1992 – FINE DI UN CONFLITTO

 

L’autonomia e i rapporti tra esecutivo, legislativo e le commissioni paritetiche

prof. Roberto Bin – Ferrara

 

1. Il primo messaggio che dobbiamo trarre dalle riforme costituzionali di questi anni è che le regioni speciali non esistono. Non esistono come categoria: ci sono invece cinque regioni ad ordinamento differenziato, cinque realtà notevolmente diverse, diverse tra loro non meno di quanto lo siano rispetto alle regioni ordinarie. Non esiste una categoria omogenea di regioni speciali, anche perché questa sarebbe la negazione della specialità. È una affermazione logicamente evidente, ma è sociologicamente altrettanto evidente. Ho sempre pensato che in realtà in Italia esistono solo due regioni veramente speciali: la Val d'Aosta e la Pro­vincia di Bolzano. Nelle altre, le ragioni della specialità si riducono a pochi tratti, a profili esclusivamente giuridici e a privilegi finanziari che, privi di giustificazioni sociologiche, ormai sono odiosi, sono visti dal resto della comunità nazionale come retaggi ingiustificabili, privi di un valido fondamento istituzionale. Qual è la ragione della specialità del Friuli Venezia Giulia o della Sicilia o della Sardegna se non il fatto, per queste ultime due, di essere casualmente delle isole? Cosa hanno dimostrato di essere di diverso dal resto del territorio nazionale? Questa è la prima do­manda che conviene porsi.

C'è stato un periodo, quando si era insediata la Commissione bicame­rale per le riforme costituzionali, in cui le regioni speciali si erano avventurate in forme di autocoscienza (un po' tardi a dire la verità), organizzando convegni e seminari sul proprio ruolo, sul senso della specialità. La ri­sposta non è venuta, per il semplice fatto che è davvero difficile trovare argomentazioni convincenti, capaci di arginare la diffusa opinione che vadano annullate le differenze di regime con le altre regioni. Questo discorso si ferma però di fronte alla Valle d'Aosta e alla Provincia di Bolzano, per il semplice fatto che queste sono due regioni la cui diversità è evidente e conclamata.

Ovviamente la ragione più appariscente sembrerebbe risiedere nel fattore linguistico. Non c'è dubbio che il fattore linguistico e il contesto di diritto internazionale siano all'origine della differenziazione giuridica di queste due realtà. La ragione giuridica della specialità di queste due realtà è indubbiamente legata ai patti di pace e al fattore linguistico: ma questo è solo l’involucro, perché la ragione attuale della specialità è ben più profonda. La Valle d'Aosta e il Sudtirolo sono due comunità autonome, nel senso che, per varie ragioni, hanno maturato una specificità in quanto comunità sociale che oggi è palpabile. Non si tratta più solo delle differenze linguistiche e culturali delle popolazioni autoctone rispetto al resto dell’Italia, né della differenza di tradizioni culturali e di contesto ambientale. Tutto questo indubbiamente c’è, ma c’è anche dell’altro, vi sono ulteriori fattori ancora più importanti.

 

2. Ciò che ha segnato la differenza della Provincia di Bolzano, in particolare, è il modo in cui essa ha costruito il “suo” regionalismo: un modo del tutto diverso dalle altre regioni e province italiane. Il “pacchetto” che ha messo fine ai dolorosi anni degli attentati, e resa finalmente autonoma la Provincia di Bolzano, veniva approvato proprio nel momento dell’avvio delle Regioni ordinarie. Mentre queste iniziavano la loro stagione “costituente” e si affacciavano sulla scena politica nazionale, formando il loro fronte comune cui si associavano per comunanza di interessi le altre regioni speciali, la Provincia di Bolzano doveva invece ripiegarsi su se stessa e impegnarsi nell’attuazione del suo ordinamento. Non parte dunque di un’alleanza comune con le altre autonomie, ma parte a sé di una trattativa serrata con il Governo, trattativa che aveva la sua sede anzitutto nella speciale commissione paritetica (detta “dei sei”), chiamata a riempire di contenuti le previsioni statutarie esclusivamente per la Provincia di Bolzano. La commissione lavorò – e continua a lavorare - con risultati quantitativi e qualitativi non comparabili con quelli ottenuti dalle altre regioni speciali, divenendo il motore dell’autonomia e il principale artefice dell’asimmetria, ossia della differenziazione della Provincia dal resto delle regioni. Ovviamente anche gli “oggetti”, le materie, delle cui modalità di trasferimento si prese a discutere nella “paritetica”, erano in buona parte diverse da quelle che interessavano le altre regioni, e comunque innervate dal particolare problema dei rapporti linguistici.

