglio mantiene il potere di cacciare il Presidente della Regione senza subire conseguenze. Anni e anni di pessima cultura e prassi istituzionale a questo hanno abituato la classe politica regionale: al punto che ad essa sfugge completamente il paradosso in cui si è cacciata. Il ruolo “primario”, per così dire, del Consiglio regionale non è il controllo politico sull’esecutivo e neppure la funzione legislativa: prima ancora, causa giustificatrice di queste stesse funzioni, la funzione del Consiglio regionale è di rappresentare la collettività. Tutte le funzioni esercitate dal Consiglio regionale si giustificano solo in nome della sua natura di assemblea rappresentativa. È perciò a dir poco scandaloso scoprire che l’assemblea rappresentativa si impegni con tanta solerzia nel progettare una soluzione istituzionale il cui scopo ultimo è proprio quello di ingannare i rappresentati, di limitarne la capacità di influenzare l’andamento della politica regionale. Prima ancora che con lo “spirito” della costituzione, ciò contrasta con il comune senso del pudore.

 

6. Il paradosso della autonomia statutaria

Veniamo infine al merito, all’opportunità o meno di adottare una forma di governo dominata dall’elezione diretta del Presidente della Regione. Molte volte sono già intervenuto sul punto[10], per cui mi limiterò qui ad alcune osservazioni di fondo.

Ho sempre sostenuto che un rafforzamento dell’autonomia regionale non possa che incominciare da un’ampia autonomia statutaria, ed in particolare dalla possibilità di scegliersi forma di governo e sistema elettorale. Non ho perciò mai ritenuto che fosse sempre e ovunque consigliabile l’opzione per l’elezione diretta del Presidente della Regione o, come pure è stato un tempo di moda, per un sistema elettorale maggioritario[11]. Forse però sbagliavo e dovrei ormai ricredermi: non perché sia errato in linea di principio, ma perché sopravvalutavo le capacità dei Consigli regionali di esercitare la propria autonomia. Un’intera legislatura minaccia di passare senza che i Consigli siano riusciti a venire a capo del problema di come utilizzare il proprio potere statuente e di scegliere la propria forma di governo.

Nel 1970 bastarono pochi mesi perché tutti gli Statuti venissero approvati e promulgati: eletti all’inizio di giugno, le prime assemblee regionali chiusero i lavori tra l’ottobre dello stesso anno e il marzo del 1971: prima dell’estate tutto era finito. Allora certo non erano tanti gli spazi di autonomia, ma anche la neonata classe politica regionale sembrava aver ben altro senso di responsabilità. L’autonomia significa capacità e responsabilità: capacità di individuare soluzioni istituzionali originali ed efficienti nel risolvere i problemi che hanno ostacolato in passato il funzionamento ottimale della Regione; responsabilità nel senso di comportarsi nei confronti della propria collettività in modo trasparente, assumendo gli oneri della rappresentanza, interpretando gli interessi della comunità e rendendo conto del proprio operato. Quanti sono i Consigli regionali che possono trarre un bilancio positivo dell’estenuante lavoro svolto sinora nell’elaborazione degli Statuti? Chi è disposto ad affermare pubblicamente che il problema della morte o dell’impedimento permanente dello sventurato Presidente della Regione è il problema istituzionale principale che può impedire il decollo della sua regione? Chi è disposto ad affermare pubblicamente, guardando in faccia i propri elettori, che il problema della forma di governo – inteso così come viene riduttivamente inteso nei lavori “statuenti”, ossia come il problema di assicurare al Consiglio il potere di destituire impunemente il Presidente in nome del quale la maggioranza ha chiesto e ricevuto i voti – è un problema che condiziona il funzionamento ottimale della regione?

La mia fede autonomistica deve perciò fare i conti con la realtà, dalla quale ricaverei questo paradosso: tanto più forte il Consiglio regionale di una Regione sente l’avversione per la clausola simul stabunt, simul cadent, tanto più necessario è che essa sia applicata proprio in quella Regione. Il caso Calabria è esemplare. Lì, come altrove, il rifiuto di un’esplicita accettazione delle regole imposte dalla costituzione per l’elezione diretta del Presidente della Regione è motivata dall’esigenza di preservare il ruolo “politico” del Consiglio regionale. Ma, come ci rivelano gli studi sul rendimento istituzionale delle regioni, è stata proprio la vecchia politica autoreferenziale a svuotare di prestigio, di dignità e di ruolo la figura del consigliere regionale, preoccupato non di svolgere a dovere la propria funzione (quella legislativa in particolare) ma di operare in ogni modo per diventare assessore: “la mancanza di governi autorevoli ha influito senz’altro sul rendimento istituzionale della Regione”, provocando paradossalmente “lo scarso ruolo dell’organo programmatore, il Consiglio, e il notevole potere gestito dal Presidente della Giunta e dagli assessori[12]. E allora, quale ruolo si vuole ipocritamente difendere? Il ruolo del Consiglio regionale da tempo è in crisi, esattamente da quando l’attenzione dei suoi membri è stata attratta più dal desiderio di “salire” ad occupare un incarico nella Giunta che dal rispetto del proprio ruolo di rappresentate della collettività, interprete dei suoi interessi e traduttore degli stessi in leggi, controllore dell’applicazione delle leggi e, infine, giudice del comportamento dell’esecutivo. Qualcuno ha il coraggio di riconoscerlo in faccia ai propri elettori? Qualcuno pensa che agli elettori abbia nostalgia di quella vecchia dimensione della politica e sia interessato a preservarla?

