Roberto Bin
Sussidiarietà, privacy e libertà della scienza: profili costituzionali
della procreazione assistita
Relazione al Convegno
“
1. Sebbene una recente e ben nota ordinanza del Tribunale di Catania abbia chiarito a
tutti che i dubbi sulla costituzionalità della legge sulla procreazione
assistita sono infondati, a me sembra proprio il contrario. I profili di illegittimità costituzionale della disciplina contenuta
nella legge 40/2004 sono talmente tanti che dovrò, per non abusare dello spazio
consessomi, concentrami su alcuni soltanto di essi,
quelli che mi appaiono più rilevanti (per una disamina più ampia e sistematica
rinvio a R.VILLANI, La procreazione assistita, Torino 2004).
Il giudice di Catania – come vedremo - è uno
di quei magistrati seri che non fanno politica, di quelli che piacciono al
Ministro di Giustizia. È vero che la decisione nasce da un caso costruito
chiaramente allo scopo di provocare proprio una pronuncia sulla legittimità
costituzionale della legge: ma la storia giudiziaria italiana ha conosciuto molto episodi del genere. Il fatto è questo.
Una coppia cercava da
numerosissimi anni di avere un figlio malgrado la sua
infertilità accertata; dopo aver affrontato numerosi interventi più o meno
invasivi, provvisori successi e dolorose sconfitte, alla fine si rivolge al
proprio medico per iniziare la procedura di fecondazione in vitro, ma
avvisa: “Noi siamo affetti entrambi da talassemia e
vorremmo che tu impiantassi soltanto gli embrioni sani”. E il medico risponde:
“Mi dispiace ma io non lo posso fare perché incorrerei
in una severa sanzione penale, nonché nella sospensione dell’attività
professionale: e non me lo posso permettere”. Allora la coppia ricorre al giudice a cui chiede un provvedimento di urgenza
che sa bene di non poter ottenere, se non vi sia prima la dichiarazione di
illegittimità della legge da parte della Corte costituzionale. Ma per investire della questione
Anzi, per dissipare ogni
perplessità, il nostro giudice sente la necessità di scrivere un’ordinanza la
cui lunghezza è eccezionale se paragonata alla brevità che di solito
caratterizza questo tipo di pronunce: in essa si
toccano tutti i punti che Carlo Casonato ha elencato
nella sua introduzione, compresi alcuni profili che, non essendo affatto
rilevanti nel giudizio di cui doveva occuparsi, avrebbe dovuto ignorare. Ma la
generosità del nostro giudice non poteva arrestarsi a questi limiti freddamente
processuali, di fronte al compito di gettare luce consolatoria su ogni
possibile censura che potrebbe essere mossa alla
legge. Così, sostituendosi alla Corte costituzionale, ecco che si preoccupa di
fugare tutti i dubbi prospettabili, anche quelli che non
c’entrano affatto con la domanda dei ricorrenti.
2. Il primo punto che il nostro
giudice intende chiarire – e non potrebbe essere diversamente – è quale sia la ratio della legge, come in essa venga
concepita l’assistenza medica nella riproduzione. La legge è chiara e la
lettura che ce ne propone il giudice è sicuramente fedele: superare lo stato di
sterilità e d’infertilità, quando non siano rimediabili attraverso altri metodi
terapeutici efficaci, è l’unico obiettivo che deve guidare il medico quando procede alla fecondazione in vitro. I
ricorrenti di problemi di infertilità ne avevano
davvero e seri. Ma qui si aggiungeva l’altra questione, il fatto che i coniugi,
affetti entrambi da talassemia, chiedevano al medico
di selezionare fra gli embrioni prodotti quelli che apparivano sani (sperando
che ce ne fosse almeno uno) e non impiantare quelli che avevano
ereditato la malattia. La diagnosi prenatale e la conseguente selezione degli
embrioni, dice però il medico, è espressamente vietato dall’articolo 14, primo
comma, della legge, che è chiarissimo: “E’ vietata la crioconservazione
e la soppressione di embrioni, fermo restando…” e poi vedremo cosa dice il
“fermo restando”.
