Roberto Bin

 

Nuovi Statuti e garanzie dei diritti

 

(Relazione al  Convegno Il governo degli interessi territoriali e i diritti dei cittadini – Torino 26 ottobre 2002)

 

1. Costituzione e scrittura dei diritti. Il mio compito è parlare dei diritti negli Statuti regionali. È un argomento complicato, soprattutto perché su di esso si addensano molti equivoci e, di conseguenza, non poca confusione. Spesso, infatti, parlando degli Statuti si evoca l’esperienza storica delle costituzioni, l’esperienza della scrittura della carta fondamentale di un sistema politico. Le costituzioni sono nate tutte scrivendo diritti. Quindi c’è quasi un’aspettativa che anche gli Statuti debbano occuparsi della scrittura di una tavola dei diritti e delle norme di principio che gli esprimono: e sappiamo tutti che in questo momento in molti Consigli regionali è di ciò che ci si sta occupando. Dal mio punto di vista, è semplicemente un errore.

Le costituzioni nascono con la scrittura dei diritti per una ragione molto semplice. Le costituzioni nascono tutte, proprio tutte da grandi traumi storici: guerre, rivoluzioni, crolli di regimi politici. Sulle macerie, la comunità si riconosce individuando una serie di principi, di valori, di garanzie, e si ricostituisce scrivendoli nella Costituzione. È logico che nell’atto costitutivo - si chiama ‘costituzione’ proprio per questo, in quanto atto fondante in cui si esaurisce il potere “puro”, la forza delle armi o delle masse, cioè il potere costituente, che, generando la costituzione, si trasforma in un potere costituito, in una comunità regolata in forme giuridiche – è logico che in quell’atto grande attenzione sia data a tutto ciò esprime i sommi principi della comunità e la tutela dei diritti che gli individui vantano nei confronti del potere costituito. Così è stato in tutte le costituzioni, così anche nella nostra costituzione.

Per gli Statuti vale lo stesso ragionamento? Si segue lo stesso percorso?

Nelle costituzioni la scrittura esprime e fissa gli interessi, i principi, i valori condivisi da tutte le parti che, accettando di convivere, si accingono a fondersi nella nuova comunità: l’idea è proprio che la nuova comunità si stabilizza nella scrittura dei diritti e dei principi costituzionali.

Tutto ciò ha un parallelo in quanto avviene nella scrittura degli statuti regionali? Esistono nelle Regioni valori così condivisi dalla comunità e, allo stesso tempo, così tipici, per cui la scrittura dei diritti salda la comunità di quella Regione e la differenzia dalle altre?

 

2. Perché è inutile scrivere princìpi programmatici negli Statuti regionali. A me sembra che la risposta sia ovviamente negativa. Negativa anche perché la scrittura di una costituzione è un momento magico, non è un momento che può essere artificialmente riprodotto. Pensiamo alla nostra costituzione, su cui per altro si sono scritte tante cose anche poco o punto condivisibili, debbo dire. Per esempio, una delle cose più frequenti e sbagliate che vengono scritte di solito è che la nostra costituzione è incoerente perché mette insieme principi inconciliabili, che non stanno insieme. Chi lo afferma, e sono in tanti, dimentica che tutte le costituzioni vengono scritte per questo, per mettere insieme i principi che le varie parti, che si coagulano nel nuovo Stato, vogliono mettere al riparo, proteggere dall’occasionale prevalere di questa o quella parte. La costituzione è come un frigorifero, ove si conservano, in uno scomparto sottratto all’azione della politica quotidiana, i princìpi e i diritti che stanno a cuore alle diverse componenti che esercitano il potere costituente. Ovviamente, come in un frigorifero non c’è coerenza tra il pesce, il burro, il latte e il formaggio, così in una costituzione non c’è coerenza tra la parte liberale, cattolica, socialista, ecc. Quello che in relazione al frigorifero si chiamerebbe “versatilità”, nella costituzione si chiama “pluralismo”: se non ci fosse bisogno di pluralismo, cioè di coesistenza di princìpi diversi, non ci sarebbe neppure bisogno di “conservarli” nella costituzione.

La nostra costituzione ha progettato il frigorifero, però, in una situazione irrepetibile. Il trauma che ha prodotto il crollo del potere costituito in precedenza ha segnato un momento di forte discontinuità rispetto al passato. I nostri costituenti, quando si sono messi a scrivere il testo comune, a riempire il comune frigorifero, erano separati dalla visione del loro futuro da un velo di ignoranza. Non si sapeva chi avrebbe vinto le elezioni del 18 aprile, non si sapeva chi avrebbe governato e che sarebbe rimasto all’opposizione: hanno lavorato in una situazione quasi mitologica, non di disinteresse ma di prudenza. Ed hanno perciò riempito il frigorifero per prepararsi ad ogni evenienza.

