“Regionalismo differenziato” e utilizzazione dell’art. 116.3 Cost.

Alcune tesi per aprire il dibattito

Roberto Bin

 

 

1.     Il regionalismo differenziato può significare:

a.     Che le Regioni abbiano formalmente poteri diversi

b.     Che le Regioni di fatto si differenzino, utilizzando diversamente – per qualità o per quantità – l’autonomia di cui sono egualmente dotate.

Il diverso grado con cui le Regioni ordinarie hanno sin qui utilizzato le nuove competenze messe a disposizione dal trasferimento compiuto dai decreti Bassanini e dalla riforma del Titolo V ha prodotto il risultato di una notevole differenziazione di fatto delle prestazione e degli ordinamenti. Tuttavia le attribuzioni formali non hanno subito alcuna differenziazione.

Che Regioni dotate di un efficienza politica e amministrativa più accentuata debbano poter esercitare maggiori competenze di quelle assegnate alle Regioni meno efficienti appare in linea di massima un principio largamente accettabile: fa parte del principio di eguaglianza trattare in modo diverso situazioni diverse (Vandelli). I problemi che si pongono sono però relativi ai modi e agli strumenti che possono essere impiegati per favorire questa “differenziazione”.

Vi sono alcuni interrogativi che vanno affrontati, e che sono stimolati anche dalla pressione politica esercitata da alcune Regioni, dalle delibere assunte formalmente dai Consigli regionali di Lombardia[1] e Veneto[2] e dallo stesso disegno di legge approvato dal Governo alla fine del 2007[3].

-         Il primo quesito è se la “differenziazione” debba passare necessariamente attraverso il meccanismo dell’art. 116.3 Cost. o possa svilupparsi attraverso strumenti diversi.

-         Il secondo quesito è se si possa procedere all’attuazione dell’art. 116.3 Cost. senza prima sciogliere gli altri nodi dell’attuazione del nuovo Titolo V.

-         Il terzo quesito riguarda i contenuti che potrebbero avere le leggi di attuazione dell’art. 116.3 Cost. e a quali condizioni esse possano rappresentare uno strumento efficace per produrre differenziazione.

-         Il quarto quesito è se vi siano strategie più produttive, sotto il profilo della differenziazione, rispetto all’applicazione dell’art. 116.3 Cost.

Le tesi che seguono intendono rispondere a questi quesiti, in un ordine non strettamente corrispondente all’ordine degli interrogativi.

 

2. Non si può ragionare di “differenziazione” se non si riflette su questo dato: nell’attuazione del nuovo Titolo V, i tentativi delle Regioni di varare leggi innovative nelle “nuove materie” (concorrenti o “residuali”) sono stati sistematicamente bloccati dal Governo (sia in questa legislatura che in quella precedente), che talvolta, ma non sempre, ha trovato dalla sua parte la Corte costituzionale. Il fatto che la riforma costituzionale non sia stata seguita da un espresso trasferimento di funzioni (ma dall’inutile “legge La Loggia”, che per altro non è stata attuata), ha lasciato del tutto indefiniti i contorni e i contenuti delle materie, inducendo il Governo a svolgere una funzione di “calmieramento” del potenziale innovativo della riforma e di bloccare con l’impugnazione ogni legge delle Regioni che cercasse di “prendere ciò che la Costituzione dà loro”, come pure la Corte costituzionale aveva invitato a fare (sent. 422/2002).

In alcuni casi, inoltre, la Corte ha accolto l’impugnazione statale, ritenendo che la riforma del Titolo V non operasse direttamente come trasferimento della funzione legislativa alle regioni, ma che sia necessario che la legge statale definisca i nuovi principi della materia (in ciò individuando un “principio della materia”): interi settori, come i tributi regionali e l’ordinamento delle professioni, sono stati così bloccati in attesa che lo Stato tracci i limiti della competenza regionale.

Per contro, lo Stato ha fatto ricorso alla proprie attribuzioni “esclusive” per giustificare ogni tipo di incursione nelle materie di competenza regionale e per bloccare incursioni regionali in esse. La tutela della concorrenza, per es., è servita per imporre regole in tutti i settori a rilevanza economica (agricoltura, servizi pubblici locali, appalti, turismo, indicazione d’origine dei prodotti ecc.); mentre l’ordinamento civile è il titolo richiamato per bloccare le norme regionali in materia di consorzi di bonifica, di formazione professionale in azienda e di apprendistato, di tutela dei beni culturali, di coordinamento informatico, di gestione dei servizi pubblici, o per giustificare norme statali di dettaglio in materia di tutela del lavoro, spettacolo, impiego regionale e locale.

