"ORDINE GIURIDICO E ORDINE POLITICO

NEL DIRITTO COSTITUZIONALE GLOBALE"

 

Roberto Bin

 

1. La globalizzazione mette in crisi la base stessa dell’ordinamento costituzionale: questa è la premessa da cui conviene prendere le mosse. Diego Quaglioni ricordava nelle sua relazione la classica costruzione orlandiana del concetto di sovranità, quel cocktail formato da tre ingredienti, il territorio, il popolo e il governo. La sovranità è un concetto più teologico che giuridico, per cui forse non è soggetto a consunzione o a trasformazioni dovute alle vicende terrene. Ma per i giuristi esso riassume e semplifica alcune coordinate, protocolli che risultano fondamentali per lo svolgimento del loro lavoro, e lo sfaldamento del concetto di sovranità non può restare perciò privo di conseguenze.

Dei tre ingredienti che costituiscono la sovranità, il territorio è indubbiamente quello che soffre con maggiore evidenza gli effetti della globalizzazione: il mondo globale è la negazione della delimitazione fisica di un territorio, e invece il territorio è la dimensione fondamentale che organizza il diritto costituzionale. La vigenza della legge ha una delimitazione territoriale, così come è strettamente ancorata al territorio la stessa rappresentanza politica; il potere impositivo dello Stato – che è geneticamente collegato allo svilupparsi della rappresentanza – è strettamente riferito a beni collocati o prodotti su un territorio delimitato. I “diritti” e i “doveri” che conferiscono senso al concetto stesso di cittadinanza – il popolo, dunque – sono anch’essi strettamente dipendenti dal territorio. L’identità di spazio e tempo, con la cui dimostrazione Einstein ha rivoluzionato la fisica, mostra improvvisamente i suoi effetti anche nel diritto: le comunicazioni “in tempo reale” hanno fatto perdere di significato le delimitazioni territoriali, che sono diventate anzi un ostacolo al funzionamento del mercato. La delocalizzazione della produzione, la snazionalizzazione delle imprese, l’“outsourcing” di segmenti di produzione o di servizi in paesi in via di sviluppo, la smaterializzazione della ricchezza ridotta a moneta elettronica che si muove per via telematica, sono tutti fenomeni conseguenti che hanno reso possibile la circolazione dei fattori economici attraverso i confini, lacerando le barriere confinarie, normative, fiscali, sindacali ecc. La proprietà, la ricchezza, il lavoro, gli scambi commerciali sono fattori di un mercato globale che gli stati sovrani controllano sempre meno. Possono a stento controllare che le frontiere resistano alla pressione migratoria di milioni di persone che della globalizzazione subiscono i danni e che non possiedono le tecnologie necessarie per rendersi “invisibili”, come riescono a fare assai bene invece le organizzazioni criminali e i terroristi: per cui lo Stato sovrano vede scolorarsi anche il suo connaturato monopolio della repressione penale o, quantomeno, l’autosufficienza della sua organizzazione repressiva.

Persino i servizi sociali mostrano segni di disancoramento dal territorio. La recente sentenza Watts della Corte di giustizia (C-37/2004), per esempio, ha stabilito che il cittadino di uno Stato membro può ottenere, a carico del servizio sanitario del suo paese, un trattamento ospedaliero in un altro Stato membro quando i tempi di attesa eccedano i limiti considerati accettabili in base ad una valutazione medica oggettiva dello stato e dei bisogni clinici del paziente interessato. Ma se un cittadino può ottenere le prestazioni dei servizi sociali pubblici in un luogo diverso da quello in cui paga le tasse (ciò che per altro avviene già in Italia tra una regione e l’altra), vacilla l’intero sistema concettuale dello Stato costituzionale rappresentativo.