È riproducibile oggi questa situazione? Nelle nostre coordinate politiche, abbiamo ancora questo velo di ignoranza? Forse è rimasta l’ignoranza, ma il velo è caduto di sicuro.

Oggi non vedo nessuna comunità politica a livello nazionale e neppure regionale che riesca a discutere il futuro protetta da questo velo, e riesca ad esprimere in norme generali, astratte dal tempo e dalla contingenza, la parte migliore della propria filosofia. Quello che viene scritto oggi negli statuti regionali non è la fusione di una comunità, ma semmai la premessa di una spaccatura della comunità. Ogni parte politica, quando chiede di mettere qualcosa nello Statuto, sta in realtà movendo guerra, vuole semplicemente sferrare l’attacco, vuole marcare un punto ideologico che lo differenzi dall’altro, non sul piano filosofico, ma su quello della battaglia politica. E così scopriamo la sussidiarietà che si proietta sugli assi cartesiane, il problema della scuola, il problema del pluralismo nell’informazione, la famiglia legittima, e così via.

Ha senso tutto questo? Serve?

Secondo me è evidente che non serve, non serve proprio a niente. La parte più debole dei nuovi Statuti sarà forse proprio nella scrittura dei diritti. Ciò per una somma di due fattori: da un lato l’ideologizzazione assurda di un documento che non ha l’impatto emotivo che può avere una Costituzione, e che dovrebbe guardare a tutt’altre cose (e poi vedremo a cosa); dall’altro la povertà di significato dei principi che si vorrebbero professati. La ragione è semplicissima, e spero che emerga con chiarezza da queste semplici riflessioni.

Primo: se le norme di principio sui diritti servono a coagulare la comunità, ad esprimerne “l’identità” regionale (tanto che le bozze di statuto parlano di continuo di “identità toscana”, “identità calabrese”, ecc.), noi dovremmo supporre che, non in un mondo teorico e “altro”, ma qui, oggi, in Italia le “comunità” si dividano per corsi d’acqua e crinali montani, e non per ragioni diverse, politiche, culturali, etniche ecc. Così certo non è: per cui insistere su questo profilo nel migliore dei casi non serve a niente, nel peggiore serve a “scavare” solchi artificiali nella comunità nazionale (ammettendo che ne esista una). Un tentativo, forse inconsapevole, di “belgizzare” l’Italia.

Secondo: se esistessero valori e principi propri delle singole comunità regionali (anche solo di alcune di esse), non si capirebbe perché in tutte le Regioni si discute delle stesse contrapposizioni, in tema di diritti (quanto “pubblico” e quanto “privato” ci voglia nella sanità o nella scuola, o il pluralismo dell’informazione per esempio).

Terzo: se – come ho sentito dire a più di un autorevole esponente regionale – gli Statuti sono l’occasione per aggiornare il catalogo dei diritti sanciti in Costituzione (che sarebbe antiquata perché non parla di mercato, televisione ed immigrazione: immaginiamoci allora che cos’è quella nordamericana, che tace persino sul problema della schiavitù!), dovremmo riflettere (oltre che sull’utilità di avere, accanto all’elenco della Costituzione, quello della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quello della Carta dei diritti, e tutti gli altri di fonte internazionale, altri 15 elenchini su base regionale) sull’uso pratico che si farà di queste norme statutarie. Di questo mi vorrei occupare ora.

 

3. Due teoremi sull’inutilità delle norme programmatiche negli Statuti. Parlando altre volte di queste cose, un pò sul serio e un pò sul faceto, ho avanzato due teoremi, che vorrei passassero ai posteri come il primo e il secondo teorema di Bin sulla geometria statutaria.

Il primo teorema è semplice, e come tutti i primi teoremi è banale: afferma che qualsiasi legislatore quando non sa che cosa fare, cioè non sa come risolvere un problema, pone una norma programmatica di principio. È banale perché tutti sappiamo che è così; ciò non toglie che sia preoccupante, perché il legislatore i problemi dovrebbe risolverli, non dovrebbe limitarsi ad enunciarli ed elencarli, come invece sempre più spesso fa. A chi spetta il compito di risolverli? Volendo assumere un’espressione severa, potremmo dire che se una legge, ma anche uno statuto, incomincia enunciando i problemi dall’immigrazione, della scuola privata o della semplificazione amministrativa, senza porre gli strumenti per risolverli, si tratta di una violazione delle regole della democrazia rappresentativa: la rappresentanza elettorale conferisce un “mandato”, un potere – dovere di risolvere, non di inventariare i problemi dei rappresentati; se invece la legge o lo statuto pone gli strumenti per risolvere i problemi, a che serve enunciarli e inventariarli?

