Roberto Bin

 

Sussidiarietà, privacy e libertà della scienza: profili costituzionali della procreazione assistita

Relazione al Convegno “LA NUOVA DISCIPLINA DELLA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA: OMBRE E LUCI” - Trento, 20 maggio 2004

 

 

1. Sebbene una recente e ben nota ordinanza del Tribunale di Catania abbia chiarito a tutti che i dubbi sulla costituzionalità della legge sulla procreazione assistita sono infondati, a me sembra proprio il contrario. I profili di illegittimità costituzionale della disciplina contenuta nella legge 40/2004 sono talmente tanti che dovrò, per non abusare dello spazio consessomi, concentrami su alcuni soltanto di essi, quelli che mi appaiono più rilevanti (per una disamina più ampia e sistematica rinvio a R.VILLANI, La procreazione assistita, Torino 2004).

 Il giudice di Catania – come vedremo - è uno di quei magistrati seri che non fanno politica, di quelli che piacciono al Ministro di Giustizia. È vero che la decisione nasce da un caso costruito chiaramente allo scopo di provocare proprio una pronuncia sulla legittimità costituzionale della legge: ma la storia giudiziaria italiana ha conosciuto molto episodi del genere. Il fatto è questo.

Una coppia cercava da numerosissimi anni di avere un figlio malgrado la sua infertilità accertata; dopo aver affrontato numerosi interventi più o meno invasivi, provvisori successi e dolorose sconfitte, alla fine si rivolge al proprio medico per iniziare la procedura di fecondazione in vitro, ma avvisa: “Noi siamo affetti entrambi da talassemia e vorremmo che tu impiantassi soltanto gli embrioni sani”. E il medico risponde: “Mi dispiace ma io non lo posso fare perché incorrerei in una severa sanzione penale, nonché nella sospensione dell’attività professionale: e non me lo posso permettere”. Allora la coppia ricorre al giudice a cui chiede un provvedimento di urgenza che sa bene di non poter ottenere, se non vi sia prima la dichiarazione di illegittimità della legge da parte della Corte costituzionale. Ma per investire della questione la Corte, il giudice deve valutare se ci sia un ragionevole dubbio di costituzionalità della legge: il suo compito è solo questo, eliminare le questioni palesemente pretestuose, “manifestamente infondate”. Ed ecco che il giudice di Catania, smentendo platealmente i tanti che, come me, qualche dubbio lo nutrono, e sono disposti persino a sobbarcarsi la relazione ad un convegno per discuterne, ci tranquillizza definitivamente. No, dubbi non ce ne possono essere proprio!

Anzi, per dissipare ogni perplessità, il nostro giudice sente la necessità di scrivere un’ordinanza la cui lunghezza è eccezionale se paragonata alla brevità che di solito caratterizza questo tipo di pronunce: in essa si toccano tutti i punti che Carlo Casonato ha elencato nella sua introduzione, compresi alcuni profili che, non essendo affatto rilevanti nel giudizio di cui doveva occuparsi, avrebbe dovuto ignorare. Ma la generosità del nostro giudice non poteva arrestarsi a questi limiti freddamente processuali, di fronte al compito di gettare luce consolatoria su ogni possibile censura che potrebbe essere mossa alla legge. Così, sostituendosi alla Corte costituzionale, ecco che si preoccupa di fugare tutti i dubbi prospettabili, anche quelli che non c’entrano affatto con la domanda dei ricorrenti.

 

2. Il primo punto che il nostro giudice intende chiarire – e non potrebbe essere diversamente – è quale sia la ratio della legge, come in essa venga concepita l’assistenza medica nella riproduzione. La legge è chiara e la lettura che ce ne propone il giudice è sicuramente fedele: superare lo stato di sterilità e d’infertilità, quando non siano rimediabili attraverso altri metodi terapeutici efficaci, è l’unico obiettivo che deve guidare il medico quando procede alla fecondazione in vitro. I ricorrenti di problemi di infertilità ne avevano davvero e seri. Ma qui si aggiungeva l’altra questione, il fatto che i coniugi, affetti entrambi da talassemia, chiedevano al medico di selezionare fra gli embrioni prodotti quelli che apparivano sani (sperando che ce ne fosse almeno uno) e non impiantare quelli che avevano ereditato la malattia. La diagnosi prenatale  e la conseguente selezione degli embrioni, dice però il medico, è espressamente vietato dall’articolo 14, primo comma, della legge, che è chiarissimo: “E’ vietata la crioconservazione e la soppressione di embrioni, fermo restando…” e poi vedremo cosa dice il “fermo restando”.

L’interpretazione che deve essere data alla disposizione – dice il giudice - è che non ci può essere alcuna selezione degli embrioni da impiantare; gli embrioni da creare possono essere al massimo tre, ed essi vanno tutti impiantati: selezione non ci può essere, né è ammessa un’indagine genetica prenatale che porti ad evitare che l’embrione in procinto di essere impiantato sia portatore di deformità e malattie genetiche. A sostegno della richiesta dei loro clienti, gli avvocati della coppia - bravi, debbo dire, salvo nella scelta del Foro competente (sempre che davvero volessero raggiungere un risultato positivo) - portano un argomento che a tutti sarebbe venuto in mente di impiegare e che si impernia su quel “fermo restando”: “fermo restando quanto previsto dalla legge 22 maggio 1978, n. 194. Si tratta della legge sull’aborto.