Ma sarebbe bastato il “differenziale linguistico” o la copertura internazionale a giustificare la forte differenziazione dell’ordinamento della Provincia. Credo che altri siano i fattori che hanno concorso.

Il primo è l’affidabilità politica e amministrativa. Non si tratta soltanto della stabilità politica che ha caratterizzato le province autonome: stabilità e continuità sono state costanti anche di altre zone d’Italia, così come un buon standard di efficienza amministrativa. La peculiarità, della Provincia di Bolzano, e non (almeno negli stessi termini) di quella di Trento, è tutta politica: la classe politica altoatesina ha visto nel governo locale il suo unico obiettivo. È una caratteristica importante e diversificante. In tutte le altre zone d’Italia il sistema politico è stato sempre centripeto: la carriera politica che iniziava in periferia, culminava a Roma. Può essere che questo movimento centripeto sia motivato dalla scoperta che al centro c’è la mitologica “stanza dei bottoni” che, assorbendo le decisioni che contano, impedisce di fatto alla periferia di autogovernarsi; ma è sicuro che esso a sua volta concorre pesantemente a rafforzare il centro e il suo peso decisionale.

Da queste complesse e, per l’autonomia, funeste dinamiche, i politici della Provincia di Bolzano si sono tenuti sempre fuori: nessuno dei politici altoatesini, mi sembra, ha mirato a governare dal centro. La formazione politica dominante in loco ha appoggiato in genere i governi nazionali – il che ha reso più produttive le trattative in corso con lo Stato - ma ne è rimasta sostanzialmente estranea, impegnata esclusivamente nella politica locale. Sono scelte che hanno indubbiamente rafforzato l’autonomia, che deve essere anzitutto autonomia politica. È un po' la via spagnola al regionalismo. Proprio l’assenza di una reale autonomia politica ha impedito alle altre regioni – e in parte anche all’altra Provincia autonoma – di operare le scelte istituzionali più utili a radicare l’autonomia legislativa e amministrativa.

 

3. Pesano questi antecedenti sul processo di attuazione delle riforme costituzionali? Moltissimo.

Il pacchetto di riforme del 1999-2001 ha finito con segnare anche nell'involucro costituzionale la differenza della Provincia di Bolzano, come anche quella della Valle d’Aosta. Lo possiamo rilevare soprattutto a proposito della forma di governo.

Le questioni che attengono alle scelte statutarie sulla forma di governo stanno accomunando tutte le regioni italiane, speciali e non: e il dibattito assume ovunque le stesse tinte. Sta per iniziare finalmente la stagione vera della scrittura dei nuovi statuti regionali: le regioni hanno ottenuto, dopo averla a lungo rivendicata, quell'autonomia statutaria che ora stanno tristemente dimostrare di non saper bene come utilizzare. La vicenda degli Statuti sta svelando il grave ritardo delle regioni dal punto di vista dell'intelligenza politico-istituzionale. In tutti i mesi che sono passati, sembra che il vero, centrale se non unico problema dell’autonomia regionale e della sua organizzazione statutaria sia diventato il nodo della “forma di governo”, inteso essenzialmente come esigenza di “superare” la drastica scelta operata dalla riforma costituzionale: se gli Statuti vogliono mantenere fede a quello che le Regioni hanno da tempo chiesto, e alla fine ottenuto, cioè l’elezione diretta del Presidente, essi devono prevedere che qualsiasi motivo produca la cessazione dalla carica del Presidente.