Il nostro costituente, che sapeva fare le cose (e tra l’altro ha anche il pregio di aver saputo scriverle in italiano, come ormai non si usa più) non si è mai sognato di enunciare il principio di legalità, il principio divisione dei poteri, il principio di rappresentanza: non si è sognato di elencarli per il semplice fatto che lo stato di diritto, la separazione dei poteri, la legalità trovano nella costituzione strumenti, congegni, regole operative, sono cioè non enunciati in astratto ma princìpi attuati e resi concreti.

 

Il secondo teorema è un po’ più forte, forse anche un po’ sorprendente, ma è lo stretto derivato del primo. Potrebbe essere enunciato così: quando un legislatore qualsiasi, anche statuente, introduce su un certo problema una norma di principio, questa norma di principio sarà senz’altro disomogenea e conflittuale con il resto dello statuto o della legge. Dimostrazione: se il legislatore de quo il problema non lo sa risolvere, o non conosce gli strumenti di ingegneria per risolvere quel problema, tutte le norme da lui poste, che sfiorano gli argomento connessi con quel problema, saranno ispirate a principi vecchi, potenzialmente in contrasto con il principio enunciato.

Esercizio: prendiamo le bozze di statuto che stanno girando per l’Italia e prendiamo tre princìpi tra i più frequenti: sussidiarietà, parità, semplificazione. Proviamo a leggere cosa segue all’enunciazione del principio.

Nella prima pagina dello Statuto si parla di sussidiarietà, come principio di organizzazione dei rapporti tra Regione e enti locali; ma dietro, alla pagina successiva, troviamo la norma sulle procedure per costituire gli enti regionali: il principio è enunciato con fragore, come se orami la Regione fosse in procinto di spogliarsi di qualsiasi funzione di amministrazione attiva: ma nelle pagine che seguono, dove si parla del ruolo dell’amministrazione regionale, della sua organizzazione, dei rapporti tra fonti regionali e autonomia locale, dell’istituzione di enti strumentali della Regione, tutto muove in direzione opposta. In che rapporto sta l’istituzione di enti regionali con il principio di sussidiarietà “verticale”? Di tendenziale contrasto. Lo “statuente” non sa strumentare, e così si contraddice.

Invece lo statuto potrebbe incominciare a creare alcuni paletti. Inneggiare alla sussidiarietà non significa nulla, e poi la sussidiarietà non significa affatto che tutti i poteri amministrativi devono andare verso il basso ed essere intestati ai Comuni. Anzi, la sussidiarietà nasce non come un problema attinente ai rapporti tra il palazzo della Regione, il palazzo dello Stato, il palazzo del Comune, ma ai diritti dei cittadini.

Perché allora lo Statuto, invece di declamare slogan programmatici piuttosto vuoti di significato, non pensa di istituire diritti dei cittadini e corrispondenti obblighi per il legislatore regionale?

Pensate il significato che avrebbe una norma che dicesse “i cittadini del Piemonte hanno il diritto di rivolgersi al proprio Comune per qualsiasi pratica amministrativa”: così formulato, il diritto dei cittadini si farebbe largo nelle aule del TAR, come si sono fatti largo tutti i diritti predicati dalla legge sul procedimento amministrativo, diritti di accesso, di trasparenza, e così via. Quella sarebbe una norma che traduce, fa fare un passo avanti al principio di sussidiarietà, e lo fa condizionando poi la legislazione successiva. Lo so, poi nascerebbe un problema organizzativo molto grosso: ma tutti i diritti creano problemi organizzativi per la burocrazia, che per questo non li ama. Ma non volevamo uno Statuto che scrive “i diritti”? Oppure solo uno Statuto che scrive parole vuote di ogni significato?