Si ragiona così: che senso ha che la legge impedisca di selezionare gli embrioni e quindi imponga di impiantare anche quelli che sono geneticamente deformi, malati, portatori di gravi problemi, se in seguito la donna, quando finalmente raggiunge il suo sogno di essere gravida, deve ricorrere all’aborto per evitare di mettere al mondo un figlio deforme (sempreché non sia la natura stessa a provvedere provocando l’interruzione spontanea della gravidanza)? È indubbiamente un’argomentazione stringente: se così va interpretata la norma, avremmo un chiaro caso di “irragionevolezza intrinseca”, che la Corte costituzionale indubbiamente sanzionerebbe. Ma il giudice non è affatto di questo avviso.

Il giudice smonta l’argomento sulla base di un’affermazione davvero importante: il richiamo alla legge sull’aborto va inteso come un richiamo al testo originale della legge stessa, non alle prassi interpretative che essa ha subito nell’applicazione. La legge consente l’aborto soltanto quando in pericolo sia la salute della madre, non quando sia il feto a presentare problemi. Questo è un passaggio di grande importanza e di gravità enorme. Dopo 30 anni di applicazione della legge sull’aborto, ecco che un giudice viene a darci un’interpretazione “originalista” della legge. Secondo “lo spirito e la lettera” di tale legge, l’aborto terapeutico potrebbe essere giustificato soltanto se in pericolo c’è la salute della madre, e non per difetti o malattie del feto (salvo che questi non si riflettano, appunto, in un pericolo per la salute della madre): “l’aborto c.d. terapeutico è terapeutico con riferimento alla salute della madre e non a quella del bambino”. Insomma, nessuno spazio per un “uso eugenetico” dell’aborto, e quindi nessuna contraddizione con la scelta anti-eugenetica che ispira la legge sulla riproduzione medicalmente assistita! La deroga al divieto di crioconservazione o di soppressione di embrioni è ammessa soltanto nel caso in cui sia in gioco la salute della madre, perché questo è l’unico interesse che può bilanciare l’interesse del feto al concepimento, in quanto, come argomenta il nostro giudice, “sarebbe illogico ritenere terapeutica per il bambino la sua eliminazione”. È chiaro che, se un giorno la persona affetta da una grave menomazione congenita, dovesse chiedersi con quale diritto i genitori gli hanno “donato” la vita, quella vita, è meglio che non rivolga l’azione per danno da procreazione al Tribunale di Catania! E poi si sa, il concepito ha molti diritti, ma non quello a non nascere.

Benché non percepita dal giudice di Catania, l’assurdità e, ancor prima, la crudeltà di un atteggiamento così inflessibile di difesa dei pretesi “diritti” dell’embrione devono essere state avvertite invece dagli organi ministeriali: infatti le “Linee guida” d’attuazione della legge, emanate nel luglio 2004, introducono un ammorbidimento (indebitamente, essendo un atto di dubbia natura, ma certo incapace di derogare alla legge: cfr. P. VERONESI, Le "linee guida" in materia di procreazione assistita. Nuovi dubbi di legittimità all'orizzonte, in “Studium iuris” 2004, 1356 ss.). Ammette l’indagine reimpianto sullo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ma solo attraverso tecniche “osservazionali”: il medico informa la coppia solo se, non andando al di là del microscopio, accerta “gravi anomalie irreversibili dello sviluppo di un embrione”, ma con quali esiti possibili? Ipocrita e sibillina la risposta ministeriale: “Ove in tal caso il trasferimento dell'embrione, non coercibile, non risulti attuato, la coltura in vitro del medesimo deve essere mantenuta fino al suo estinguersi”. Il governo, come ora vedremo, è meno “ortodosso” del giudice nell’interpretare la legge!

 

3. Il secondo problema che il Tribunale di Catania affronta è il divieto di ritirare il consenso dopo la fecondazione. L’articolo 6, terzo comma, della legge dice: “La volontà di entrambi i soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è espressa per iscritto congiuntamente… Tra la manifestazione della volontà e l’applicazione della tecnica deve intercorrere un termine non inferiore a 7 giorni”. La volontà può essere revocata da ciascuno dei partner fino al momento della fecondazione dell’ovulo, dopo no. Perciò, eventuali difetti dell’embrione non possono comportare alcun intervento del medico né possono giustificare il ritiro della volontà. Da qui nasce il problema: se la donna non vuole che sia impiantato l’ovulo fecondato, questo può essere fatto coattivamente? Che il medico insegua, ferri alla mano, l’aspirante madre pentita per impiantarle l’ovulo, oppure ricorra alla forza pubblica, non è facile da immaginare, anche perché sembrerebbe contrario al divieto di trattamenti sanitari obbligatori contenuto nell’art. 32.2 Cost. Ma il nostro giudice ritiene che, tutto sommato, non si tratterebbe affatto di una violazione della Costituzione, perché il consenso c’era prima, e se poi viene revocato, nulla cambia: e che si tratti di un obbligo non coercibile non è affatto un problema, perché ce ne sono tanti nell’ordinamento.