L’interpretazione che deve
essere data alla disposizione – dice il giudice - è che non ci può essere
alcuna selezione degli embrioni da impiantare; gli embrioni
da creare possono essere al massimo tre, ed essi vanno tutti impiantati:
selezione non ci può essere, né è ammessa un’indagine genetica prenatale che
porti ad evitare che l’embrione in procinto di essere impiantato sia portatore
di deformità e malattie genetiche. A sostegno della richiesta dei loro clienti,
gli avvocati della coppia - bravi, debbo dire, salvo
nella scelta del Foro competente (sempre che davvero volessero raggiungere un
risultato positivo) - portano un argomento che a tutti sarebbe venuto in mente
di impiegare e che si impernia su quel “fermo restando”: “fermo
restando quanto previsto dalla legge 22 maggio 1978, n.
Si ragiona così: che senso ha
che la legge impedisca di selezionare gli embrioni e quindi imponga di
impiantare anche quelli che sono geneticamente deformi, malati, portatori di
gravi problemi, se in seguito la donna, quando finalmente raggiunge
il suo sogno di essere gravida, deve ricorrere all’aborto per evitare di mettere
al mondo un figlio deforme (sempreché non sia la
natura stessa a provvedere provocando l’interruzione spontanea della gravidanza)?
È indubbiamente un’argomentazione stringente: se così va interpretata la norma,
avremmo un chiaro caso di “irragionevolezza intrinseca”, che
Il giudice smonta l’argomento sulla base di un’affermazione davvero importante: il
richiamo alla legge sull’aborto va inteso come un richiamo al testo
originale della legge stessa, non alle prassi interpretative che
essa ha subito nell’applicazione. La legge consente l’aborto soltanto
quando in pericolo sia la salute della madre, non quando sia il
feto a presentare problemi. Questo è un passaggio di grande importanza e di
gravità enorme. Dopo 30 anni di applicazione della
legge sull’aborto, ecco che un giudice viene a darci un’interpretazione “originalista” della legge. Secondo “lo spirito e la
lettera” di tale legge, l’aborto terapeutico potrebbe essere giustificato
soltanto se in pericolo c’è la salute della madre, e non per difetti o malattie
del feto (salvo che questi non si riflettano, appunto, in un pericolo per la
salute della madre): “l’aborto c.d.
terapeutico è terapeutico con riferimento alla salute della madre e non a
quella del bambino”. Insomma, nessuno spazio per un “uso eugenetico”
dell’aborto, e quindi nessuna contraddizione con la scelta anti-eugenetica che
ispira la legge sulla riproduzione medicalmente assistita! La deroga al divieto
di crioconservazione o di soppressione di embrioni è ammessa soltanto nel caso in cui sia in gioco
la salute della madre, perché questo è l’unico interesse che può bilanciare
l’interesse del feto al concepimento, in quanto, come argomenta il nostro
giudice, “sarebbe illogico ritenere terapeutica per il bambino la sua
eliminazione”. È chiaro che, se un giorno la persona affetta da una
grave menomazione congenita, dovesse chiedersi con
quale diritto i genitori gli hanno “donato” la vita, quella vita, è meglio che
non rivolga l’azione per danno da procreazione al Tribunale di Catania! E poi si sa, il concepito ha molti diritti, ma non quello a
non nascere.