 

3. L’applicazione dell’art. 116.3, oggi invocata, interverrebbe dunque in quadro assai precario delle competenze regionali. L’art. 116.3 prevede che “ulteriori forme e condizioni particolari” di autonomia possano essere concesse:

a) in relazione alle materie “concorrenti” dell’art. 117.3

b) in relazione ad alcune materie “esclusive” dello Stato, e precisamente:

            ba) organizzazione della giustizia di pace

            bb) norme generali sull’istruzione

            bc) tutela dell’ambiente

            bd) tutela dei beni culturali

a) E’ piuttosto difficile immaginare che cosa significhi estendere la competenza di una Regione nelle materie concorrenti, nelle quali l’unico vincolo che limita l’autonomia regionale è quello dei principi dello Stato – i quali, per essere davvero dei “principi fondamentali”, devono avere necessariamente la caratteristica della generalità e della stretta attinenza ad esigenze unitarie. I “principi” però – come si sa - non sono indicati espressamente dalle leggi, ma sono tratti in via d’interpretazione: siccome è il Governo a farli valere davanti alla Corte costituzionale impugnando le leggi regionali, e siccome il Governo è libero di ritenere che una certa norma sia o meno “principio”, è davvero difficile capire in che cosa potrebbe consistere il riconoscimento di “maggiore autonomia” di una regione se non nella contestuale, esplicita indicazione dei principi che si devono applicare a tutte le altre regioni. È questo del resto che intende esprimere l’art. 2.5 del ddl di attuazione dell’art. 116, approvato dal Consiglio dei ministri il 21 dicembre 2007, laddove dice che “La legge indica le norme contrastanti con l’intesa che cessano di essere applicabili, nei confronti della Regione interessata”. Il che significa che la regione che chiede per sé le speciali competenze, indirettamente concorre a delimitare le competenze delle altre regioni.

Nelle materie concorrenti, comunque, il problema non è soltanto né principalmente il limite dei principi fondamentali, ma la ben più vasta questione della definizione delle materie. La stessa “maggiore autonomia” nella materia “esclusiva” (dello Stato) istruzione (bb) è una questione che non può avere alcun senso finché non sia chiaro in che cosa essa differisca dalla materia istruzione che l’art. 117.3 elenca tra le materie concorrenti.

b) nelle materie esclusive dello Stato “cedibili” con il meccanismo dell’art. 116.3, posto che l’istruzione potrebbe già ora essere oggetto di legislazione concorrente della Regione se solo il Governo non si opponesse, e posto che l’organizzazione del giudice di pace (ba) non sembra preludere a competenze di reale rilievo, che consentano alla Regione di contribuire al miglioramento dei servizi giudiziari, è soprattutto nelle materie tutela dell’ambiente (bc) e tutela dei beni culturali (bd) che si concentra l’attenzione.

 

4. Va per altro osservato che nelle due materie già oggi l’intervento legislativo regionale è ampiamente ammesso dalla giurisprudenza costituzionale. Come è noto, la Corte costituzionale le ha definite come espressive di un “valore costituzionale” che rende il perseguimento di livelli elevati di tutela obbligatorio per tutti i poteri pubblici: sicché le Regioni possono (anzi, devono) già ora legiferare, movendo dalle proprie materie (urbanistica, tutela della salute, turismo ecc.), per perseguire obiettivi di tutela dell’ambiente, trovando il limite esclusivamente nel divieto di abbassare gli standard definiti dallo Stato e nelle “norme di principio” fissate dalle leggi dello Stato, specie laddove essi stabiliscano un equilibrio tra interessi costituzionalmente rilevanti (caso tipico, l’equilibrio tra le protezione dell’ambiente e l’iniziativa economica).

Inoltre, l’art. 117.3 ha accolto la distinzione – già introdotta con la legge Bassanini – tra tutela e valorizzazione, assegnando alle Regioni la competenza concorrente per questo secondo aspetto della materia: la Corte costituzionale così ha fatto salva la legge del Lazio che istituisce un vincolo di destinazione d’uso per i locali storici (sent. 94/2003).

Anche in questa materia però il problema, avvertito dalla stessa Corte costituzionale, è costituito dall’assenza di un riordino normativo che chiarisca il sistema dei finanziamenti pubblici (per es. per gli spettacoli) e quei meccanismi di collaborazione e d’intesa tra Stato e Regione cui fa riferimento specifico l’art. 118.3 Cost. Non basterebbe una legge ordinaria a risolvere i problemi del potenziamento del ruolo regionale in questi settori? Non si potrebbe operare l’auspicata “differenziazione” (verso l’alto!) attraverso moduli convenzionali che regolino i rapporti tra amministrazione statale e singola Regione?