Detto per inciso, il giudice questa questione non avrebbe dovuto neppure affrontarla, perché irrilevante ai fini del giudizio: gli avvocati vi fanno accenno per dimostrare la complessiva irragionevolezza del sistema, ma non era un’eccezione di incostituzionalità in senso stretto. E se non se ne fosse occupato, il giudice si sarebbe risparmiato una brutta figura. Ecco perché.

È noto che la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina – convenzione a cui l’Italia ha aderito – riconosce l’obbligo per il sanitario che procede ad un intervento di acquisire il consenso informato del paziente, e che questo consenso può essere liberamente ritirato in ogni momento (art. 5). La Convenzione si propone di raggiungere lo stesso risultato che è voluto dall’art. 32.2 Cost. “L’interesse e il bene dell’essere umano debbono prevalere sul solo interesse della società o della scienza”, dice l’art. 2 della Convenzione. Come ha più volte spiegato la Corte costituzionale, l’art. 32.2 Cost. consente che solo eccezionalmente l’interesse sociale alla salute collettiva possa prevalere, ma solo se l’intervento è finalizzato anche alla salute della persona che ne è il destinatario. In ogni caso esso non può violare il rispetto della persona umana (e forse una gravidanza “obbligatoria” qualche problema, sotto questo profilo, lo pone) e deve essere imposto sulla base di una specifica previsione di legge. Già, dice però il nostro giudice, ma questo argomento “è illogico”! Il consenso “informato” – il sanitario, anzi, ha da informare la coppia anche sulla possibilità, in alternativa, di procedere all’adozione o all’affidamento! – è liberamente dato nonché liberamente revocabile sino alla “applicazione della tecnica”, ossia – come specifica la legge (art. 6.3) – sino alla fecondazione dell’ovulo. Questo è dunque quello che il giudice concepisce come “trattamento” oggetto del consenso, poiché l’impianto dell’ovulo fecondato nel grembo della donna non gli sembra evidentemente un trattamento autonomo, che va a sua volta accompagnato dalla necessaria informazione – che invece la legge, come poi vedremo, prescrive all’art. 14.5 – e dalla libera conferma o revoca del consenso. E poi, aggiunge il giudice, anche a voler vedere nell’impianto dell’ovulo un trattamento obbligatorio, la legge c’è e la riserva di legge, perciò, è soddisfatta: come se una norma non esplicita, che nulla dice su quando e come andrebbe effettuato il trattamento obbligatorio, priva di qualsiasi riferimento all’interesse collettivo alla salute pubblica (ma semmai tesa a far prevalere l’interesse individuale dell’embrione su quello dei genitori), platealmente lesiva della dignità della donna, come se tutto questo possa corrispondere al senso di una riserva quale quella prevista dall’art. 32.2. Questo è il risultato di una formazione dei giudici in cui il diritto costituzionale, al pari del diritto romano, è considerato una materia “culturale” e non “professionalizzante”!

 

4. In una cosa però il giudice ha pienamente ragione, nell’intendere lo “spirito” della legge. La legge infatti è tutta rivolta alla protezione dell’”interesse” dell’embrione. Non voglio intrattenermi sulla questione etica di che cosa sia l’embrione, se sia più o meno di un essere umano. Il problema lo vorrei trattare sotto un’ottica esclusivamente giuridica, che dell’etica può trascrivere le ispirazioni in regole di comportamento, ma impiegando strumenti che hanno qualche rigidità. Dal punto di vista del giurista c’è un aspetto che mi sembra centrale. Ammettendo che l’embrione possa essere eretto a soggetto di diritti, il che non costituirebbe affatto una novità (basti pensare alla tradizione romanistica di protezione del concepito per quanto riguarda la successione, per esempio), mi domando quale interesse gli venga riconosciuto da questa legge (e dai suoi fedeli interpreti) e chi possa farlo valere.

L’unico interesse riconosciuto all’embrione è quello a nascere. L’embrione è visto in tutta la sua fase evolutiva, prima come tale e poi come feto, come una macchina che ha un unico interesse, quello di nascere. Quando il nostro ordinamento accenna agli interessi del concepito, attribuisce ai genitori (o il tutore che li sostituisce) il diritto-dovere di agire per proteggerli: è una visione chiaramente ispirata alla famiglia come “società naturale”, per usare l’espressione dell’art. 29 Cost. Ma la legge in questione rovescia la prospettiva: i genitori, che pure si sottopongono ad un trattamento riproduttivo che proprio nulla ha di piacevole (al contrario della procreazione naturale), diventano improvvisamente i nemici da cui l’embrione va difeso.  Per converso, l’embrione – questo essere a cui si vorrebbe attribuire tutto il potenziale dell’essere umano – improvvisamente viene appiattito, tolto dall’interezza degli infiniti interessi che nobilitano l’uomo e ridotto ad una “macchina per nascere”, estratta dalla sua famiglia (in cui poi dovrà pur vivere, si suppone) e difesa, nella sua “funzionalità”, contro la sua stessa famiglia! Davvero una bella visione dell’essere umano e delle famiglia stessa: una gravidanza imposta alla madre, che pure l’aveva voluta, ma non per mettere al mondo a tutti i costi un figlio segnato da malformazioni e malattie gravi; una nascita imposta ad una macchina, colpevole soltanto di essere stata messa in moto, incapace di decidere e che nessuno può fermare, condannata a generare e subire sofferenza. Nessuno può bandire l’etica dell’espiazione e della sofferenza (anche se l’ordinamento giuridico saggiamente cerca di arginarne gli eccessi con divieti quali quello di disporre del proprio corpo), ma che a qualcuno, in maggioranza in un parlamento democratico, venga in mente di imporla a tutti è davvero preoccupante: ma l’occidente non è la culla e l’arca del pluralismo e della tolleranza?

