Riforme “politiche” e “technicalities” giuridiche

(Editoriale di “Le Regioni” 4-2005)

 

1. Se ci si avventura a tracciare un bilancio provvisorio dell’attuazione delle riforme costituzionali che hanno investito l’assetto delle Regioni a partire dal 1999, è difficile non cedere all’impressione che di fatto non sia poi cambiato moltissimo. Non molto almeno se si tiene a mente la grande forza simbolica contenuta in quelle riforme: si pensi al significato che esprimeva il riconoscimento dell’autonomia statutaria delle Regioni e della possibilità che esse scegliessero la propria “forma di governo” e la legge elettorale; alla rivoluzione concettuale che era implicita nel rovesciamento dell’ordine di enumerazione delle competenze legislative, che avrebbe dovuto fare della legislazione statale l’eccezione, e non più la regola; alle enormi ripercussioni che avrebbe dovuto avere la “pariordinazione” dei soggetti che compongono la “Repubblica” e la priorità che il principio di sussidiarietà avrebbe dovuto attribuire ai Comuni nell’assegnazione delle funzioni; alla netta cesura che avrebbe dovuto segnare la cancellazione di ogni riferimento all’interesse nazionale e dei controlli preventivi – l’uno e gli altri segni inequivocabili della supremazia dello Stato nell’assicurare l’unità politica e giuridica dell’ordinamento.

Queste e tante altre novità sono state per lo più salutate dai commentatori – non importa se con compiacimento o preoccupazione – come una svolta radicale nel sistema dei rapporti tra centro e periferia qual era regolato dal vecchio Titolo V della seconda parte della Costituzione. Ma oggi possiamo dire che la svolta si sia compiuta davvero e sia stata netta? Non lo credo e vorrei invitare il lettore a riflettere sulle cause di questo almeno apparente insuccesso. Le cause, perché mi pare evidente che i fattori che hanno concorso a smorzare l’impatto delle riforme siano diversi e addebitabili a tutti gli “attori” che sono stati impegnati nel processo di attuazione della riforma.

Anzitutto vi è una causa “fisica”, imputabile cioè alla meccanica del mutamento costituzionale. Le riforme costituzionali non cadono nel vuoto, ma planano su un tessuto normativo complesso e restano impigliate nella sua vischiosità. In tutt’altro contesto Walter Leisner parlò di interpretazione della Costituzione “conforme alle leggi” per indicare il processo di compenetrazione che i nuovi principi innovativi subiscono da parte delle leggi previgenti: cambiare queste ultime richiede un processo necessariamente lungo e, nel frattempo, sono i nuovi princìpi a subire un processo di rallentamento interpretativo per poter calare senza un impatto devastante sulla legislazione in vigore. Infatti le prime sentenze della Corte dopo la riforma del Titolo V sono tutte ispirate all’incontestabile principio di continuità dell’ordinamento – principio poi ribadito dalla legge 131/2003. Ci sarebbero potute essere delle alternative? Non credo proprio, se ragioniamo dal punto di vista dei giudici, i quali non possono che essere i custodi della coerenza, armonia, continuità dell’ordinamento, avendo come regola deontologica quella di ricomporre fratture, incoerenze e contraddizioni per distillare l’unica norma del caso. Cosa sarebbe accaduto se la Corte avesse preso sul serio l’idea, che pure qualcuno in origine aveva avanzato, che l’attribuzione di tutte le competenze amministrative ai Comuni dovesse avere “effetto diretto”, quasi fosse una norma di trasferimento delle funzioni? Oppure avesse dichiarato che tutte le leggi e i regolamenti dello Stato attualmente in vigore dovevano ritenersi abrogate dalla nuova disciplina della potestà legislativa?

Naturalmente non tutte le “misure di adattamento” hanno un effetto così evidente, ma non per questo sono meno rilevanti, anzi. Vi sono due esempi di “vischiosità” su cui meriterebbe riflettere, l’uno riguarda la vexata quaestio dell’interesse nazionale, l’altro l’assai meno percepita restaurazione della antica logica del riparto della potestà legislativa. Due episodi davvero istruttivi.