 

2. Non mi soffermerò a discutere se anche il concetto di “popolo” e di “governo” abbiano subito contraccolpi nel processo di globalizzazione. Benché a centinaia di milioni di persone, che vorrebbero sfuggire alla fame, venga negato quel “naturale” jus migrandi che invece è pienamente riconosciuto alle merci, ai servizi e ai capitali, non c’è dubbio che il concetto di “popolazione” ha perso una certa percentuale di quella “stanzialità” che la teoria classica della sovranità le attribuiva come presupposto. L’esigenza largamente sentita di estendere i diritti politici agli immigrati “residenti” – quelli che effettivamente scambiano tasse e servizi sul territorio nazionale e locale – e, su tutt’altro versante, la risibile idea nazional-kantiana di “federalizzare” l’universo estendendendo l’elettorato attivo e passivo agli “italiani nel mondo”, a gente che né paga tasse né acquista servizi in Italia, sono indici chiari di un mutamento in atto nel concetto di popolo. Quanto al governo, il processo di integrazione europea mostra già tutta la difficoltà di trattenere il potere decisionale entro i confini dello Stato sovrano.

Quello che mi preme ora osservare, appunto, è che la globalizzazione mette forse in crisi lo Stato sovrano, non il diritto. Da un certo punto di vista, anzi, il diritto sembra conoscere oggi una stagione di grande fortuna. Il diritto dello Stato non ha subito sostituzioni, ma ad esso si è aggiunto il diritto della Comunità europea, quello del WTO, le norme prodotte dalle amministrazioni internazionali di cui parlerà Falcon, le norme sui diritti fondamentali prodotte in ambito CEDU e quelle fatte valere nelle Corti penali internazionali, le regole del commercio internazionale che passano con il nome di nuova lex mercatoria, le norme prodotte dagli organismi ONU per fronteggiare il terrorismo internazionale ecc. Sono fenomeni ben noti e da tempo studiati, che segnano una fase di grande trasformazione rispetto alla quale le nostre categorie sistematiche rivelano la loro insufficienza. Sono fenomeni interessanti da leggere proprio secondo la chiave di lettura di questo convegno, ossia del rapporto tra ordine giuridico e ordine politico: di un rapporto che per altro è centrale da sempre negli studi di diritto costituzionale.

Dedicherei quindi qualche minuto al tentativo di tracciare un breve schizzo storico del rapporto tra diritto e politica nell’evoluzione del diritto costituzionale dal mondo liberale ad oggi, al fine di capire che cosa significhi per il diritto costituzionale la “sfida” della globalizzazione.

 

2. La storia costituzionale del mondo liberale è stata dominata dalla prevalenza della politica sul diritto, prevalenza espressa nel principio costituzionale di sovranità parlamentare. È vero che quella è l’epoca in cui ha avuto la sua affermazione lo Stato di diritto, forma di organizzazione politica in cui la società è governata dalle leggi e non dagli uomini, ma sono pur sempre gli uomini a fare le leggi, uomini legittimati dal voto, da un sistema rappresentativo. Il diritto organizzava la società solo dopo che il sistema rappresentativo aveva selezionato ciò che degli interessi della società doveva diventare legge.

La politica, intesa come regolazione del conflitto sociale, si svolgeva prima del diritto: il conflitto non erano regolato dal diritto, ma con l’impiego delle forze dell’ordine pubblico e dell’esercito. Una rigida recinzione delimitava l’accesso degli interessi sociali alla rappresentanza politica: questa era la soluzione adottata per risolvere il problema di come conciliare la tutela delle libertà civili (e della proprietà privata, che di esse è il paradigma) con l’affermazione dell’eguaglianza formale dei cittadini – principio, quest’ultimo, che porta con sé l’ovvia aspettativa della massima estensione del suffragio e dei diritti politici. Il suffragio universale avrebbe aperto le porte del Parlamento alla “moltitudine” dei diseredati, e quindi al conflitto sociale e alla contestazione dell’ordine economico. Facile immaginarsi come ciò si sarebbe riflesso sulla tutela delle libertà. Proiettata sul piano dei diritti politici, la forza espansiva dell’eguaglianza e del suffragio universale sarebbero divenuti “strumenti di demolizione”, aveva ammonito Guizot: spianando la strada alla “legge dei numeri”, avrebbero sovvertito l’ordine sociale ed economico che privilegiava l’élite: “je le ragade comme la ruine del la démocratie et de la liberté[1].