 

5. Un terzo problema rilevante e spinoso riguarda la fecondazione eterologa. L’art. 4.3 vieta ilricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo”. Eterologo’ – a detta dei dizionari – denota qualcosa che deriva da una specie diversa, ma non è a questa mostruosa ipotesi che il legislatore vuole alludere (anche in considerazione del fatto che la legge lo vieta espressamente nell’art. 13.3, lett. d). Nel linguaggio ginecologico – legislativo vuol dire ciò che è precisato nell’articolo successivo: “Fermo restando quello stabilito dall’articolo 4, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistite coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”.

Quest’ultimo riferimento ai soggetti “entrambi viventi” è – si sa – fonte di qualche problema d’interpretazione: mi sembra ragionevole, ma forse anche inutile, prescrivere che i genitori siano entrambi viventi al momento in cui si rivolgono al sanitario. Data questa come una certezza “naturale”, l’altro riferimento sicuro è che è legalmente vietato impiantare l’embrione nell’utero di una donna diversa da quella che ha prodotto la cellula – uovo, perché la surrogazione di maternità è punita espressamente dall’art. 12.6. Perciò il requisito di essere “vivente” è riferibile essenzialmente all’uomo, dato che la morte della madre interrompe comunque il procedimento di procreazione anche prima dell’impianto dell’embrione. Ma quand’è che la morte dell’uomo interrompe il procedimento? Questo resta un problema che la legge non è capace di risolvere. Nella lotta tra la vita e la morte sembra che il legislatore simpatizzi in certi casi per la morte (il fatto che il procedimento sia complesso già nella fase della formazione del consenso informato fa pensare che la fecondazione assistita non possa legalmente avvenire utilizzando il gamete congelato dell’uomo premorto), in altri per la vita (l’embrione ormai formato va comunque impiantato), ma mai per la madre, della cui volontà sembra non tener alcun conto: lei dà la vita, subisce la morte, ma non è arbitra di nulla, non può decidere se proseguire nel sogno della maternità o rinunciare alla prospettiva di affrontarla da sola.

Oltre che vivi ed in età fertile (traccia di quella imitatio naturae che ha lungamente dominato anche l’istituto dell’adozione), i due aspiranti coniugi devono essere anche “coniugati o conviventi”. Si dà dunque spazio alla cosiddetta “famiglia di fatto”, di solito ignorate dalla legislazione: le coppie di fatto non possono adottare bambini, ma possono procreare con la fecondazione assistita. La legge sull’adozione mira, prescrivendo il requisito del matrimonio, a sgomberare il campo dai single e dalle coppie omosessuali. Qui invece il legislatore è costretto ad affrontare il problema dell’aspirazione alla procreazione che gli omosessuali possono avere (e non avere) come tutti gli altri esseri umani, prescrivendo che le coppie siano di sesso diverso. Affrontato il tabù in termini espliciti, posto per sicurezza anche il divieto per i single, ecco che si può consentire l’apertura alle coppie di fatto, purché “conviventi”.

Ma qui sorge uno dei problemi che io non riesco a risolvere: il divieto di fecondazione eterologa sembra colpire l’ipotesi di un donatore (maschio, per lo specifico divieto di cui si è detto poc’anzi) estraneo al rapporto di coppia; ma chi certifica ciò che sta dentro e ciò che sta fuori al rapporto di convivenza? Una delle poche ragionevoli obiezioni che viene fatta al riconoscimento delle coppie di fatto in relazione, per esempio, all’adozione è che manca la “data certa” in cui la coppia si forma: manca la data di fabbricazione (e perciò anche quella di scadenza). Mentre chi si sposa ha un atto formale che fissa la data, la coppia convivente sceglie – come giustamente ha tante volte osservato la Corte costituzionale – l’informalità, la libertà, la non istituzionalizzazione del rapporto (e perciò sarebbe ingiusto trasferire coattivamente su questo rapporto le regola che presidiano, stabilizzano e garantiscono il matrimonio). E allora coma si fa a “certificare” la convivenza? Quali sono gli standard (percentuali di notti passate sotto lo stesso tetto, iscrizione anagrafica, animus e opinio…) a cui fare riferimento?