 

2. Tutti conoscono il ricco e acceso dibattito che si è subito sviluppato attorno alla cancellazione di ogni richiamo all’interesse nazionale nella riforma del 2001: e a tutti è ben chiaro come la Corte, pur avendo attentamente evitato qualsiasi riferimento espresso alla vecchia formula, abbia però inglobato nel nuovo Titolo V molti degli strumenti che, in costanza del vecchio testo, erano stati elaborati esplicitamente intitolandoli all’interesse nazionale. È importantissimo, com’è ovvio, che la Corte abbia negato che l’interesse nazionale sia un titolo autonomo di giustificazione dell’intervento dello Stato, ma non poteva certo accettare che le esigenze unitarie, che rimangono “avvitate” all’art. 5 Cost.,  perdessero qualsiasi strumentazione operativa. Ciò non si manifesta soltanto nella clamorosa riscoperta del risvolto legislativo del principio di sussidiarietà operato dalla sent. 313/2003: a mio avviso per nulla sorprendente, perché difficilmente si può seriamente ipotizzare che si possa – per usare le parole della Corte - “limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principî nelle materie di potestà concorrente”, dato che si arriverebbe così a “svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze”.

Ma oggi la giurisprudenza costituzionale ci porta più lontano ancora dal disegno della riforma costituzionale. Infatti, come è accaduto in passato, si è imposta una lettura anche della nuova ripartizione delle attribuzioni legislative che ha largamente sminuito la funzione regolativa dei tipi o livelli di potestà legislativa delineati dall’art. 117 e degli elenchi di materie in esso contenuti, per sostituire ad essi un’analisi degli interessi sottesi in concreto all’oggetto della legge sottoposta al giudizio di legittimità. L’invito esplicito è a valutare se e in quale misura essi comportino una disciplina unitaria o si prestino a una regolazione “frazionata”. Si tratti di legge statale o di legge regionale, la questione di individuare la “materia” coinvolta e di attribuirne di conseguenza la titolarità passa in secondo piano rispetto all’analisi del “livello” degli interessi coinvolti. In tutte (o quasi) le materie di competenza “esclusiva” dello Stato di cui si è sin qui occupata, la Corte ha scoperto la natura di “non materie”, di “materie trasversali”, “materie – funzione”, “materie – valore”: ogni volta, dunque, di esse ha ammesso la capacità di inserirsi nei settori attribuiti alle Regioni al prezzo, però, di perdere proprio la originaria caratteristica della “esclusività”. Lo Stato penetra nel settore di attribuzione regionale per disciplinare solo gli aspetti collegabili agli interessi “non frazionabili”, comprimendo, ma mai escludendo la competenza della Regione a legiferare in materia. E, per converso, alla Regione è consentito di prolungare il suo raggio di azione oltre ambiti di propria competenza sino ad entrare nelle materie “esclusive” ogni qual volta l’interesse da essa perseguito sia meritevole di apprezzamento o perché ricollegabile ad un “valore costituzionale” o perché risponde agli interessi della comunità politica di cui la regione è rappresentante. L’effetto è sorprendente: nell’uno come nell’altro caso i rapporti che si creano tra legge statale e quella regionale ricalcano quelli tipici della potestà concorrente. La Corte ritiene che la legge regionale non possa modificare i “punti di equilibrio” tra interessi costituzionalmente protetti, quali risultano definiti dalle leggi dello Stato: la Corte ha ritenuto che il punto di equilibrio individuato dalla legge dello Stato costituisca un “principio fondamentale” che limita le scelte legislative delle regioni (ciò è reso esplicito in materia di ambiente dalle sent. 307/2003 e 331/2003). Ma è chiaro che allora perde importanza sia la “esclusività” delle attribuzioni dello Stato, sia la “residualità” delle competenze regionali per le materie non enumerate, con il risultato che tutto viene “schiacciato” sullo schema tradizionale della ripartizione tra legislazione statale di principio e legislazione regionale di dettaglio.

Lo schizzo tracciato è ovviamente molto semplificante, ma è davvero difficile trovare nella giurisprudenza costituzionale del dopo riforma sentenze che accreditino “competenze esclusive” dello Stato o “competenze residuali” delle Regioni in forma, per così dire, “pura”, non attenuata cioè dalla prevalente attenzione per il “livello degli interessi” coinvolti e dai tipici ragionamenti condotti in termini di “bilanciamento” e “proporzionalità”, che sono caratteristici della giurisprudenza attenta agli interessi. La vecchia logica della qualificazione degli interessi ha nuovamente soppiantato la logica dell’elencazione delle materie.