Benché non percepita dal giudice
di Catania, l’assurdità e, ancor prima, la crudeltà di un atteggiamento così
inflessibile di difesa dei pretesi “diritti” dell’embrione devono
essere state avvertite invece dagli organi ministeriali: infatti le “Linee
guida” d’attuazione della legge, emanate nel luglio 2004, introducono un
ammorbidimento (indebitamente, essendo un atto di dubbia natura, ma certo
incapace di derogare alla legge: cfr. P. VERONESI, Le "linee guida" in materia di
procreazione assistita. Nuovi dubbi di legittimità
all'orizzonte, in “Studium
iuris” 2004, 1356 ss.). Ammette
l’indagine reimpianto sullo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ma
solo attraverso tecniche “osservazionali”: il medico
informa la coppia solo se, non andando al di là del
microscopio, accerta “gravi anomalie irreversibili dello sviluppo di un
embrione”, ma con quali esiti possibili? Ipocrita e sibillina la risposta
ministeriale: “Ove in tal caso il
trasferimento dell'embrione, non coercibile, non risulti attuato, la coltura in vitro del
medesimo deve essere mantenuta fino al suo estinguersi”. Il governo, come
ora vedremo, è meno “ortodosso” del giudice nell’interpretare la legge!
3. Il secondo problema che il
Tribunale di Catania affronta è il divieto di ritirare il consenso dopo la
fecondazione. L’articolo 6, terzo comma, della legge dice: “La volontà di entrambi i soggetti di accedere alle tecniche di
procreazione medicalmente assistita è espressa per iscritto congiuntamente… Tra
la manifestazione della volontà e l’applicazione della tecnica deve
intercorrere un termine non inferiore a 7 giorni”. La volontà può essere
revocata da ciascuno dei partner fino al momento della fecondazione dell’ovulo, dopo no. Perciò,
eventuali difetti dell’embrione non possono comportare alcun intervento del
medico né possono giustificare il ritiro della volontà. Da qui nasce il problema:
se la donna non vuole che sia impiantato l’ovulo fecondato, questo può essere
fatto coattivamente? Che il medico insegua, ferri alla mano, l’aspirante madre
pentita per impiantarle l’ovulo, oppure ricorra alla forza pubblica, non è
facile da immaginare, anche perché sembrerebbe contrario al divieto di
trattamenti sanitari obbligatori contenuto nell’art. 32.2 Cost.
Ma il nostro giudice ritiene che, tutto sommato, non si tratterebbe
affatto di una violazione della Costituzione, perché il consenso c’era prima, e
se poi viene revocato, nulla cambia: e che si tratti di un obbligo non
coercibile non è affatto un problema, perché ce ne sono tanti nell’ordinamento.
Detto per inciso, il giudice
questa questione non avrebbe dovuto neppure affrontarla, perché irrilevante ai
fini del giudizio: gli avvocati vi fanno accenno per dimostrare la complessiva
irragionevolezza del sistema, ma non era un’eccezione di incostituzionalità
in senso stretto. E se non se ne fosse occupato, il
giudice si sarebbe risparmiato una brutta figura. Ecco perché.
È noto che
L’unico interesse riconosciuto
all’embrione è quello a nascere. L’embrione è visto in tutta la sua fase
evolutiva, prima come tale e poi come feto, come una macchina che ha un unico
interesse, quello di nascere. Quando il nostro ordinamento accenna agli
interessi del concepito, attribuisce ai genitori (o il tutore che li
sostituisce) il diritto-dovere di agire per proteggerli: è una visione
chiaramente ispirata alla famiglia come “società naturale”, per usare
l’espressione dell’art. 29 Cost. Ma la legge in
questione rovescia la prospettiva: i genitori, che pure si sottopongono ad un
trattamento riproduttivo che proprio nulla ha di piacevole (al contrario della
procreazione naturale), diventano improvvisamente i nemici da cui l’embrione va
difeso. Per converso, l’embrione –
questo essere a cui si vorrebbe attribuire tutto il potenziale dell’essere
umano – improvvisamente viene appiattito, tolto
dall’interezza degli infiniti interessi che nobilitano l’uomo e ridotto ad una
“macchina per nascere”, estratta dalla sua famiglia (in cui poi dovrà pur
vivere, si suppone) e difesa, nella sua “funzionalità”, contro la sua
stessa famiglia! Davvero una bella visione dell’essere umano e delle famiglia stessa: una gravidanza imposta alla madre,
che pure l’aveva voluta, ma non per mettere al mondo a tutti i costi un figlio
segnato da malformazioni e malattie gravi; una nascita imposta ad una macchina,
colpevole soltanto di essere stata messa in moto, incapace di decidere e che
nessuno può fermare, condannata a generare e subire sofferenza. Nessuno può
bandire l’etica dell’espiazione e della sofferenza (anche se l’ordinamento
giuridico saggiamente cerca di arginarne gli eccessi con divieti quali quello
di disporre del proprio corpo), ma che a qualcuno, in
maggioranza in un parlamento democratico, venga in mente di imporla a tutti è
davvero preoccupante: ma l’occidente non è la culla e l’arca del pluralismo e
della tolleranza?