Allora possiamo porci due quesiti: il primo è se questo sia un punto importante in generale, il secondo se sia un punto importante nella Provincia di Bolzano. Al primo risponderei di sì, al secondo di no.

Sul piano generale, ragionando in riferimento a tutte le Regioni ordinarie e a quelle speciali, eccettuate la Provincia sudtirolese e la Valle d’Aosta, l’elezione diretta del Presidente della Regione, corredata dalla contestatissima clausola simul stabunt, simul cadent, è una scelta a mio parere obbligata. Bisogna innanzitutto intendere il senso della riforma ed il significato dell’apparente rigidità del meccanismo previsto. La rigidità che la riforma costituzionale propone (ma non impone, essendo gli Statuti liberi di scegliere altre forme di governo) ha una motivazione precisa, che ben si ricollega alla storia delle regioni italiane. Le Regioni stanno cercando di uscire da un deficit congenito di autorevolezza politica, dovuta a motivi precisi. In parte è imputabile alla scarsa efficienza dei loro meccanismi decisionali (e i Consigli regionali ne portano pro quota la responsabilità), in parte alla scarsa stabilità politica. I dati sono di tutta evidenza: prima che il fenomeno “Tangentopoli” provocasse il crollo del sistema dei partiti e favorisse la successiva riforma elettorale del 1995, le regioni avevano collettivamente prodotto 363 crisi di giunta; gli esecutivi sono durati in media 542 giorni, e le crisi 38 . In media, perché accanto a Regioni virtuose (in Emilia-Romagna la media di durata in carica è stata di 1047 giorni, in Umbria di 997 e in Abruzzo di 918) molte sono state invece le regioni con instabilità elevatissima (in Campania la durate degli esecutivi è stata di 326 – laddove le crisi sono durate 108 giorni! - e in Liguria di 396; quanto alle Regioni speciali, in Sardegna la media di stabilità è stata di 324 giorni e in Sicilia di 365)[1]. A cosa sono dovute queste crisi? Mi risulta che nessuna sia dipesa da morte o grave impedimento del Presidente della Giunta regionale, nessuna forse neppure da un’esplicita sfiducia del Consiglio regionale: tutte da dimissioni “volontarie”. Qui si rivela la grande ipocrisia dell’attuale classe politica regionale, che in larga parte si dichiara contraria alla rigidità del simul - simul perché sarebbe incoerente e ingiustificabile che il Consiglio regionale venga sciolto automaticamente in conseguenza della cessazione dalla carica del Presidente della Regione anche quando la crisi si produce per cause naturali o per scelte che non sono imputabili alle forze politiche che siedono in Consiglio regionale. La causa delle crisi è invece sempre stata la stessa: la turbolenza politica, la litigiosità endemica delle coalizioni, gli assalti sistematici alle poltrone dell’esecutivo, questi sono i fenomeni che hanno indotto i Presidenti in carica alle “dimissioni volontarie”. È vero che in certi casi il presiedente si è dimesso per proseguire il suo cursus honorum politico assumendo cariche governative e non “per colpa” del “suo” Consiglio. Ma proprio qui sta il punto.

 

4. Che un esecutivo duri a lungo non significa che governi bene. Ma un esecutivo che dura poco non può governare bene. Come si possono avviare opere, programmi, riforme, che necessariamente richiedono anni per la loro realizzazione, se poi chi li avvia, individua le risorse necessarie per alimentarli, seleziona gli investimenti e di conseguenza scontenta chi è interessato ad altre iniziative, non è messo in grado di mietere il raccolto, di presentarsi agli elettori con il frutto dei sacrifici che ad essi sono stati richiesti? La stabilizzazione degli esecutivi è indispensabili per passare dalla politica giorno per giorno ad una politica di più ampio respiro: e che questo sia un passo necessario non credo che meriti di essere ulteriormente argomentato.