 

3. È vano chiedersi se la Corte abbia “tradito” la riforma o se avrebbe potuto praticare una strada alternativa. I giudici hanno dovuto diminuire l’angolo d’impatto della riforma sulla legislazione vigente, e questo, come è ovvio, ha consentito un atterraggio senza troppi sussulti, con la conseguenza inevitabile di far perdere alla riforma l’energia cinetica. La domanda dovrebbe essere un’altra: che senso ha che il legislatore costituzionale continui a praticare sempre la stessa strada degli elenchi di materie, quando tutta la esperienza italiana, quella comunitaria e quella comparata ci mostra con chiarezza che quella strada non porta lontano, ma si disperde in campi tracciati da ben altri criteri? E poi è il legislatore che avrebbe dovuto operare diversamente ed occuparsi di come la “sua” legge è destinata ad essere applicata, sia il legislatore della riforma costituzionale che quello ordinario che gli è seguito.

Quanto al primo, la revisione costituzionale del 1999 conteneva una norma transitoria che ha determinato l’impatto verticale della riforma sul sistema istituzionale regionale, imprimendovi un solco incolmabile (che infatti gli Statuti non hanno cancellato: ma su ciò si ritornerà). La riforma del Titolo V non è stata corredata invece da alcuna norma transitoria che ne disciplinasse l’attuazione, abbandonandola implicitamente nelle mani del legislatore ordinario o, in subordine, in quelle della Corte costituzionale (detto per inciso, la riforma costituzionale attualmente in fase di approvazione è al contrario accompagnata da norme transitorie che sembrano clausole testamentarie destinate a rimandarne l’esecuzione alle generazioni future). Due tecniche completamente diverse di pianificazione dell’ “atterraggio” della riforma, che disegnano percorsi assai distanti lungo i quali hanno dovuto incamminarsi i legislatori ordinari. Nel primo caso la riforma ha voluto raggiungere subito il suo principale obiettivo (l’elezione diretta del Presidenti delle Regioni), spinto sia dall’urgenza (l’imminenza delle elezioni regionali) che da una sana diffidenza nei confronti dei Consigli regionali, a cui doveva essere affidata la formazione dei nuovi Statuti; nel secondo caso la riforma non si è minimamente posta il problema della sua attuazione, affidandola completamente al legislatore ordinario senza neppure imporgli limiti di tempo e altre condizioni. Per un verso o per un altro, gli organi legislativi delle Regioni e dello Stato sono stati arbitri dell’attuazione delle due riforme ed è a loro che va attribuita la maggiore responsabilità dello scarso impatto che esse hanno avuto.

La legge statale per l’adeguamento dell’ordinamento alla riforma del Titolo V (la legge 131/2003, la c.d. “legge La Loggia”) è intervenuta con più di un anno e mezzo di ritardo dall’entrata in vigore della riforma: in parte le sue norme erano già state anticipate dalla giurisprudenza della Corte, in parte cercavano di rinviare i problemi a successivi atti legislativi delegati, in parte aggiungevano nuova confusione alla già notevole confusione della legge costituzionale; di essa – colpita anche da dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale – si può dire che non sia rimasta praticamente alcuna traccia sul piano operativo. Nel contempo Governo e Parlamento hanno legiferato secondo il più centralistico degli stili legislativi della tradizione italiana, ignorando la presenza delle Regioni, l’autonomia degli enti locali, le innovazioni della riforma. Nessuno scostamento dagli usi passati nei modi di preparare la legge finanziaria, nel prevedere fondi settoriali affidandone la gestione ai ministeri, nel metodo di funzionamento delle Conferenze, persino nello stile del “controllo” sulle leggi. Il fatto (enorme, sotto il profilo dell’impatto simbolico) che non ci sia più il controllo preventivo sulle leggi regionali, ma solo l’impugnazione successiva, non ha cambiato gli atteggiamenti e le procedure burocratiche che erano state disegnate al tempo del prefetto Gizzi: l’atteggiamento del Governo è ancora più severo di allora (persino con gli amici!) e lo spinge ad impugnare sistematicamente ogni tentativo regionale (e non ve ne sono poi così tanti) di introdurre qualche novità nella legislazione vigente. Ricorsi campati per aria, deliberati spesso senza alcuna attenzione per la motivazione (mettendo così in manifesta difficoltà l’Avvocatura dello Stato) si sono riversati nella cancelleria della Corte, sommandosi a tutti quelli promossi dalle Regioni. Non c’è materia che la c.d. devolution di Bossi o il successivo disegno di riforma proposto dal Governo attribuisca alla competenza “esclusiva” delle Regioni ordinarie su cui il Governo non abbia nel contempo bloccato le leggi regionali, sposando la più restrittiva e centralistica delle interpretazioni. Stiamo persino assistendo alla reincarnazione della antica pratica di contrattazione con gli uffici regionali per ottenerne promesse di emendamento in cambio di promessa di non impugnazione, con la non piccola differenza che è di una legge in vigore che ora si sta trattando, legge che nel frattempo dovrebbe produrre già i suoi effetti. E che dire della totale paralisi nell’attuazione della riforma dell’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali, promessa (ma non attuata, ha detto la Corte) dall’art. 119 Cost.?