A questo proposito va sottolineato che, non attraverso il meccanismo dell’art. 116.3, ma attraverso l’attuazione della previsione dell’art. 118.3, si potrebbe finalmente chiarire quali funzioni le Regioni possono esercitare nelle due materie ivi specificamente citate, cioè l’immigrazione e l’ordine pubblico-sicurezza. La disposizione costituzionale rinvia infatti il coordinamento Stato-Regioni in queste materie delicate e cruciali ad un legge statale non ancora emanata.

 

5. Se, da queste premesse, si guarda ai contenuti individuati dalla Lombardia, che probabilmente è la Regione in fase più avanzata nella formulazione delle richieste d’intesa, sembra di trovare conferma della difficoltà di individuare richieste specifiche che solo attraverso il particolare meccanismo dell’art. 116 possano essere avanzate.

a) nel settore della tutela ambientale, le richieste della Lombardia sembrano soddisfabili o attraverso la comune legislazione ordinaria (o addirittura la sua interpretazione) o attraverso normativa comunitaria (che già si sta muovendo in direzione della correlazione diretta tra danno e risarcimento ambientale)

b) nel settore dei beni culturali, gli obiettivi indicati sembrano tutti realizzabili attraverso il meccanismo collaborativo di cui all’art. 118.3 Cost.

c) in materia di organizzazione della giustizia di pace, non si vedono specifici oggetti che richiedono una legislazione regionale, ma semmai una collaborazione amministrativa tra Stato e Regione che probabilmente potrebbe già essere attuata oggi, senza ricorrere all’art. 116

d) in materia di organizzazione sanitaria, è lo stesso documento lombardo a precisare che ciò che serve è una favorevole e stabile interpretazione dell’attuale assetto delle competenze

e) nel settore della comunicazione, è difficile comprendere in quali termini si intenda formulare l’intesa, se non in quelli di una riserva di quota del canone RAI e dei proventi pubblicitari da investire in informazione locale

f) in tutti gli altri settori è difficile trovare qualche rivendicazione che punti davvero a “nuove competenze” o a “forme particolari di autonomia”. Si tratta piuttosto di temi che rientrano già ora nelle attribuzioni regionali, anche se la legislazione ordinaria e i comportamenti ostruzionistici e non collaborativi delle strutture ministeriali impediscono alla Regione di affrontarli adeguatamente; oppure si tratta di incrementare le risorse trasferite alla Regione.

 

6. La prima conclusione a cui è lecito pervenire è che appare inutile affrontare l’attuazione dell’art. 116.3 prima che sia avviata un’opera più sistematica di attuazione del Titolo V: le “materie” dell’art. 117 sono ancora lontane da una sufficiente definizione e gli atteggiamenti non collaborativi del Governo non aiutano le Regioni a sperimentare una legislazione innovativa, per cui il contenzioso resta elevato e trasferisce alla Corte costituzionale compiti definitori che andrebbero svolti dalla politica e dalla legislazione; anche i meccanismi “collaborativi” e il trasferimento delle funzioni amministrative previsti dall’art. 118 non hanno avuto ancora attuazione; resta poi il nodo irrisolto dell’attuazione dell’art. 119 per ciò che riguarda il “federalismo fiscale”, nodo che condiziona profondamente qualsiasi ulteriore discorso attorno all’autonomia regionale.

In questa situazione di stallo, aprire la pagina dell’attuazione dell’art. 116.3 potrebbe risultare persino controproducente: non servirebbe alle Regioni che ne beneficiano, perché non otterrebbero molto di più di quanto non sarebbero in grado di ottenere grazie ad una matura e intelligente attuazione del Titolo V; ma in compenso distrarrebbero l’attenzione del Governo e del Parlamento da questo compito, che dovrebbe essere assolutamente prioritario. Parlare del 116 significa non parlare del resto e incrinare il fronte delle Regioni; significa pretendere per pochi attraverso il regime “speciale” ciò che andrebbe ottenuto da tutti (almeno come potenzialità) attraverso il regime ordinario.

 

7. Naturalmente si potrebbe obiettare che un’attuazione del Titolo V che non differenziasse le attribuzioni trasferite alle regioni “attive” da quelle affidate alle regioni le cui performance amministrative non siano adeguate si rifletterebbe negativamente sulle prime, poiché lo Stato dovrebbe usare una prudenza che tiene conto non delle perfomance migliori, ma di quelle peggiori: è quanto è successo in passato; l’art. 116.3 dovrebbe appunto costituire il rimedio a questo pericolo.