Per stabilizzare l’esecutivo, in situazioni di cronica instabilità delle coalizioni politiche, l’elezione diretta del presidente è comunemente individuata come lo strumento necessario: è il passo che si è fatto a livello degli enti locali, con ottimi risultati; è il passo che confusamente si sta facendo sul piano nazionale, con risultati di un certo rilievo. Un passo analogo, per le Regioni, si è compiuto, sia pure con mezzi di fortuna, attraverso la riforma elettorale del 1995. Pur senza una vera elezione diretta, ma con quel tanto di “personalizzazione” che quel sistema elettorale consentiva, i risultati sono stati notevoli. Nella legislatura successiva, ben sei regioni ordinarie (Basilicata, Umbria, Liguria, Abruzzo, Veneto e Lombardia) non hanno avuto crisi di Giunta, altre quattro hanno avuto un avvicendamento solo, con esecutivi durati in carica circa 900 giorni. Nello stesso periodo, nelle regioni speciali, rimaste ancorate al vecchio sistema elettorale, abbiamo registrato risultati del tutto diversi; gli esecutivi sono durati 355 giorni in Friuli-Venezia Giulia, 357 in Sicilia, 365 in Sardegna.

Ma la personificazione della politica, che è l’inevitabile portato dell’elezione diretta del Presidente, ha un corollario obbligatorio. Il candidato che si presenta agli elettori per proporre la sua persona come simbolo e garanzia di un programma di governo, di un governo che promette di produrre risultati certi e positivi, deve rispondere agli elettori alla fine del suo mandato. La personificazione comporta anche responsabilità: responsabilità personale e non più la sfumata e anonima responsabilità collettiva, com’era con il vecchio sistema. Che il presidente eletto si ripresenti davanti agli elettori a fine del suo mandato è quindi un obbligo, una questione di morale costituzionale, a cui non deve essere lecito sottrarsi. È proprio questo quanto impone la riforma costituzionale: essa lascia libere le regioni di scegliere o meno l’elezione diretta, ma non di scegliere solo l’aspetto, per così dire, “ascendente” di questa formula, senza accettare anche quello “discendente”. Il circuito della responsabilità politica “personificata” deve essere completo: per qualsiasi ragione esso si interrompa, deve ripartire di nuovo dall’inizio. Nella possibile situazione di un evento naturale che interrompa il mandato del Presidente eletto direttamente, il circuito deve essere ripristinato pur quando non ci siano colpe imputabili a chicchessia: e quando colpe ci siano, deve ripartire per far valere le responsabilità o di chi ha tolto l’appoggio politico al Presidente (o del presidente che non è stato capace di mantenere coesa la maggioranza), o di chi per sua volontà si è sottratto, ad un certo punto del suo mandato, dall’obbligo di rendere il conto. Non deve essere più consentito, per esempio, che la persona che ha chiesto e ottenuto il mandato dagli elettori per guidare la Regione decida, nel corso del mandato, di abbandonare il suo incarico per fare, per esempio, il Ministro. Chi renderebbe il conto agli elettori?

Non cogliere questo aspetto significa non intendere la politica come una questione seria e di alto significato morale. Se i Consigli regionali non intendono accettare la personificazione della politica – il che può essere perfettamente giustificabile – hanno solo da rinunciare all’elezione diretta: dovranno spiegare ai cittadini quali nobili motivi li hanno guidati e forse, come è successo nel Friuli-Venezia Giulia, dovranno sottoporsi ad un giudizio referendario. Ma non sono ammesse soluzioni truffaldine, tentativi di gabellare formule equivoche in cui, magari sperando nella compiacenza del Governo, si evade dall’obbligo di essere conseguenti sino in fondo, e cioè di legare insolubilmente la vita del Presidente della Regione, se eletto direttamente dagli elettori, alla vita del Consiglio regionale.

 

5. E’ difficile che le Regioni acquistino credibilità politica se restano prigioniere di logiche così povere. È difficile che acquistino credibilità politica sinché non svilupperanno una vera autonomia politica: e questa può svilupparsi solo quando la classe politica regionale sarà orgogliosa di essere tale e non cercherà “promozioni” passando al governo nazionale, interrompendo il proprio mandato elettorale. È difficile che acquistino credibilità politica finché non mostreranno di capire che lo Statuto serve a progettare una macchina decisionale efficiente, consapevole e affidabile e non a perpetuare gli antichi meccanismi di una politica italica autoreferenziale, concepita come lotta intestina perpetua per la conquista di cariche anziché come strumento per la promozione degli interessi della comunità. E finché le Regioni non avranno conquistato credibilità politica, non ci sarà riforma costituzionale che, da sola, possa garantire ad esse un reale peso istituzionale.