5. Un terzo problema rilevante e
spinoso riguarda la fecondazione eterologa. L’art.
4.3 vieta il “ricorso a tecniche di procreazione
medicalmente assistita di tipo eterologo”. ‘Eterologo’ – a detta dei
dizionari – denota qualcosa che deriva da una specie diversa, ma non è a questa
mostruosa ipotesi che il legislatore vuole alludere (anche in considerazione
del fatto che la legge lo vieta espressamente nell’art. 13.3, lett. d). Nel
linguaggio ginecologico – legislativo vuol dire ciò che è precisato
nell’articolo successivo: “Fermo restando quello stabilito dall’articolo 4,
possono accedere alle tecniche di procreazione
medicalmente assistite coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o
conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”.
Quest’ultimo riferimento ai soggetti “entrambi viventi”
è – si sa – fonte di qualche problema d’interpretazione: mi sembra ragionevole,
ma forse anche inutile, prescrivere che i genitori siano entrambi viventi al
momento in cui si rivolgono al sanitario. Data questa come una certezza “naturale”,
l’altro riferimento sicuro è che è legalmente vietato impiantare
l’embrione nell’utero di una donna diversa da quella che ha prodotto la cellula
– uovo, perché la surrogazione di maternità è punita espressamente dall’art.
12.6. Perciò il requisito di essere “vivente” è
riferibile essenzialmente all’uomo, dato che la morte della madre interrompe
comunque il procedimento di procreazione anche prima dell’impianto
dell’embrione. Ma quand’è che la morte dell’uomo
interrompe il procedimento? Questo resta un problema che la legge non è capace
di risolvere. Nella lotta tra la vita e la morte sembra che il legislatore
simpatizzi in certi casi per la morte (il fatto che il procedimento sia
complesso già nella fase della formazione del consenso informato fa pensare che
la fecondazione assistita non possa legalmente avvenire utilizzando il gamete
congelato dell’uomo premorto), in altri per la vita (l’embrione ormai formato
va comunque impiantato), ma mai per la madre, della
cui volontà sembra non tener alcun conto: lei dà la vita, subisce la morte, ma
non è arbitra di nulla, non può decidere se proseguire nel sogno della maternità
o rinunciare alla prospettiva di affrontarla da sola.
Oltre che vivi ed in età fertile
(traccia di quella imitatio
naturae che ha lungamente dominato anche l’istituto
dell’adozione), i due aspiranti coniugi devono essere anche “coniugati o
conviventi”. Si dà dunque spazio alla cosiddetta “famiglia di fatto”, di solito
ignorate dalla legislazione: le coppie di fatto non
possono adottare bambini, ma possono procreare con la fecondazione assistita. La legge sull’adozione mira, prescrivendo il requisito del matrimonio,
a sgomberare il campo dai single e dalle coppie omosessuali. Qui invece il legislatore è costretto ad affrontare il problema
dell’aspirazione alla procreazione che gli omosessuali possono avere (e non
avere) come tutti gli altri esseri umani, prescrivendo che le coppie siano di
sesso diverso. Affrontato il tabù in termini espliciti, posto per
sicurezza anche il divieto per i single, ecco
che si può consentire l’apertura alle coppie di fatto, purché “conviventi”.