La “flessibilità” della costituzione è dunque parte integrante della forma di Stato: “l’ordine e la libertà” potevano essere difesi solo in un sistema in cui le garanzie costituzionali non operassero se non attraverso la mediazione di istituzioni fortemente censitarie. È la legge del parlamento che definisce il se e il quanto della garanzia accordata ai diritti e alle libertà, fermo restando che l’ordine sociale va comunque difeso, anche a discapito della protezione delle libertà e dei diritti, attraverso lo stato di assedio. Come ancora Guizot osservava, lo stato d’assedio non è affatto, in quel sistema, una “legge d’eccezione”, ma “diritto comune” del paese, che dev’essere costantemente applicato ad un certo numero di casi determinati[2]. È in questo clima che Donoso Cortés affermava (nel suo celebre Discorso sopra la dittatura) che “quando la legalità basta per salvare la società, sia la legalità; quando non basta, sia la dittatura. ... la dittatura, in certe circostanze, in circostanze come la presente, è un governo legittimo, buono, utile come qualsiasi altro, è un governo razionale, che può essere difeso in teoria come in pratica”.

La dittatura è una dimensione presente nella nostra storia costituzionale d’epoca liberale. Nei giorni feriali lo Stato era costituzionale e liberale, la domenica e nei giorni festivi prendevano sopravvento la dittatura, lo stato d’assedio, i cavalli di frisia, la sospensione e la crisi dei diritti. Il mondo liberale del secolo XIX non è stato l’Eden delle libertà, dei diritti, dello Stato costituzionale di diritto; le vicende europee del Novecento hanno puntualmente mostrato come lo “stato d’eccezione” sia potuto diventare la regola[3].

 

3. Il problema di conciliare la tutela dei diritti in un sistema che riconosca il suffragio universale e collochi nelle istituzioni rappresentative il potere decisionale trovò finalmente una soluzione geniale con la Costituzione rigida. La Costituzione rigida – la Costituzione come la conosciamo noi - può essere tranquillamente riletta come una procedura di crioconservazione, di conservazione a freddo dei diritti: una procedura con cui i diritti - tutti i diritti, quelli individuali e quelli sociali, l’habeas corpus, la proprietà, il diritto alla salute, il diritto all’istruzione ecc. - vengono messi in un frigorifero e raffreddati, così da sottrarli alle vicende della politica quotidiana, alla “dittatura” della maggioranza, alla volontà espressa dagli elettori con il suffragio universale. Non c’è più bisogno allora di escludere il conflitto sociale dalle istituzioni, di blindare il parlamento con la limitazione del suffragio: il conflitto sociale è incorporato nelle istituzioni e il suo campo di svolgimento diviene proprio l’assemblea rappresentativa. Ma ad essa è proibito di violare i diritti riposti nella Costituzione; la maggioranza politica espressa dal voto non può intaccare l’equilibrio tra interessi contrapposti fissato dal patto sociale che ha reso possibile la Costituzione. Ed un giudice apposito – che è sottratto al circuito rappresentativo e alla regola di maggioranza (è counter-majoritarian, come si dice in America) - è istituito per controllare che ciò non accada. Letta con la lente del rapporto tra politica e diritto, questa forma di Stato mostra un riequilibrio tra le due componenti, se non una prevalenza del diritto sulla politica, dato che è la Costituzione a legare le mani di chi detiene il potere politico essendo legittimato dal voto: lo stesso potere legislativo è sottoposto al principio di legalità – di legalità “costituzionale” – e non è più il parlamento, corpo politico, a detenere la sovranità, ma forse questa si è spostata sulla Costituzione, corpo giuridico.

L’equilibrio è precario però, perché la larga maggioranza dei non abbienti preme sulle istituzioni rappresentative perché esse, attraverso una “politica sociale”, ridistribuiscano la ricchezza, concentrata nelle mani di una minoranza. È il grande timore che subito manifesta la parte più conservatrice della dottrina, che avverte immediatamente quanto sia improbabile che venga mantenuto l’equilibrio tra la componente “liberale” e la componente “sociale” dello “stato sociale di diritto”. L’inesorabile espansione legislativa (e giurisprudenziale) delle prestazioni pubbliche – ammonisce per esempio Ernst Forsthoff - porterà all’espansione continua delle prestazioni pubbliche e alla conseguente scarnificazione del diritto di proprietà attraverso la tassazione progressiva; la Costituzione rigida impedisce al parlamento di espropriare la proprietà privata, ma non di applicare politiche redistributive finanziate erodendo con la tassazione progressiva la ricchezza prima che essa si traduca in beni costituenti oggetto della protezione costituzionale della proprietà privata[4]: con ciò spostando in modo irrimediabile il punto di equilibrio tra i due cataloghi di diritti, che la costituzione rigida ha voluto invece “congelare”.