La concentrazione di tutta l’attenzione dei consiglieri regionali sul nodo della forma di governo e, in particolare, sulla clausola simul – simul è del tutto priva di giustificazione. Ma – si dice – questo vincolo, con la sua rigidità, minaccia di svuotare il significato politico del Consiglio regionale, privandolo di efficaci strumenti di controllo. A questa obiezione permettetemi di opporre tre considerazioni:

·        la prima è che un Consiglio regionale (questo riguarda tutte le Regioni) che dopo tre anni non è ancora riuscito ad approvare neppure una prima bozza di Statuto, si è già svuotato di qualsiasi prestigio politico, ha abdicato al suo ruolo più importante

·        la seconda è che la crisi del ruolo del Consiglio regionale non dipende affatto dalla temuta riforma costituzionale. È stata proprio la vecchia politica autoreferenziale a svuotare di prestigio, di dignità e di ruolo la figura del consigliere regionale, preoccupato non di svolgere a dovere la propria funzione (quella legislativa in particolare) ma di operare in ogni modo per diventare assessore: “la mancanza di governi autorevoli ha influito senz’altro sul rendimento istituzionale della Regione”, provocando paradossalmente “lo scarso ruolo dell’organo programmatore, il Consiglio, e il notevole potere gestito dal Presidente della Giunta e dagli assessori[2]

·        che il ruolo, il potere di un’Assemblea elettiva dipenda dal potere di far cadere impunemente gli esecutivi è una convinzione del tutto sbagliata che rivela l’alto tasso di provincialismo della cultura istituzionali italiana.

 

Nessuno considera un inutile orpello il senato americano, eppure il senato americano non può cacciare il Presidente, se non attraverso un procedimento penale. È un'as­semblea che funziona, con decine di migliaia di dipendenti, la più grossa biblioteca del mondo, le più grosse strutture informative; è un'assemblea che sa esercitare il controllo politico sull’esecutivo; è un'assemblea che sa essere sede privilegiata di lobby, parola che è rifiutata dal nostro ipocrita linguaggio politico ma che appartiene all'anima della democrazia. Che cosa ci fa un'assemblea elettiva se non il raccoglitore degli interessi sociali e organizzati? In America si fa ufficialmente, in Italia si fa solo segretamente, ma non nel Consiglio regionale. Se io imprenditore preferisco andare dall'assessore regio­nale invece che andare dal presidente della commissione consiliare competente, è il mio comportamento a disegnare la vera forma di go­verno. Vuol dire che il Presidente della commissione regionale conta niente e l'assessore conta molto. Se è così, i meccanismi capaci di rafforzare la funzione ef­fettiva di un'assemblea elettiva, obiettivo che io condivido appieno, sono ben diversi da quelli che consentono di destabilizzare impunemente l’esecutivo. La corsa ad occupare gli scranni dell’esecutivo, abbandonando quelli dell’assemblea, questa è la vera ed unica causa dello svuotamento di significato delle assemblee. Bene farebbero i Consigli a preoccuparsi non di perpetuare questa logica, ma di organizzarsi come una macchina decisionale competente, informata, efficiente e capace di attrarre e soddisfare le richieste provenienti da quella comunità che i Consigli dovrebbero, anzitutto, rappresentare.

 

 

 

6. Smentirei le stesse premesse del mio ragionamento se sostenessi che le considerazioni svolte sinora valgano tutte per tutte le Regioni. Non credo infatti che valgano per le Regioni speciali: ma solo per quelle veramente speciali, e cioè per la Provincia di Bolzano e per la Val d’Aosta.