Secondo esempio, la parità nella rappresentanza elettorale. Penso che potremo raccogliere in un libricino le “predicazioni” degli statuti in tema di parità della donna nella rappresentanza politica. Predicazioni ipocrite, come quasi tutte le predicazioni: stiamo assistendo ad una riforma dell’art. 51 Cost., in nome della parità, che non cambierà nulla. Si sono fatte delle riforme del Titolo V e degli statuti delle Regioni speciali predicando la parità, ma non è cambiato nulla. E sì che non ci vuole mica tanto a cambiare sostanzialmente le cose. Proprio la scrittura degli Statuti regionali (e di quelli degli enti locali) potrebbe essere l’occasione per incominciare a sbozzare qualche strumento, avviando una sperimentazione che ovviamente dovrebbe trovare il coronamento nella legislazione dello Stato. Pensiamo a meccanismi molto semplici che agiscono sui contributi e i rimborsi delle spese elettorali: se lo Statuto dicesse che, sino al raggiungimento dell’obiettivo della parità, la legge elettorale deve prevedere che i contributi collegati ai candidati e agli eletti di sesso femminile sono del doppio, del triplo o del quadruplo dei contributi per i candidati e gli eletti maschi, qualcuno potrebbe dubitare dell’effettività di una tale misura nello stimolare l’interesse dei partiti a candidare ed eleggere le donne? E se poi norme statutarie imponessero ai regolamenti interni delle assemblee elettive di prevedere che nella distribuzione delle risorse ai gruppi politici un premio consistente deve essere riconosciuto ai gruppi che raggiungono dei livelli di decenza sulla strada della parità? E che nella distribuzione delle risorse le donne elette devono contare l’X% in più degli uomini? E se persino nella distribuzione della risorsa tempo, nella propaganda elettorale come nel contingentamento dei tempi di discussione nelle assemblee, si privilegiassero con norme analoghe le donne?

Non credo che si possa dubitare dell’efficacia di questi strumenti. Ci sarà certo da discutere di come quantificare l’X nella formula promozionale, ben sapendo che c’è un valore oltre al quale le cose sono destinate a cambiare, perché i “premi” diventerebbero decisivi e nessuno potrebbe permettersi di rinunciarvi. Assistendo alla discussione su come quantificare gli X finalmente avremo una misura matematica della volontà politica di risolvere il problema. Perché qui sta il vero nodo: troppo facile è continuare a produrre princìpi e norme programmatiche con cui infarcire Statuti, leggi e persino la Costituzione, ben sapendo che nulla essi produrranno.

Naturalmente la risposta potrebbe essere, ma lo statuto è uno statuto, lo statuto non può essere una disciplina analitica della parità, la disciplina analitica del rapporto con gli enti locali. È ovvio, ma lo statuto dovrebbe porre dei paletti, dovrebbe incominciare a scrivere non l’enunciazione del principio, ma quelle che sono le regole minime necessarie ed inderogabile che devono poi essere riprodotte negli atti successivi.

Terzo esempio, la semplificazione. Forse in nessun altro contesto come in questo si può dimostrare la correttezza del secondo teorema. Pochi s’accorgono della sottile ironia che si annida nei proclami che le bozze di Statuto dedicano al “principio di semplificazione”. Ma come – sbottò una volta Sorace – parlate se volete del principio di “semplicità”, ma non per favore di quello di semplificazione. Ed ha ragione: la “semplificazione” – con i suoi collegati, la delegificazione e i testi unici – nasce da un meccanismo istituzionale impazzito, che produce un’inarrestabile propensione alla complicazione del sistema legislativo e del sistema amministrativo. La semplificazione denota meccanismi (per lo più troppo complicati, a causa anche del quadro istituzionale dato) che dovrebbero ogni tanto mettere un po’ d’ordine nei due sistemi. Lo Statuto, se volesse servire a qualcosa, dovrebbe preoccuparsi non di proclamare il principio di semplificazione né istituzionalizzare i meccanismi che rimediano alla complicazione prodotte: dovrebbe fare il suo mestiere, cioè disegnare istituzioni che non producono complicazione. Ciò significa “progettare” strutture tecniche che intervengono nel procedimento legislativo, anche limitando la “sovranità” dei legislatori di tradurre in proposizioni normative tutto ciò che capita loro in testa (prima causa di complicazione), di fare leggi che si sovrappongono alle altre ignorandole (seconda causa), di istituire meccanismi e procedimenti amministrativi escherianamente impossibili (terza causa), ecc. Chi ha detto, per esempio, che saremo condannati a vita a pubblicare le leggi una ad una sul giornale ufficiale, e non invece produrre soltanto testi di legge aggiornati? Nessuno, spetta proprio allo Statuto deciderlo: lo Statuto che proclama la semplificazione come principio fondamentale della regione, e non cambia il procedimento legislativo e le modalità di pubblicazione degli atti normativi dimostra la adamantina validità del secondo teorema di Bin.