Il monito di Forsthoff intravede il pericolo imminente, ma centocinquant’anni prima Constant aveva già intuito l’antidoto:

 

Il commercio dà alla proprietà una qualità nuova, la circolazione: senza circolazione, la proprietà non è che usufrutto; l'autorità può sempre influire sull'usufrutto perché può toglierne il godimento; ma la circolazione mette un ostacolo invisibile e invincibile a questa azione del potere sociale[5]

 

Le profetiche parole di Constant spiegano come quel complesso processo cui si dà il nome di “globalizzazione” segni una tappa ulteriore della storia costituzionale, e in particolare della conflittualità da sempre esistente tra le libertà e l’eguaglianza. Se il sistema democratico, per la forza del numero che insita nel suffragio universale, tende a ridurre le disuguaglianze sociali ed economiche – come promette il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione – e quindi ad incidere sulla proprietà e sulla distribuzione della ricchezza, la proprietà e la ricchezza riscoprono la loro “naturale” mobilità, sfruttano le potenzialità della circolazione, si sottraggono al perimetro della sovranità nazionale e quindi all’àmbito territoriale dell’applicazione delle leggi nazionali, al potere della rappresentanza elettorale, alle politiche redistributive che essa è incline a perseguire.

Solo così si spiega la singolare inversione di tendenza che lo Stato sociale ha segnato negli ultimi tempi. Se si rileggono gli scritti apparsi nella letteratura costituzionalistica italiana di solo due o tre decenni fa a proposito dell’espansione della tutela dei diritti, e dei diritti sociali in particolare, si ritrova la piena convinzione – per dirla leopardiamente - delle loro “magnifiche sorti e progressive”: la legislazione, promossa da un’assemblea rappresentativa democraticamente eletta, avrebbe potuto muoversi solo nella direzione dell’allargamento dei diritti scritti in Costituzione, mai invece nel senso del restringimento della loro tutela. Il motore messo in moto dal suffragio universale non sarebbe stato più arrestabile, tantomeno se ne può invertire la direzione di marcia.

 

4. Rileggere oggi le profezie di allora causa la dolorosa sensazione del “ricordarsi del tempo felice ne la miseria”. Com’è che la profezia è così clamorosamente fallita? Quale ostacolo ha incontrato il principio democratico, tale per cui le politiche redistributive cui esso ha sempre teso hanno potuto subire le vistose contrazioni (o radicali inversioni di rotta) dei tempi più recenti? Che cosa impedisce alla forza dei numeri, in un regime democratico, di continuare ad imporre la prevalenza degli interessi dei molti sugli interessi dei pochi? La risposta sta nella globalizzazione, nei principi di liberalizzazione, che consentono alle merci, alle imprese e ai capitali di muoversi senza vincoli e senza alcuna possibilità di controllo, e che dominano il mercato europeo e tendono ad imporsi nei mercati internazionali. Solo le persone non possono muoversi liberamente, solo gli uomini subiscono limiti fisici e giuridici alla loro “libertà di stabilimento”, al loro ius peregrinandi che Francisco de Vitoria, quasi quattro secoli fa, alle soglie della prima “globalizzazione”, aveva iscritto ai “diritti naturali”[6].

La globalizzazione porta dunque disequilibrio tra politica e diritto, nel senso che la politica ha subito una drastica riduzione di ruolo. La globalizzazione è il trionfo del mercato e il mercato, come intuito da Adam Smith[7], è concorrente della politica, produce regole di comportamento che contestano quelle poste dal legislatore politico quando questi non si arrenda e si limiti a seguirle, emularle, eseguirle. Il mercato impone le regole alla politica.