Lo confermano le stesse riforme costituzionali degli ultimi anni. La legge cost. 2/2001, che modifica gli Statuti speciali per adeguarli al nuovo principio dell’autonomia della Regione nella scelta della forma di governo, mentre da un lato ribadisce la validità generale della regola per cui se la Regione opta per l’elezione diretta del Presidente, allora deve necessariamente scattare la regola del simul – simul, dall’altro crea una netta differenziazione tra la Provincia di Bolzano e la Valle d’Aosta, da un lato, e le altre Regioni (e Province) speciali, dall’altro. Per le altre Regioni è previsto che, in attesa della legge statutaria sulla forma di governo, si applichino transitoriamente la regola dell’elezione diretta del Presidente e il principio del simul – simul: non invece nel Sudtirolo e nella Valle d’Aosta, che restano rette dal loro sistema precedente.

Naturalmente tutti hanno pensato che questa differenziazione sia dovuta al fattore linguistico, ma non è solo questo come abbiamo visto. Optare per l’elezione diretta del Presidente della Regione (o della Provincia) non è affatto una soluzione consigliabile in ogni circostanza. È una soluzione indispensabile laddove c’è bisogno di stabilizzare una classe politica, una maggioranza, un esecutivo: non sono ragionamenti astratti attorno a supposte “specialità” della regione che devono guidare queste scelte, ma considerazioni attente alla realtà della situazione politica e istituzionale. Che il Consiglio regionale del Friuli – Venezia Giulia abbia votato a larga maggioranza una “legge statutaria” che ripristina l’elezione indiretta del Presidente della Regione e opta per una forma di governo accentuatamente assembleare, non si giustifica affatto con la “specialità” di quella Regione. Le sue performance politiche negli ultimi anni sono invereconde, le statistiche la pongono all’ultimo posto quanto a stabilità dell’esecutivo: un intero modello di amministrazione regionale è stato distrutto dall’allegro gioco dell’assalto alle poltrone dell’esecutivo. Non la specialità regionale, ma il degrado della cultura istituzionale conduce a questo tipo di opzioni “statutarie”: non disgiunto da un’abbondante dose di ipocrisia, che ha dettato l’inutile previsione della “foglia di fico” della c.d. sfiducia costruttiva – previsione inutile in un paese nella cui storia mai, né al centro né in periferia, un governo è caduto a causa di una esplicita mozione di sfiducia!

Quindi, tutto ciò che suggerisce in tutte le altre Regioni di optare per una forma di governo che “personalizza” il rapporto politico con gli elettori e stabilizza l’esecutivo non è prescrivibile in quelle uniche due realtà regionali italiane dove la stabilità è un dato già da lungo tempo acquisito. In queste due realtà ci si può accingere a scrivere le nuove regole “statutarie” badando al vero problema: come rilanciare il ruolo dell’assemblea elettiva, la cui crisi, già da tempo in atto, prescinde dalle questioni attinenti alle regole sulla formazione dell’esecutivo.

 

7. La crisi del ruolo delle assemblee elettive non è una novità, ma un tema ricorrente della letteratura del ‘900. Quando però si parla della crisi delle assemblee regionali, emergono profili nuovi che non possono essere trascurati. Esse sono state ricalcate sull’esperienza parlamentare, a sua volta tradizionalmente legata a modelli antichi: e per molti aspetti sono rimaste indietro rispetto alle Camere, perché sono state ancora meno capaci di innovare i propri strumenti. Il portato sono:

-                       procedure decisionali lente e farraginose, che inducono l’esecutivo a trovare ogni stratagemma per evaderle. Mancano in molte assemblee regole efficaci sulla programmazione dei lavori e sul contingentamento dei tempi;

-                       una grave mancanza di strutture tecniche e conoscitive, che impedisce di sottrarsi alla predominanza dell’esecutivo nella formazione e nell’elaborazione delle informazioni. In parte ciò è dovuto alla prevalenza dell’organizzazione “per gruppi” a danno degli investimenti in serie strutture comuni, dell’organo nel suo complesso;