Lo so che è una domanda sbagliata. Ennesimo esempio di pessima tecnica legislativa, la legge non si preoccupa di “strutturare” e sanzionare il divieto di fecondazione assistita da parte di un partner improvvisato, ma introduce in seguito la “sanzione”: l’articolo 8 dispone infatti che “i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime”. Ecco dove sta la garanzia del “divieto”, il riconoscimento legale della paternità. L’articolo 9 aggiunge che “qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione… il coniuge o il convivente, il cui consenso è ricavabile da atti concludenti, non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità…”. Così il sistema chiude e spera di reggere giuridicamente, salvo poi mantenere, nel successivo art. 12.2 della legge, una sanzione per il sanitario che applica le tecniche procreazione medicalmente assistita ad una coppia non convivente; ma per lui la convivenza della coppia non è un problema, perché l’unica cosa di cui deve assicurarsi è di richiedere ed ottenere l’autocertificazione dei requisiti da parte della coppia (sì, anche del fatto di essere “entrambi viventi”), restando a carico di questa – secondo le regole generali – la responsabilità per le eventuali dichiarazioni mendaci (per cui è astrattamente possibile che in un aula giudiziaria ci si trovi un giorno a discutere seriamente su quando una coppia possa definirsi “convivente”).

La fobia sessuale del legislatore italiano è proverbiale. All’estensore del codice civile è riuscito di scrivere l’intera disciplina del matrimonio, della famiglie e della procreazione senza neppure nominare la parola “sesso” o prescrivere la – come si direbbe oggi, in modo politically correct – “diversità di genere” dei coniugi. Ma oggi le maglie della coscienza sociale si sono fatte più larghe, e il rafforzamento dell’argine contro l’omosessualità richiede l’impiego di materiali lessicali più specifici. Ecco l’esplicito divieto di praticare la procreazione medicalmente assistita a coppie dello stesso sesso e, per evitare facili aggiramenti, anche a coppie “eterologhe”. Pura ipocrisia, perché come ho avuto modo di sostenere in uno scritto semiserio sull’argomento (Il figlio di Lady Chatterley, in “Quad.cost.” 2002, 793 ss.), di procreazioni “eterologhe” è piena la storia segreta delle nostre famiglie e la storia ufficiale o ufficiosa di tante case regnanti europee. Oggi la procreazione eterologa non è affatto vietata, lo è soltanto se medicalmente assistita.

 

6. L’ordinanza del tribunale di Catania propone un tema di interesse assai ampio per il giurista. Essa prende le mosse da una premessa metodologica impegnativa su cui merita soffermarsi:

Sempre è dovuto da tutti il rispetto alle leggi, ma sommamente ciò è doveroso in questa materia, che, come si è detto, ha ad oggetto proprio i limiti da porre al potere dell’uomo di agire su uno dei più grandi misteri della natura: l’origine della vita…

Man mano che ogni legge “vive” nel tempo, i suoi contenuti e i suoi precetti per così dire si adattano all’ordinamento giuridico nel suo complesso, sicché, con il passare del tempo e il mutare dell’ordinamento giuridico del paese nel suo insieme, la “intenzione del legislatore” che il 1° comma dell’art. 12 delle preleggi indica come uno dei criteri ermeneutici delle legge non coincide più, in tanti casi, con il pensiero e la volontà della concreta assemblea parlamentare che la legge ha approvato e si trasforma in una sorta di anima propria e immanente della legge, che a volte conserva pochi collegamenti con il pensiero dei suoi concreti autori.

Ciò non può dirsi, però, di una legge approvata solo poche settimane fa e all’esito di un dibattito tanto ricco e approfondito quale quello al quale si è appena fatto riferimento. Sicché l’“intenzione del legislatore” ha in questo momento in questa materia il suo più grande rilievo e la sua elusione, da parte di ognuno che deve applicare la legge, costituirebbe grave violazione del fondamento stesso della democrazia, facendo sovrano l’interprete in luogo del legislatore.

 

Ho riportato per esteso questo passo perché esso mi sembra sintetizzare mirabilmente uno degli argomenti più frequenti tra quanti accompagnano l’imbarbarimento istituzionale che ha colpito il nostro Paese.  

Nella mia scarsa cultura giuridica, questo ragionamento ha fatto vibrare un ricordo, di una gloriosa pagina “militante” di Karl Schmitt, Hitler trionfante (Kodifikation oder Novelle?, DJZ 1935, 920 ss.), in cui si teorizza la funzione interpretativa del Führerprinzip, l’idea che la “intenzione del legislatore” divenga “unmittelbar und in der intensivsten Weise positives Recht. È l’idea di un legislatore sovrano, a cui l’investitura democratica conferisce un potere assoluto che vincola il giudice anche al di là del testo normativo: un trionfo della volontà della maggioranza su ogni altra istanza, compresa la divisione dei poteri, l’autonomia della magistratura, la funzione normativa della costituzione. Quante volte ritroviamo questo tipo di considerazioni nei discorsi dei nostri politici, sdegnati a causa di qualche decisione emanata dai giudici o dalla Corte costituzionale? È singolare che oggi sia invece un giudice a riproporcele.