Né i legislatori regionali si sono mostrati migliori. La “stagione degli Statuti” sta proseguendo stancamente, ha scavalcato un’intera legislatura, ma due regioni ordinarie su tre sono ancora lontane dall’aver ultimato il percorso. E se poi guardiamo dentro agli Statuti approvati, vi troviamo tutto meno che il tentativo di applicare le riforme, di migliorare la funzionalità della macchina decisionale regionale, di risolvere piccoli e grandi problemi che hanno ostacolo i buoni rapporti tra legislativo ed esecutivo, il funzionamento efficiente del Consiglio e delle Commissioni, il rapporto tra le fonti, il rapporto con gli enti locali. Anzi non c’è Statuto che non abbia ceduto alle lusinghe della restaurazione, di una malintesa difesa di mitologiche prerogative assembleari, che quello stesso Consiglio non aveva in passato mai esercitato, in verità.

 

4. Non c’è proprio da meravigliarsi se le riforme non sembrano aver inciso ancora una traccia profonda nel sistema istituzionale italiano. Proposte, approvate, osteggiate, modificate, attuate o derogate sempre e solo per ragioni di simbologia politica esse oggi rivelano in toto il profondo abisso che separa l’attenzione del sistema politico (statale e regionale, la saldatura in questo caso è perfetta) dagli aspetti “tecnici” della disciplina dei congegni istituzionali. Si sarebbe potuto immaginare, altrimenti, che a qualcuno venisse in mente di inserire nel disegno di riforma “federalista” dell’attuale Titolo V una frase che, a compendio di un sistema sempre più complicato di riparto di funzioni, dica che il Governo può impugnare le leggi regionali che ritiene contrarie all’interesse nazionale di fronte al Parlamento in seduta comune, il quale le può “annullare”: se non confessando candidamente di ignorare trent’anni di giurisprudenza costituzionale faticosamente costruita attorno al concetto di interesse nazionale e al suo modo di operare (nonché tutto quello che si è scritto attorno al Parlamento in seduta comune, alla natura dell’organo, al concetto di ‘annullamento’ ecc.)? E si sarebbe potuto immaginare che gli Statuti - che spesso esordiscono con una prosa che forse sarebbe più adatta alle guide del Touring - vengano poi impugnati “selettivamente” dal Governo per le ragioni più sorprendenti, per esempio perché la Regione minaccia di perseguire, tra le finalità prioritarie, «il rispetto dell’equilibrio ecologico, la tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale» o «la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico»? Oppure che lo stesso Governo che aveva impugnato una legge lombarda perché attribuiva l’emanazione di un regolamento alla Giunta, impugnasse poco dopo lo Statuto calabrese perché riservava un certo tipo di regolamenti al Consiglio? Od infine che il Governo reagisca alla promulgazione - decretata in applicazione di una specifica disposizione di legge regionale (passata del resto indenne al “controllo” governativo) - di uno Statuto dichiarato parzialmente illegittimo dalla Corte costituzionale, impugnandolo nuovamente in quanto “legge regionale” ex art. 127, dopo averlo impugnato preventivamente ex art. 123, anziché sollevare conflitto di attribuzione contro l’atto di promulgazione, così com’era sempre accaduto in passato in relazione alle leggi regionali?

L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma la morale resterebbe la stessa. Le “technicalities” giuridiche sono spesso sofferte dai politici come inutili complicazioni: è solo un profilo dello scarso rispetto che nutrono nei confronti del principio di legalità, ma anche di un’educazione che porta a apprezzare ciò che conferisce “visibilità” piuttosto che ciò che produce risultati. L’importante è che le riforme vengano annunciate, magari approvate: ma c’è poi proprio bisogno che vengano anche attuate?