Ben si capisce allora il c.d. deficit democratico che la Comunità europea non è mai riuscita a colmare, che affetta vistosamente il WTO e qualsiasi autorità internazionale da cui dipende il funzionamento del mercato globale: non è affatto un incidente di percorso, un difetto destinato a trovare presto un rimedio; è invece un “elemento progettuale”, senza il quale il progetto non sarebbe realizzabile, non funzionerebbe. L’idea è che il mercato possa produrre da sé le proprie regole, indipendentemente dalla politica e dagli “interessi estranei” che alla politica potrebbe venire in mente di perseguire. Giandomenico Majone ha tracciato in molto suoi scritti l’apologia del carattere non-democratico delle istituzioni comunitarie, sottratte ai principi della rappresentanza politica[8]; riconoscimenti equivalenti li possiamo trovare riferiti anche agli organismi di regolazione internazionale dei mercati[9].

Le c.d. Autorità amministrative indipendenti sono un modello in scala di questo progetto: sono ispirate dall’idea esplicita di portare la politica fuori dalla regolazione del mercato. Lo Stato – si dice - tende a ritrarsi dall’intervento diretto e dall’esercizio del potere normativo e affida i compiti di regolazione a soggetti che, pur istituiti e disciplinati per legge, si collocano ai margini o fuori del sistema dell’autorità pubblica. Sono “indipendenti” nel senso che vengono sottratti al circuito politico-rappresentativo: ciò dovrebbe rafforzare il carattere “neutrale” della loro attività normativa. Il potere normativo di queste autorità sembra trarre legittimazione “dal basso”, per almeno due motivi: vuoi perché l’attribuzione di tale potere è “finalizzata alle esigenze che emergono dal settore da regolare”, ed è perciò coerente che i regolamenti emanati “ricavino le regole dall’oggetto da regolare”[10]; vuoi perché la regolazione dello specifico segmento di mercato verso cui si rivolge la competenza del soggetto regolatore è generalmente partecipata e condivisa dagli operatori economici che agiscono il quel segmento.  

L’osmosi tra pubblico e privato è dunque un tratto caratteristico, anzi programmatico, di queste regolazioni che provengono “dal basso”, sia che si operi nella dimensione nazionale che nei mercati internazionali. Ma l’aspetto più rilevante è che questo fenomeno non si limita a delimitare l’àmbito di vigenza delle norme imposte dal potere politico agli operatori di mercato, ma agisce persino nel senso opposto, di imporre cioè le “regole di mercato” al potere politico. È il “mercato” a dettare l’agenda della politica.

Quando Governo e Parlamento affrontano l’appuntamento annuale della legge finanziaria, la loro preoccupazione è come la valuteranno la Commissione europea, la Banca centrale e le banche internazionali, le agenzie internazionali di rating, prima ancora di quale sarà l’accoglienza che le daranno i cittadini – elettori. Non è certo l’obiettivo costituzionale dell’eguaglianza sostanziale ciò che guida prioritariamente la politica economica dello Stato, ma una serie di obiettivi e di criteri definiti altrove, laddove la rappresentanza democratica e la insopportabile “legge dei numeri” non può arrivare. Non è la democrazia parlamentare a giudicare della bontà della manovra finanziaria, ma piuttosto quella che – con ironia non so quanto consapevole – spesso si chiama la “democrazia della borsa”.

 

5. Ecco come la globalizzazione intacca l’apparato concettuale attraverso il quale la nostra cultura costituzionale ha fissato le regole di funzionamento del sistema sociale. Questo spiega la difficoltà che i giuristi incontrano con frequenza sempre maggiore nell’arduo compito di riportare a coerenza un “sistema” che ha perso per molta parte le sue linee progettuali portanti.

Tuttavia il “sistema” mostra di produrre anche qualche anticorpo per assimilare gli effetti della globalizzazione, quantomeno laddove entrino in gioco i diritti fondamentali. Non mi riferisco certo alla mistica habermasiana dei diritti “cosmopolitici” dell’uomo, che mi sembrano collocarsi ben fuori della realtà e non superare le critiche feroci di filosofi “cattivi” come Žižek[11] o Rancière[12]. A me sembra che troppo facilmente si intoni il de profundis degli Stati sovrani e si cerchi di collocare in una dimensione superstatale la tutela dei diritti fondamentali degli individui. Se la tutela dei diritti non è assicurata dallo Stato, chi mai la garantisce?