Ma qui sorge uno dei problemi che io non riesco a
risolvere: il divieto di fecondazione eterologa
sembra colpire l’ipotesi di un donatore (maschio, per lo specifico divieto di
cui si è detto poc’anzi) estraneo al rapporto di coppia; ma chi certifica ciò
che sta dentro e ciò che sta fuori al rapporto di convivenza? Una delle poche
ragionevoli obiezioni che viene fatta al
riconoscimento delle coppie di fatto in relazione, per esempio, all’adozione è
che manca la “data certa” in cui la coppia si forma: manca la data di
fabbricazione (e perciò anche quella di scadenza). Mentre chi si sposa ha un
atto formale che fissa la data, la coppia convivente sceglie – come giustamente
ha tante volte osservato
Lo so che è una domanda
sbagliata. Ennesimo esempio di pessima tecnica legislativa, la legge non si
preoccupa di “strutturare” e sanzionare il divieto di
fecondazione assistita da parte di un partner improvvisato, ma introduce in
seguito la “sanzione”: l’articolo 8 dispone infatti che “i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione
medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli
riconosciuti della coppia che ha
espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime”. Ecco dove sta la garanzia del “divieto”, il riconoscimento legale
della paternità. L’articolo 9 aggiunge che “qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di
tipo eterologo in violazione… il coniuge o il
convivente, il cui consenso è ricavabile da atti concludenti, non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità…”.
Così il sistema chiude e spera di reggere giuridicamente, salvo poi mantenere, nel
successivo art. 12.2 della legge, una sanzione per il sanitario che applica le tecniche procreazione medicalmente assistita ad una
coppia non convivente; ma per lui la convivenza della coppia non è un problema,
perché l’unica cosa di cui deve assicurarsi è di richiedere ed ottenere
l’autocertificazione dei requisiti da parte della coppia (sì, anche del fatto
di essere “entrambi viventi”), restando a carico di questa – secondo le regole
generali – la responsabilità per le eventuali dichiarazioni mendaci (per cui è
astrattamente possibile che in un aula giudiziaria ci si trovi un giorno a
discutere seriamente su quando una coppia possa definirsi “convivente”).
La fobia sessuale del
legislatore italiano è proverbiale. All’estensore del codice civile è riuscito di scrivere l’intera disciplina del matrimonio, della
famiglie e della procreazione senza neppure nominare la parola “sesso” o
prescrivere la – come si direbbe oggi, in modo politically correct – “diversità di genere” dei
coniugi. Ma oggi le maglie della coscienza sociale si
sono fatte più larghe, e il rafforzamento dell’argine contro l’omosessualità
richiede l’impiego di materiali lessicali più specifici. Ecco
l’esplicito divieto di praticare la procreazione medicalmente assistita a
coppie dello stesso sesso e, per evitare facili aggiramenti, anche a
coppie “eterologhe”. Pura ipocrisia, perché come ho
avuto modo di sostenere in uno scritto semiserio sull’argomento (Il figlio di Lady Chatterley, in “Quad.cost.”
2002, 793 ss.), di procreazioni “eterologhe” è piena
la storia segreta delle nostre famiglie e la storia ufficiale o ufficiosa di
tante case regnanti europee. Oggi la procreazione eterologa
non è affatto vietata, lo è soltanto se medicalmente
assistita.
6. L’ordinanza del tribunale di
Catania propone un tema di interesse assai ampio per
il giurista. Essa prende le mosse da una premessa metodologica impegnativa su
cui merita soffermarsi:
Sempre è dovuto da
tutti il rispetto alle leggi, ma sommamente ciò è doveroso in questa materia,
che, come si è detto, ha ad oggetto proprio i limiti da porre al potere
dell’uomo di agire su uno dei più grandi misteri della natura: l’origine della
vita…
Man mano che ogni legge “vive” nel tempo, i
suoi contenuti e i suoi precetti per così dire si adattano all’ordinamento
giuridico nel suo complesso, sicché, con il passare del tempo e il mutare
dell’ordinamento giuridico del paese nel suo insieme, la “intenzione del
legislatore” che il 1° comma dell’art. 12 delle preleggi
indica come uno dei criteri ermeneutici delle legge non coincide più, in tanti casi, con il pensiero
e la volontà della concreta assemblea parlamentare che la legge ha approvato e
si trasforma in una sorta di anima propria e immanente della legge, che a volte
conserva pochi collegamenti con il pensiero dei suoi concreti autori.