Da tempo sto pensando di tradurre queste riflessioni in un videogioco, che sfrutti la banale brutalità delle immagini e le spietate e semplificanti regole del gioco, appunto. Il video gioco potrebbe avere l’accattivante titolo - che sicuramente ne decreterebbe l’enorme successo commerciale, testimoniando il vivo interesse della gente per il tema – “la forma di governo regionale”. Il protagonista può essere scelto di volta in volta: è, per esempio, un imprenditore che, bustarella alla mano (già, appunto, la brutalità del gioco!), entra nel palazzo della regione con privati interessi e precisi intenti e si trova di fronte ad una prima opzione: da una parte una scala porta alla Giunta, dall’altra al Consiglio. Senza sapere quale sia la sua richiesta, non è difficile immaginare che imboccherebbe la scala “Giunta”. E’ lui che sta definendo la “forma di governo”! Ma ecco che in alto si aprirebbe una finestra, da cui si affaccia corrucciato il Presidente del Consiglio: in mano tiene un mazzo di carte, ognuna delle quali è una soluzione istituzionale che può “spendere” per attrarre l’interesse del nostro protagonista. Ma quale è quella vincente? La possibilità di costringere il Presidente della Regione alle dimissioni sarebbe una carta utile? Possiamo divertirci a sostituire l’imprenditore–pronto–a–tutto con altre figure significative (lo studente alla ricerca di una borsa di studio, il prete che vuole aiuto per la comunità, una donna che cerca un sostegno alla sua impresa…, gente, insomma), e immaginarci le carte del mazzo (partecipazione alle nomine dei dirigenti, strumenti per monitorare gli effetti delle leggi, competenza ad approvare i programmi, competenza a verificare l’efficienza della spesa…). Ogni norma dello Statuto potrebbe (dovrebbe?) tramutarsi in una carta e valutata dal giocatore. Tanto solo di un gioco si tratta.



[1] Deuteronomio, 30.19

[2]…et non ascendat ad decorem intelligentiae spiritualis”: San Girolamo, Amos I, c. 2.

[3] Si veda in particolare il commento di M. Olivetti, Requiem per l’autonomia statutaria delle Regioni ordinarie, in Forum di Quaderni costituzionali.

[4] Così A. Ruggeri, L'autonomia statutaria al banco della Consulta, in Forum di Quaderni costituzionali.

[5] M.Volpi, Quale autonomia statutaria dopo la sentenza delle Corte costituzionale n. 2 del 2004, in federalismi.it

[6] E. Balboni, Quel che resta dell’autonomia statutaria dopo il «caso Calabria», in Forum di Quaderni costituzionali

[7] Sent. 3/1974.

[8] Sent. 304/2002.

[9] Paolo,  Seconda lettera ai Corinti, 3, 6.

[10] Rinvio a: Calabria docet. A che punto sono gli Statuti regionali?, in Forum dei Quaderni costituzionali (6 gennaio 2004) e in “Le Regioni” 6/2003, 999-1005; Lettera di un Talebano ad un Fariseo, in Forum dei Quaderni costituzionali (7 ottobre 2003); Più una precisazione che una replica a Volpi, in Forum dei Quaderni costituzionali (4 maggio 2002); Elezione indiretta del Presidente della Regione? I rischi tecnici del riflusso, in Forum dei Quaderni costituzionali (23 aprile 2002) e in “Le istituzioni del federalismo”, 1-2002, 5-10; Statuti regionali e moralità costituzionale, in Forum dei Quaderni costituzionali; Reinventare i consigli, in "Il Mulino" 2000, 456-466.

[11] Rinvio all’intervento in “La riforma elettorale per le regioni” in Regione e governo locale, 1993, 755 ss. ed a Riforma elettorale e nuovo ruolo delle Regioni nel quadro delle riforme costituzionali”, ivi, 1061 ss.

[12] R. De Luca, Calabria – Nuovo sistema politico e vecchi problemi : la precarietà del governo regionale, in “Le istituzioni del federalismo” cit., 811.