Non certo la Corte di giustizia della Comunità europea, la cui giurisprudenza mi sembra invece dimostrare con forza l’insuperabilità della tutela fornita dagli Stati nazionali. È noto come risalga al 1970 l’esordio della giurisprudenza comunitaria sul piano della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini europei: perciò si è spesso acriticamente esaltato il ruolo della Corte di giustizia quale garante delle “tradizioni costituzionali europee”, dimenticando che mai nella sua giurisprudenza – mi sembra[13] - è giunta ad annullare un atto comunitario per violazione di tali diritti fondamentali (se non nei rapporti di lavoro con i dipendenti delle istituzioni comunitarie). Anche quando entrano in ballo i diritti fondamentali, come nella recente decisione (C-317/04 e C-318/04) che ha portato all’annullamento dell’accordo tra la Comunità europea e gli Stati Uniti d'America sul trattamento e trasferimento dei dati di identificazione delle pratiche da parte dei vettori aerei, la decisione non è motivata sulla base della violazione dei diritti individuali, ma della carenza di base giuridica lamentata dal Parlamento europeo. I diritti fondamentali incidono esclusivamente sull’interpretazione che la Corte di giustizia fornisce dei vincoli che derivano dalle norme comunitarie a carico degli ordinamenti nazionali.

È interessante osservare come la Corte di giustizia si è comportata di recente nelle vicende riguardanti il congelamento dei beni dei cittadini stranieri sospettati di fiancheggiare il terrorismo internazionale. Ai soggetti inseriti in apposite liste con una procedura sostanzialmente amministrativa condotta da un Comitato istituito dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’Unione europea ha applicato delle misure restrittive “personali” con una serie di atti assunti nell’ambito del secondo e terzo pilastro, rispetto ai quali le garanzie giurisdizionali sono del tutto escluse o molto ridotte, per un arcaico residuo della political question; tali atti sono stati poi recepiti ed eseguiti da una serie di regolamenti CE.

In questa lunga catena di atti, iniziata in sede Onu e terminata in sede CE, si vanifica la tutela giurisdizionale degli interessi e dei diritti delle persone e delle organizzazioni colpite, che vedono direttamente e incisivamente limitati i loro diritti individuali. Il problema è stato posto dal ricorso dei soggetti privati direttamente colpiti dai provvedimenti della Comunità europea, dando luogo ad una lunga sequenza di decisioni del Tribunale di prima istanza e della Corte di Giustizia.

Il percorso seguito dal giudice comunitario è molto significativo. Esso è partito da posizioni di netta preclusione, in cui si è esplicitamente negato che i soggetti colpiti godessero di un diritto alla tutela giurisdizionale dei propri diritti: la documentazione che ha portato all’inserimento dei nominativi nella lista è coperta da assoluta riservatezza e non può essere richiesta dagli interessati, perché ciò è funzionale all’effettività della lotta al terrorismo[14]; per altro, gli obblighi assunti dagli Stati membri nell’ambito dell’Onu prevalgono su qualsiasi altro obbligo di diritto interno o di diritto internazionale pattizio, per cui anche per gli atti assunti dalle istituzioni europee che siano vincolati dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza è escluso qualsiasi controllo di legittimità da parte dei giudici comunitari[15]. Insomma, come rileva tranquillamente il Tribunale nella prima decisione della serie[16], “per quanto riguarda l’assenza di tutela giurisdizionale effettiva fatta valere dai ricorrenti, si deve necessariamente rilevare che, con ogni probabilità, questi ultimi non hanno a disposizione nessuna tutela giurisdizionale effettiva, né dinanzi ai giudici comunitari né dinanzi ai giudici nazionali, contro l’iscrizione… nell’elenco delle persone, dei gruppi o delle entità coinvolti in atti terroristici”.

Per quanto grave sia la minaccia del terrorismo internazionale, come si può abdicare in modo così vistoso ai principi che caratterizzano la tradizione costituzionale europea? In effetti nelle decisioni successive il giudice comunitario apre una serie di spiragli. In primo luogo enfatizza il ruolo degli stati membri nella procedura di de-listing, imponendo ad essi di assicurare ogni garanzia di contraddittorio nel procedimento amministrativo che gli interessati possono attivare e che potrebbe portare ad una richiesta, rivolta dallo stato di appartenenza o di residenza all’organismo dell’Onu, di cancellazione del nominativo dal famigerato elenco oppure una deroga al congelamento dei capitali; e circonda tale procedura delle dovute garanzie giurisdizionali, che devono ovviamente essere assicurate dagli stessi stati membri, ai quali è imposto di pienamente garantire i diritti dei soggetti colpiti dalle misure anti-terrorismo[17]. Ma a tale risultato era per altro già pervenuta la nostra Cassazione[18], che, pur rigettando il ricorso sulla base di riscontri obiettivi, afferma che “il giudizio sulle caratteristiche e finalità di una organizzazione non può essere affidato a elenchi di formazioni ritenute terroristiche ed elaborati, per l’applicazione di misure di prevenzione, da governi di singoli stati o da organismi internazionali”, dimostrando di muoversi nella stessa prospettiva del Tribunale CE[19].