Ma non sono questioni di questo genere ad aver frenato l’attuazione del Titolo V, quanto piuttosto il tradizionale centralismo dei ministeri e la scarsa volontà del Governo di spogliarsi di strumenti di finanziamento e di ingerenza settoriale. Da un lato, infatti, ciò che può provocare danno alla comunità non è certo l’impiego dello strumento legislativo da parte delle Regioni meno affidabili, quanto piuttosto la loro inefficienza amministrativa: ma essa può ben essere rimediata dal ricorso alla sostituzione prevista dall’art. 120. Dall’altro, il trasferimento delle funzioni più delicate, quelle per la cui gestione lo Stato potrebbe nutrire le maggiori preoccupazione, potrebbe essere disposto come una facoltà offerta a tutte le Regioni, ma a cui le singole regioni possono accedere solo previa intesa, che ne stabilisca condizioni e verifiche: non sarebbe un’intesa “eccezionale” come quella prevista dall’art. 116, ma “ordinaria”, potenzialmente stipulabile da tutte le Regioni.

 

8. Posto che solo dopo un’adeguata opera di attuazione “generale” del Titolo V si dovrebbe procedere ad individuare il “di più” che serve in specifico alla singola Regione, ciò non significa che nelle singole Regioni non si possa iniziare a riflettere già da subito su che cosa per loro è necessario “ottenere” dallo Stato. Quali sono gli obiettivi della Regione? Che cosa impedisce di perseguirli efficacemente? Che cosa si può fare con le competenze attuali e che cosa richiederebbe invece una competenza che non c’è? Il problema di che cosa chiedere con lo strumento dell’art. 116 è – come si vede - l’ultimo di una catena di ragionamenti, non il primo.

In un percorso corretto, dunque, non si dovrebbe incominciare da un’astratta rivendicazione di competenze, con il rischio – come si vede – di allontanare, anziché stimolare, l’attuazione del Titolo V: si dovrebbe piuttosto iniziare dall’individuazione di obiettivi, di politiche che la Regione vuole avviare. Può essere, anzi è assai probabile che queste politiche non possano essere avviate senza il concorso dello Stato: ma questo concorso deve davvero consistere in un riconoscimento di “maggiori competenze”? Non si può trattare piuttosto di un accordo Stato – Regione che consenta alla Regione di por mano ai suoi programmi, varare le sue leggi nella certezza che essi non incapperanno nell’opposizione governativa ma che anzi le strutture amministrative dello Stato si comporteranno in modo collaborativo? In una situazione ancora fluida delle “materie” di competenza regionale e dei “principi” della legislazione statale, l’accordo potrebbero essere la via per sperimentare nuove politiche regionali.

Un esempio. Sinora le regioni hanno scarsamente sperimentato l’esercizio della loro potestà concorrente in materia di istruzione. D’altra parte, se la Regione volesse avviare un programma di integrazione tra istruzione scolastica, orientamento al lavoro, formazione professionale in azienda; oppure un progetto di incentivazione della ricerca universitaria in settori legati alle nuove tecnologie, sostegno alla sperimentazione di esse nella produzione, coordinamento tra ricerca dentro le imprese e dentro gli atenei, sostegno alla utilizzazione industriale dei prodotti della ricerca e assistenza nella loro brevettazione: in queste ipotesi è probabile che incontrerebbe ostacoli dovuti ai pretesi limiti della sua competenza. Ma la risposta utile non sarebbe quella di avviare un faticoso processo di attuazione dell’art. 116, sì da spostare di anni nel tempo l’avvio di questi programmi. Assai meglio sarebbe se raggiungesse un accordo con il Governo, tale per cui nell’attuazione di questi programmi potrebbe ottenere la garanzia di non inciampare in impugnazioni o in altri ostacoli.

Questi processi concertati di attuazione di programmi mirati potrebbero agevolare, anziché ostacolare, il processo di attuazione del Titolo V, aiutando ad individuare le materie, le sub materie, le specifiche funzioni che servono alle Regioni. Il “di più” che alla fine risulti indispensabile alla Regione, e che si potrebbe ottenere attraverso l’art. 116, forse emergerà in seguito.

 

9. In conclusione: l’attuale spinta verso l’avvio di un processo di attuazione dell’art. 116 nasce da una fondata insoddisfazione per il modo in cui è stato sinora attuato il “nuovo” Titolo V; ma questo processo sembra solo un surrogato, che non agevolerà, anzi allontanerà una corretta attuazione degli artt. 117, 118 e 119.