Nel pensiero del Tribunale di Catania, come nell’ideologia diffusa nel ceto politico, la costituzione non c’è: la sua tutela, la sua interpretazione, il suo “inveramento” non possono essere affidati ad altri che al parlamento democraticamente eletto e alla maggioranza che esercita il potere legislativo. Questa, per i giudici, deve essere una direttiva interpretativa inderogabile. La legge, dunque, non può essere criticata (e quindi impugnata davanti alla Corte costituzionale), né interpretata “secondo costituzione”, perché significherebbe “eludere” la volontà del legislatore sovrano. Il ministro Castelli esulta, non c’è dubbio: è proprio così che i giudici applicano la legge e si astengono dal “fare politica”!

A parte l’evidente infrazione ai principi fondamentali dello Stato di diritto, che regge proprio sulla separazione tra la politica e il diritto (che del potere politico deve essere il limite e il fondamento), vi è poi un altro profilo che non può certo essere trascurato. L’assunto per cui ciò che genericamente viene chiamato “embrione” sia “vita”, sia – come dice uno degli slogan più noti – “uno di noi”, che statuto ha? Vi è qualche prova oggettiva, qualche dimostrazione condivisa, qualche elemento di verità incontrovertibile? Se risaliamo a prima della nascita, incontriamo una serie di stadi evolutivi del “concepito” – i cui “diritti” la legge intende tutelare - che hanno rilevanza giuridica diversa dallo status del nato e a sua volta differenziata man mano che si regredisce nel tempo della gestazione. Se si retrocede all’embrione e, ancor prima, allo zigote, all’ootide e a tutte le fasi che la legge non distingue, includendole nel termine impreciso ‘concepito’ ed estendendo ad esse un unico status di tutela giuridica, perché fermarsi nel ripercorrere il processo della fertilizzazione dell’ovocita? E perché non affrontare il tema della tutela giuridica dei gameti? Perché negare la personalità individuale dello spermatozoo (così ben impersonata da Woody Allen nel noto film), dalla cui lotta per la vita tutto trae origine? Qualche base testuale pure l’abbiamo nelle Sacre scritture. La storia di Onan (Genesi, 38) lo dimostra, presentandoci anzi quello che è probabilemente il primo caso documentato di “procreazione assistita” (non medicalmente, però). Onan è stato invitato da suo padre Giuda a fecondare la moglie di suo fratello defunto; ma a Onan non piace l’idea di divenire il padre di una prole che non sarebbe stata considerata sua (già, ecco riaffiorare il tema del riconoscimento del nato da procreazione “eterologa”!) e perciò fonda la fortunata pratica, che da lui prende appunto il nome, di disperdere il seme per terra per non diventare il padre dei figli del fratello. E’ un racconto modernissimo, ma la scelta di Onan “non fu gradita al Signore, il quale fece morire anche lui”. Come si vede un principio di tutela dello spermatozoo, per di più duramente sanzionata, non manca affatto.

Scherzi a parte, quello che mi preme dimostrare è solo che la legge – come è a tutti evidente – vuole maldestramente armare con gli strumenti punitivi dello Stato ciò che corrisponde ad una visione della vita e della sua morale che è condivisa da una parte limitata della società. Non importa se si tratti di una parte minoritaria o maggioritaria, non è questo che conta: in uno Stato costituzionale e pluralista nessuno, per quanto numericamente “pesante”, ha il diritto di imporre le proprie opzioni etico-religiose agli altri. Nessuno costringe altri ad abortire o a sottoporsi a tecniche di procreazione medicalmente assistita: ma nessuno può neppure imporre agli altri di non farlo, se non in nome di interessi fondamentali che sono ampiamente condivisi e perciò scritti nella Costituzione. Ed invece la legge sposa una concezione del tutto discutibile di “vita” e di “persona”, di ciò, dunque, che non si è neppure in grado di determinare con sicurezza l’inizio, il quale comunque non sarebbe accertabile se non con gli strumenti del laboratorio: un evento che sfugge alla percezione diretta delle persone ma da cui scatta un “regime giuridico” che ha un impatto duro, inflessibile e persino tragico per coloro che l’hanno voluto.

Lo Stato deve astenersi dall’ingerirsi nelle opzioni etiche e religiose delle persone e surrogarsi ai singoli e alle formazioni sociali nella conduzione della propria vita personale: non è questo che vuole esprimere il “principio di sussidiarietà orizzontale”? Non è per questo che il mondo cattolico si batte sul fronte della scuola privata, dei servizi sociali, della famiglia? Come stanno insieme la difesa della sussidiarietà e questa legge? L’idea per cui lo stato deve uscire dalla società civile e lasciare alle libere scelte delle famiglie l’istruzione, l’assistenza, le scelte culturali eccetera, significa riconoscere non ai singoli, ma ai nuclei – e la coppia è un nucleo - la libertà di scelta e di gestione; come si concilia questa idea con uno Stato impiccione che sbircia sotto le lenzuola per controllare se i partner sono “omo” o “etero” (ma non troppo “etero”, s’intende), costringe il giudice a ficcare l’occhio nella provetta, va a controllare quanti sono gli embrioni conservati nel congelatore? Che tipo di ideale di società ne esce? Qual è la componente, diciamo, di politica legislativa che emerge da questa legislazione per ciò che riguarda i rapporti tra libertà individuale, autonomia delle formazioni sociali e potere pubblico? Il messaggio che io leggo in tutto ciò è terrorizzante, è di una profonda violenza alla privacy delle persone, alla libertà delle coscienze, al pluralismo delle concezioni delle vita e, alla fine, alla stessa sussidiarietà.