Per altro verso i giudici nazionali – Cassazione italiana inclusa – mostrano di essere sempre più disponibili ad aprire i propri orizzonti ben oltre le frontiere territoriali dell’ordinamento giuridico italiano, sfruttando ogni canale che consenta di “internazionalizzare” la tutela dei diritti: l’uso “diretto” della giurisprudenza CEDU o le aperture verso il riconoscimento di “effetti orizzontali” delle norme comunitarie self-executing sono indici di un’attenzione ormai permanente per quelle fonti del diritto che stanno fuori dell’ordinamento italiano ma consentono di potenziare gli strumenti di tutela dei diritti forniti da questo. Il manifestarsi sempre più frequente del fenomeno della c.d. “circolazione dei modelli giuridici” muove anch’esso in questa direzione.

 

6. La globalizzazione allora non intacca il diritto, ma semmai lo complica moltiplicandone le fonti. Non intacca neppure lo Stato nazionale, sia pure ne relativizzi la “sovranità”. La stessa Unione europea, in fondo, punta ad assumere le sembianze dello Stato sovrano e a rivendicare per sé una quota di sovranità. Lo Stato resta non solo il paradigma di riferimento ancora insuperato dell’esercizio dei poteri pubblici, ma anche lo strumento su cui appoggia la globalizzazione. Così come è sugli Stati, sulla loro amministrazione e sull’apparato giurisdizionale da essi predisposto che l’Unione europea appoggia tanto la sua azione quanto le garanzie dei diritti individuali, così è sugli Stati che le imprese multinazionali appoggiano le garanzie dei propri crediti e dei propri beni.

Forse si può dire che il loro potere è tale che, potendo scegliere dove stabilire la propria sede o eleggere il foro delle loro controversie, esse mettono gli ordinamenti giuridici in competizione tra loro, scegliendo quello che offre le condizioni più favorevoli ai loro interessi. E probabilmente si può aggiungere che sempre più gli Stati sovrani si comportano come il “braccio secolare” chiamato a dare effettività al mercato globalizzato internazionale e alle regole che esso, “dal basso”, escogita e impone come “diritto naturale dei mercati”. Ma è poi un fenomeno così nuovo? Nell’ordinamento liberale, dominato dall’idea dello “stato minimo”, da dove sorgeva l’ispirazione legislativa se non dal “mercato”? Dell’enforcement di quale “ordine” si occupavano le istituzioni pubbliche?

Ciò sta a dimostrare che né il diritto né gli Stati sono al tramonto. Quel che invece oggi segna una fase di evidente crisi è la politica. La trasformazione della gloriosa figura del “cittadino”, dotato del diritto di elettorato attivo e passivo, con quella del “consumatore” è un chiaro segnale del passaggio dalla sfera pubblica dominata dalla politica e quella privata del “mercato”. Ed anche la romantica filosofia dei diritti umani cosmopoliti tutelati fuori e contro gli Stati, a prescindere dalla “cittadinanza”, è orientata in fondo ad una visione della società svuotata delle politica.

La politica – si dice da sempre – è l’arte di governare la società, e governare significa metaforicamente (come dice il glorioso Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani) “reggere il timone dello Stato, e fra le commozioni politiche procurare ai popoli la maggiore sicurezza e prosperità possibile”. Le “commozioni politiche” sono i conflitti sociali e d’interesse, tra i quali chi governa deve scegliere la rotta. La mistica del mercato “globale” e quella dei “diritti universali” negano la politica perché negano il conflitto. O forse ritengono che esso debba essere risolto prima che si aprano le porte d’accesso al mercato: con il filo spinato, i cavalli di frisia, il pattugliamento dei confini, come una volta.