 

4. Tra princìpi dannosi e diritti utili. Vorrei prevenire – in conclusione – due possibili obiezioni. La prima è che i princìpi, contenuti in un atto fondamentale come lo Statuto della regione, hanno una funzione che non può essere letta solo con gli occhiali del giurista, ma sono un fatto culturale, un messaggio, un atto retorico. Quando il nostro costituente ha scritto la costituzione – ecco che riaffiora la similitudine - non ha pensato soltanto ad affidarlo all’applicazione dei giudici, ha pensato che questa costituzione fosse insegnata nelle scuole, fosse discussa nelle fabbriche, nei partiti politici. Ma ogni atto retorico ha un uditorio: qual è l’uditorio degli Statuti? Verranno letti nelle scuole, discussi nelle famiglie, meditati nelle assemblee parrocchiali? Io ho l’impressione che gli statuti saranno letti soltanto dai Consiglieri regionali. Se è così, perché i Consiglieri Regionali sentirebbero il bisogno di rivolgersi a se stessi, se non per celare qualcosa dietro le parole dello Statuto? In effetti sappiamo tutti cosa si cela dietro alle discussioni sui princìpi statutari: il problema della forma di governo, la paura di perdere di peso politico nei confronti del Presidente della Regione, il desiderio di restaurazione di vecchi sistemi elettorali e di vecchi equilibri istituzionali. Gli Statuti inneggiano alla partecipazione popolare, ma tutto si sta tramando per arginare il ruolo del referendum, persino di quello “oppositivo” previsto come possibile snodo del procedimento di approvazione dello Statuto stesso. Si vorrebbe salvare la faccia con gli elettori chiamando “elezione diretta” qualcosa che non lo è (come la indicazione del candidato nel “Tattarellum”) o togliendo all’elettore il sacrosanto diritto di punire chi fa cadere il governo regionale o chi governa male (e preferisce dimettersi prima del redde rationem elettorale); e ci si avventura a interpretare il voto clamoroso del referendum in Friuli-Venezia Giulia come se la gran massa di astenuti potesse nascondere il significato del voto espresso dai cittadini che si sono recati alle urne, e significasse fiduciosa delega in bianco al Consiglio regionale di definire la forma di governo (e non preoccupante disgusto per problemi di assetto istituzionale del tutto incomprensibili). Che questo bisogno di comunicazione autoreferenziale a livello di sommi princìpi non nasconda solo cattiva coscienza?

La seconda obiezione potrebbe rimproverarmi di ignorare la storia costituzionale italiana e il profondo, vasto seguito giurisprudenziale che hanno avuto alcuni princìpi costituzionali, a partire dal principio di eguaglianza. È vero, c’è anche questa speranza, o questo rischio.

È una speranza se gli Statuti riusciranno ad innovare rispetto l’andamento istituzionale del passato introducendo “diritti” nuovi. Ho suggerito in precedenza qualche esempio a proposito della sussidiarietà e della parità. Ma è una speranza se, e solo se la “ingegnerizzazione” dei diritti sarà cauta e consapevole, ossia se i princìpi saranno non vagamente annunciati, ma tradotti in congegni capaci di funzionare in maniera prevedibile. Se lo Statuto affermasse, per esempio, che ai candidati o ai consiglieri di sesso femminile dovrà essere corrisposto un “contributo” non inferiore al 500% di quello assicurato ai candidati o consiglieri di sesso femminile, potremmo forse calcolare in quanti anni si raggiungerà la parità nelle candidature e nelle elezioni consiliari.

È un rischio invece, se gli Statuti perderanno di vista gli effetti potenziali delle proprie affermazioni. Mettiamo, per esempio, che lo Statuto voglia assicurare un elevato livello di garanzia dei diritti, e in particolare dei diritti cosiddetti sociali. Può lo statuto fissare regole, standard, pretese relativi ai livelli essenziali dei diritti?

Noi sappiamo che fissare i livelli essenziali dei diritti è competenza della legge dello Stato, anche se ancora non sappiamo in cosa consista esattamente questa competenza e quale ne sia la ripercussione sul piano del coordinamento finanziario. Ma possiamo immaginare che lo statuto dica in una determinata Regione i livelli essenziali dovranno essere più alti di quelli fissati dallo Stato, o che determinate prestazioni dovranno essere assicurate anche ai non cittadini o dovranno essere del tutto gratuite. La “gestione” della semantica dei principi contenuti dagli statuti da chi sarà fatta? Dal TAR e dal Consiglio di Stato? Se noi pensiamo che i princìpi dello Statuto non siano del tutto inutili, ma che qualche significato giuridico possa essere loro dato, allora la tendenziale contraddizione tra questi principi e il resto della legislazione può portare a delle conseguenze serie, imprevedibili. Ma anche l’incauta assunzione di vincoli potrebbe creare situazioni assai difficili da gestire. Come dire: c’è quasi da augurarsi che nessuno pensi davvero di prendere sul serio le norme di principio che gli Statuti si avventureranno a scrivere.