L’idea che la vita sia un dono, mi può anche andar bene; ma l’idea che la vita vada accettata comunque, anche al costo della sofferenza, questa è una scelta che posso ben ammettere che altri facciano (poi vedranno se chi ha donato loro la vita sarà proprio tanto contento dell’uso che è stato fatto del suo regalo, sprezzato e reinvestito nella speranza di ottenere un dono migliore nella prossima vita). Io capisco benissimo che uno abbia una visione religiosa della vita, consideri questo mondo una valle di lacrime, ritenga che la vita vera sia in un’altra vita. Va benissimo. Ma chi gli dà il diritto di imporre a me questa visione? Non c’è nessuno spazio in un paese costituzionale come il nostro, che professa principi di pluralismo, per imporre, con la forza della maggioranza, un modello di vita, una concezione della esistenza. E che cosa è, se non la violenta imposizione di una visione ideologica, il fatto di vietare la selezione degli embrioni per impedire che la povera donna che da dieci anni sta cercando di diventare madre, diventi madre nolente di un figlio deforme e trasformi contro la sua volontà la sua vita in una tragedia?

Ma il nostro giudice – e tanti altri con lui - teme che così si apra la strada alla selezione eugenetica, trascurando che l’eugenetica è cosa ben diversa. Qui non si pretende di avere un figlio bello, alto, biondo ed ariano, che in certi casi farebbe anche un po’ ridere: qui si pretende semplicemente di avere un figlio non affetto da gravi deformità, del legittimo desiderio dei genitori di essere tali ma non al prezzo di una vita fatta di tormenti. Vietarlo per legge è una violenza che alla mia educazione classica fa ribrezzo perché mi ricorda l’hybris della cultura greca: è un gesto di tracotanza, di violenza contro gli dei da parte di empi che non ne temono la giusta ira punitiva.

 

7. Vi è ancora un ultimo profilo, assai delicato e di grande interesse per il diritto costituzionale: i limiti che la legge impone alla ricerca scientifica.

L’articolo 13 della legge pone un divieto drastico, per di più sanzionato penalmente. Esso dispone: “E’ vietata qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano. La ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si proseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e dello sviluppo dell’embrione stesso”. Non capisco bene che cosa significhi la deroga al divieto, e mi rivolgo perciò ai medici: si può fare una ricerca sull’embrione per curare l’embrione stesso? E si può immaginare di impiantare un embrione su cui si è svolta la supposta attività di ricerca senza conoscerne il risultato?

La libertà di ricerca è ben tutelata dalla nostra costituzione, che le dedica norme apposite. In America, dove non c’è una norma costituzionale sulla libertà della scienza, la tutela della libertà della scienza viene ricompresa nella libertà di espressione: la conseguenza è che sorge il grosso problema di determinare quando la sperimentazione scientifica, che è un’attività materiale di per sé distinta dall’elaborazione e la diffusione delle proprie idee, sia ancora collegabile alla libertà di espressione e quando consista invece in un’attività che sta completamente fuori da quella protezione. Da noi la libertà della scienza ha un riconoscimento a sé, e per di più – fortunatamente – non vi sono stati episodi tali da provocare una giurisprudenza della Corte costituzionale apposita, tale da chiarire l’intensità e i limiti della protezione costituzionale. Siamo perciò privi di esperienze e strumenti per affermare con sicurezza se e quando una limitazione legislativa della ricerca scientifica sia compatibile con la costituzione. Ma, se ragioniamo anche noi con le categorie che la nostra giurisprudenza costituzionale ha elaborato per definire il raggio di protezione della libertà di espressione e le applichiamo alla libertà della scienza, possiamo ottenere finalmente un test a cui sottoporre leggi come queste, per verificare se esse siano o meno compatibili con le garanzie costituzionali. Come ovvio, la libertà di espressione, come anche la libertà della scienza, possono incontrare dei limiti posti dalla legislazione a protezione di interessi rilevanti per la società: ma questi divieti non possono essere introdotti liberamente dal legislatore, perché per essere considerati legittimi devono superare un test che ne saggi la compatibilità con la protezione che la costituzione assicura alla libertà.

Il primo passo di questo test verifica se questi divieti siano content neutral, ossia se possono considerarsi neutri o non neutri rispetto al contenuto della ricerca. La concezione della neutralità rispetto al contenuto è facilmente spiegabile con un esempio classico relativo alla libertà di espressione: se la polizia vieta di bruciare le bandiere per evitare il pericolo d’incendio degli edifici, questo divieto è neutro rispetto al contenuto; ma se invece vieta di bruciare le bandiere perché sono un simbolo della patria, il divieto non è più neutro rispetto al contenuto perché ciò che si colpisce è proprio l’espressione di quel pensiero. Questo tipo di distinzione si applica a tutte le libertà fondamentali: per esempio, una limitazione della libertà di circolazione è tollerabile se serve a proteggere valori “neutri” come il diffondersi di una epidemia, non lo è affatto se colpisse invece determinati soggetti in ragione delle loro idee politiche o religiose.