 



[1] F. GUIZOT, Histoire parlementaire de Franc: recueil complet des discours prononcés, Vol.III, CXVI - Discussion sur la proposition de M. Ducos, relative à l'extension des droits électoraux (Chambre des députés, séance du 15 février 1842), 554 ss.,  561.

[2] «Ce qu’on a appelé de tout temps une loi d’exception, c’est une loi temporaire qui déroge au droit permanent du pays. La loi sur l’état de siége n’avait rien de semblable; c’était, je le répète, le droit commun du pays, dans un certain nombre de cas détereminés; cette législation avait été constamment appliquée, elle existait en fait comme en droit» : Historie parlementaire cit., vol. II, XLVI. - Discussion sur un projet de loi relatif à l'état de siége. (Chambre des pairs, séance du 16 février 1833.) 94 ss., 101. La «normalità » dello strumento aveva colpito anche Marx, che con sarcasmo osservava: “Gli avi dei repubblicani dabbene avevano fatto fare al loro simbolo, il Tricolore, il giro dell’Europa. I loro epigoni fecero anch’essi un’invenzione, che si aprì da sé il cammino per tutto il continente, per ritornare in Francia con sempre rinnovato amore. Questa invenzione si chiama ‘stato d’assedio’, invenzione eccellente, applicata periodicamente in ognuna delle crisi che si succedettero nel corso della Rivoluzione francese”: Il 18 Brumaio cit., 74.

[3] Secondo la nota tesi di Walter Benjamin, su cui cfr. G. AGAMBEN, Stato di emergenza, Torino 2003, 74 s.

[4] È la nota analisi di E. FORSTHOFF, Stato di diritto in trasformazione, Milano 1973, 64 s.

[5] B. CONSTANT, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819).

[6] F. de VITORIA, Relectio de Indis (1539), I 3, 1 (La questione degli indios, Bari 1996, 77 ss.).

[7] Almeno nella lettura che ne offre P. ROSANVALLON, Le libéralisme économique - Histoire de l'idée de marché, Paris 1989.

[8] Cfr. per esempio, tra gli scritti più recenti, Deficit democratico, istituzioni non-maggioritarie ed il paradosso dell’integrazione europea, in “Stato e mercato” 2003, 3 ss.

[9] Esplicito in tal senso F. ZAKARIA, Democrazia senza libertà in America e nel resto del mondo, Milano 2003, spec. 317 ss.

[10] Così F. MERUSI, M. PASSARO, Le autorità indipendenti, Bologna 2003, rispettivamente 10 e 98.

[11] Contro i diritti umani, Milano 2005.

[12] Who Is the Subject of the Rights of Man?, in 103 “South Atlantic Quarterly”, 297 ss.

[13] Vedi però ora la sentenza citata alla nota 19.

[14] Sentenza Sison del 26 aprile 2005 (T‑110/03, T‑150/03 e T‑405/03).

[15] …se non per ciò che riguarda le norme fondamentali del diritto internazionale appartenenti allo ius cogens): cfr. sent. Kadi e Yusuf e Al Barakaat del 21 settembre 2005 (rispettivamente T-315/01 e T-306/01).

[16] Ord. Segi del 7 giugno 2004 (T-338/02), punto 38 della motivazione.

[17] Sent. Ayadi e Hassan del 12 luglio 2006 (rispettivamente T-253/02 e T-49/04).

[18] Cass., Sez. I pen., 15 giugno-19 settembre 2006, n. 30824.

[19] Solo di recente il giudice comunitario ha accettato di sindacare gli atti comunitari di attuazione della risoluzione del Consiglio di Sicurezza quando essi non siano espressione di un potere vincolato, ma comportino un margine di valutazione discrezionale: in questo caso le istituzioni comunitarie non possono derogare alle garanzie che tutelano i diritti individuali, e in particolare il diritto di difesa nel procedimento decisionale (sia comunitario che nazionale) e il correlato diritto di agire di fronte agli organi giurisdizionali. Il Tribunale così giunge persino – evento più unico che raro - a dichiarare l’illegittimità un atto comunitario per violazione dei diritti fondamentali: sent. Modjahedines del 12 dicembre 2006 (T-228/02).