Non si può non condividere l’insoddisfazione da cui esso prende origine, ma la legittima insoddisfazione non deve far deviare dagli obiettivi. Invece di percorrere la strada “egoista” e lunga ipotizzata dall’art. 116, risultati molto più interessanti si possono raggiungere attraverso la via della collaborazione e dell’accordo Stato – Regione.


 

Schema di disegno di legge

di attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione

approvato dal Consiglio dei ministri del 21 dicembre 2007

 

Art. 1

(Oggetto)

1. L’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia regionale, ai sensi

dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, si svolge secondo quanto stabilito dalla presente

legge.

Art. 2

(Definizione dell’intesa e presentazione del disegno di legge

per l’attribuzione dell’autonomia ampliata)

1. L’atto di iniziativa della Regione, deliberato con le modalità e le forme stabilite dalla Regione

medesima, è presentato al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro per gli affari regionali

da lui delegato, previa acquisizione del parere del Consiglio delle autonomie locali, di cui

all’articolo 123, ultimo comma, della Costituzione, ove istituito dallo statuto regionale o, in caso di

mancata istituzione, previa consultazione degli enti locali secondo modalità e forme determinate

dallo statuto medesimo o da apposita legge regionale, che possono prevedere, a tal fine,

l’acquisizione del parere delle associazioni rappresentative a livello regionale dei comuni e delle

province. L’atto di iniziativa è corredato dal parere espresso dal Consiglio delle autonomie locali o

da una relazione concernente l’avviso formulato dagli enti locali consultati secondo le diverse

forme e modalità di cui al presente comma.

2. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per gli affari regionali da lui delegato

sottopone lo schema di intesa, che prevede forme e condizioni particolari di autonomia, alla

valutazione dei Ministri competenti sulle singole materie che ne sono oggetto, del Ministro

dell’economia e delle finanze e degli altri Ministri interessati, ai fini della formulazione

dell’assenso sui profili di rispettiva competenza. Lo schema di intesa, previe eventuali

modifiche da concordare con la Regione all’esito di quanto previsto nel periodo precedente, è

sottoposto all’approvazione del Consiglio dei Ministri su iniziativa del Presidente del Consiglio dei

Ministri o del Ministro per gli affari regionali da lui delegato, di concerto con i Ministri

competenti per materia, con il Ministro dell’economia e delle finanze e con gli altri Ministri

interessati, sentita la Conferenza Stato-Regioni. Nello schema di intesa sono altresì disciplinati i

rapporti finanziari fra lo Stato e la Regione, in coerenza ed in coordinamento con la disciplina

generale di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione e nel rispetto dei principi di perequazione

e solidarietà.

3. Dopo la sottoscrizione dell’intesa da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri e del

Presidente della Regione, il Governo delibera entro trenta giorni la presentazione in Parlamento

dell’apposito disegno di legge per l’attribuzione dell’autonomia ampliata.

4. La legge reca le disposizioni che regolano le forme e le condizioni dell’autonomia regionale sulla

base dell’intesa, che è allegata alla legge medesima, costituendone parte integrante.

5. La legge indica le norme contrastanti con l’intesa che cessano di essere applicabili, nei confronti

della Regione interessata, dalla data di entrata in vigore della legge stessa o da una diversa data, se

consentita dall’intesa.

Art. 3

(Verifica e revisione dell’intesa)

1. Lo Stato e la Regione sottopongono a verifica l’intesa al termine del decimo anno dall’entrata in

vigore della legge attributiva delle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia o nel più

breve termine fissato dall’intesa stessa, che può anche prevedere che la legge rechi un termine di

cessazione dell’efficacia dell’attribuzione dell’autonomia ampliata.

2. Anche prima della scadenza dei termini di cui al comma 1, lo Stato o la Regione possono

assumere l’iniziativa per la revisione dell’intesa, da definirsi secondo le modalità procedurali

stabilite all’articolo 2.

Art. 4

(Norma transitoria)

1. Restano fermi gli atti preliminari posti in essere e le intese eventualmente definite prima

dell’entrata in vigore della presente legge, ove conformi alla procedura di cui all’articolo 2.



[1] http://www.regioni.it/mhonarc/details_regi.aspx?id=132265, http://www.regioni.it/mhonarc/details_regi.aspx?id=132264

[2] http://www.regioni.it/newsletter/newsletter.asp?newsletter_data=2007-12-19&newsletter_numero=1060#art2

[3] DDl è riprodotto in calce.