Il divieto della sperimentazione sugli embrioni e sulle cellule staminali da essi prelevate è rivolto ad uno specifico contenuto della libertà di ricerca o è neutro rispetto ad esso? La risposta mi pare ovvia: il divieto colpisce una sola forma di ricerca, definita attraverso il generico riferimento all’embrione, quale sia l’obiettivo scientifico che il ricercatore si proponga. A parte l’ipotesi di una ricerca svolta su un embrione al fine di curare quello specifico embrione - e a parte la disgustosa previsione contenuta nel DM 4 agosto 2004 che autorizza la sperimentazione sugli “embrioni orfani” al fine di migliorare le tecniche di crioconservazione, da svolgersi esclusivamente nella struttura ospedaliera da cui proviene il Ministro emanante e che ha come obiettivo solo di prolungare il gelido limbo di azoto in cui “quelli come noi” vengono puntigliosamente conservati in attesa della loro “naturale” estinzione – ogni altra sperimentazione è vietata per il solo fatto di svolgersi su una cellula frutto della procreazione medicalmente assistita, quale ne sia lo stadio di sviluppo, lo stato di salute, il destino e, per altro verso, quale sia la finalità della ricerca stessa. Perché la sperimentazione animale non é vietata, ma attentamente disciplinata, e quella sulle cellule embrionali sì, sempre e comunque? Perché gli animali non sono “uno di noi”? E questa non è un’opzione ideologica, una visione, come dire, religiosa della vita e del valore dell’embrione? È nel nome di questa precisa scelta di contenuti etici che si vieta la ricerca scientifica. Il divieto perciò non è “neutro” rispetto al contenuto della ricerca.

Ma, si potrebbe obiettare, il divieto presiede alla difesa dell’integrità dell’uomo, in quanto specie, dai tentativi di creare mostri genetici, creature artificiali ecc. Chi sostiene la legittimità della legge evoca i fantasmi della clonazione e della “produzione di ibridi e chimere” (espressamente punita dall’art. 13.3, lett. d) e l’esigenza quindi di impedire questi eventi. Il secondo test si pone quindi un quesito ulteriore: questo obiettivo è sensato? Il divieto di svolgere ogni tipo di ricerca sugli embrioni è necessario per realizzare l’obiettivo? Sull’argomento ho l’impressione che si dicano molte sciocchezze: la clonazione umana sembra proprio che non sia alle porte; anche se lo fosse, se sono gli abusi delle pratiche di ricerca e di sperimentazione sugli embrioni che si vogliono evitare, le vie da seguire sono altre. A qualcuno è mai venuto in mente di proibire la ricerca nel campo della fisica nucleare per impedire la proliferazione delle bombe atomiche? Se applicassimo i normali test cui sono sottoposti i limiti che la legge oppone alla libertà di espressione, la risposta sarebbe semplice. Per assicurare che la ricerca non abusi delle sue potenzialità, non è certo necessario un divieto penale a carico della ricerca stessa, ma  – come ha detto la Corte molte volte – andrebbe scelto un regime giuridico meno oppressivo della libertà, per esempio un regime di controllo o di autorizzazione amministrativa, più o meno come si è fatto in Inghilterra. In Inghilterra esiste un’apposita autorità che autorizza la sperimentazione. Vogliamo mettere la sperimentazione sugli embrioni sotto controllo? Bene, mi pare una cosa saggia che la sperimentazione sugli embrioni e la produzione di embrioni non siano del tutto libere e incontrollate; ma allora introduciamo un regime di controllo, di vigilanza, di autorizzazione, non un divieto penale. Lo strumento sarebbe sproporzionato e perciò lesivo del diritto costituzionale alla libertà di ricerca scientifica.

È questa del resto la regola che presiede alla disciplina delle pratiche mediche: è la regola che la Corte Costituzionale ha sancito in una sentenza recente, la 282/2002, in cui si chiarisce che il legislatore non può intervenire in merito alle decisioni che i medici assumono circa le scelte tecniche da compiere, perché le pratiche mediche non possono essere oggetto di scelte politiche. Non vi sono ragioni per ritenere che le pratiche relative ai rimedi alla infertilità non siano da trattare come tutte le altre pratiche scientifiche strumentali alla ricerca medica. Può essere che la ricerca oggi non sia ancora sviluppata, che l’utilizzazione delle cellule staminali prelevate dagli embrioni per la cura di malattie genetiche non sia ancora possibile, che altre strade e altri “materiali” siano preferibili: ma queste ragioni possono giustificare un divieto di sperimentare pratiche mediche non ancora garantite nei risultati dalla ricerca sperimentale, non certo il divieto di svolgere ogni sperimentazione scientifica. Bloccare la possibilità di sviluppo della medicina in Italia per un pregiudizio ideologico e in nome di una visione religiosa dell’embrione rievoca la Santa Inquisizione. La salute di tante persone dipende dalla ricerca genetica sulle cellule staminali, ma se ne sta bloccando lo sviluppo noncuranti dei riflessi che questo divieto potrà avere sull’evoluzione delle conoscenze scientifiche. Una maggioranza di sani esercita la dittatura sulla minoranza dei malati.