-                       la conseguente difficoltà nell’esercitare il monitoraggio di ciò che accade a valle delle decisioni dell’assemblea, cioè dell’applicazione delle leggi e dell’attuazione dei programmi. Dell’arco di una politica pubblica l’assemblea vede solo il breve tratto della formazione della legge, restando nell’ombra, se non mediate dalle comunicazioni dell’esecutivo, le informazioni sulla situazione precedente alla legge e sugli effetti di questa;

-                       la perdita della capacità di attrarre l’interesse degli operatori, che cercano nell’esecutivo il loro riferimento. Questo è l’altro lato della mancanza di informazioni, se non mediate dall’esecutivo, e si traduce in una perdita secca di rappresentatività;

-                       scarsa capacità di comunicazione politica, ossia di “aprire” i lavori dell’assemblea all’interesse del pubblico.

 

Questi problemi affliggono tutte le assemblee elettive locali e dovrebbero costituire i temi su cui lavorare con molta serietà in fase di scrittura degli Statuti regionali, dato che soluzioni tecniche per ovviarvi possono essere individuate. Per questo trovo del tutto negativo e fuorviante che tutta l’attenzione sia concentrata invece sul problema di come eleggere il Presidente della Regione e, di conseguenza, di come il Consiglio regionale lo possa rimuovere impunemente: quasi che il problema dell’assemblea legislativa sia quello di sostituirsi all’esecutivo anziché di esercitare con forza e capacità i propri poteri, che non sono pochi.

Vi è poi un aspetto che si è accentuato con le recenti riforme e che probabilmente interessa in modo particolare la Provincia di Bolzano. Esso si ricollega alle funzioni più prettamente politiche esercitate dal Presidente nelle sue qualità di rappresentate della comunità locale presso le istanze nazionali, comunitarie e internazionali. È indispensabile che le norme statutarie creino procedure capaci di non escludere l’assemblea da questa dimensione della politica regionale, che è destinata ad occupare un ruolo centrale. Il problema è estremamente serio: la vera causa del c.d. deficit democratico delle istituzioni europee si genera in effetti all’interno degli Stati membri, che non sono riusciti ad adeguare le proprie regole costituzionali all’esigenza di garantire il controllo delle assemblee elettive sulle politiche che gli esecutivi concorrono a formare nelle istituzioni europee. Lo stesso problema si ripropone a livello regionale, dal momento che la partecipazione di Regioni e Province autonome alla formazione delle politiche comunitarie è ormai assicurata e acquista un peso determinante anche la partecipazione delle Regioni e delle Province autonome alla formazione delle politiche nazionali (tramite la Commissione bicamerale integrata e tramite il sistema delle Conferenze).

Da ultimo, un tema di specifico interesse per la Provincia di Bolzano riguarda le Commissioni paritetiche per l’attuazione dello Statuto speciale. La riforma del Titolo V ha azzerato la situazione, rendendo ormai obsolete molte delle norme che erano state introdotte con i precedenti decreti delegati, comprese le norme fondamentali “di sistema” introdotte con il d.lgs. 266/1992. Difficile è da valutare quanto del sistema di rapporti tra le fonti statali e provinciali, disegnato in quel decreto, sopravviva alla riforma. Ma tutti i potenziali effetti della riforma sulle attribuzioni della Provincia dovranno essere oggetto di una attenta e lunga opera della Commissione “dei sei”, opera dalla quale discenderanno conseguenze di enorme portata per l’autonomia provinciale. Ancora una volta, l’assemblea provinciale non dovrà accettare di essere esclusa dalle decisioni strategiche sugli obiettivi da perseguire in quella sede, ed è perciò indispensabile che la “legge statutaria” che essa voterà prenda in seria considerazione l’esigenza di elaborare gli strumenti più opportuni.

 

 



[1] Tutti i dati qui riportati sono tratti dalla ricerca condotta da S.Vassallo e G.Baldini, Sistemi di partito, forma di governo e politica delle istituzioni nelle regioni italiane, in “Le Istituzioni del federalismo” 2000, fasc. 3-4.

[2] R. De Luca, Calabria – Nuovo sistema politico e vecchi problemi : la precarietà del governo regionale, in “Le istituzioni del federalismo” cit., 811.