Ciò non può dirsi, però, di una legge
approvata solo poche settimane fa e all’esito di un dibattito tanto ricco e
approfondito quale quello al quale si è appena fatto
riferimento. Sicché l’“intenzione del legislatore” ha in questo momento in
questa materia il suo più grande rilievo e la sua elusione, da parte di ognuno che deve applicare la legge,
costituirebbe grave violazione del fondamento stesso della democrazia, facendo
sovrano l’interprete in luogo del legislatore.
Ho riportato per esteso questo
passo perché esso mi sembra sintetizzare mirabilmente uno degli argomenti più
frequenti tra quanti accompagnano l’imbarbarimento
istituzionale che ha colpito il nostro Paese.
Nella mia scarsa cultura
giuridica, questo ragionamento ha fatto vibrare un ricordo, di una gloriosa
pagina “militante” di Karl Schmitt,
Hitler trionfante (Kodifikation oder Novelle?, DJZ 1935, 920 ss.), in cui si
teorizza la funzione interpretativa del Führerprinzip, l’idea che la “intenzione del legislatore” divenga
“unmittelbar und in der intensivsten Weise positives Recht”. È l’idea di
un legislatore sovrano, a cui l’investitura democratica conferisce un potere
assoluto che vincola il giudice anche al di là del
testo normativo: un trionfo della volontà della maggioranza su ogni altra
istanza, compresa la divisione dei poteri, l’autonomia della magistratura, la
funzione normativa della costituzione. Quante volte ritroviamo questo tipo di
considerazioni nei discorsi dei nostri politici, sdegnati a causa di qualche
decisione emanata dai giudici o dalla Corte costituzionale? È singolare che
oggi sia invece un giudice a riproporcele.
Nel pensiero del Tribunale di
Catania, come nell’ideologia diffusa nel ceto politico, la costituzione non c’è:
la sua tutela, la sua interpretazione, il suo “inveramento”
non possono essere affidati ad altri che al parlamento democraticamente eletto
e alla maggioranza che esercita il potere legislativo. Questa, per i giudici,
deve essere una direttiva interpretativa inderogabile. La legge, dunque, non
può essere criticata (e quindi impugnata davanti alla Corte costituzionale), né
interpretata “secondo costituzione”, perché significherebbe “eludere” la
volontà del legislatore sovrano. Il ministro Castelli
esulta, non c’è dubbio: è proprio così che i giudici applicano la legge e si
astengono dal “fare politica”!
A parte l’evidente infrazione ai
principi fondamentali dello Stato di diritto, che regge proprio sulla
separazione tra la politica e il diritto (che del potere politico deve essere il
limite e il fondamento), vi è poi un altro profilo che non può certo essere
trascurato. L’assunto per cui ciò che genericamente
viene chiamato “embrione” sia “vita”, sia – come dice uno degli slogan più noti
– “uno di noi”, che statuto ha? Vi è qualche prova oggettiva, qualche dimostrazione condivisa, qualche elemento di verità
incontrovertibile? Se risaliamo a prima della nascita, incontriamo una serie di
stadi evolutivi del “concepito” – i cui “diritti” la legge intende tutelare - che
hanno rilevanza giuridica diversa dallo status
del nato e a sua volta differenziata man mano che si
regredisce nel tempo della gestazione. Se si retrocede all’embrione e, ancor
prima, allo zigote, all’ootide e a tutte le fasi che
la legge non distingue, includendole nel termine impreciso ‘concepito’ ed
estendendo ad esse un unico status di tutela giuridica, perché fermarsi nel ripercorrere il
processo della fertilizzazione dell’ovocita? E perché non affrontare il tema della tutela giuridica dei
gameti? Perché negare la personalità individuale dello
spermatozoo (così ben impersonata da Woody Allen nel noto film), dalla cui lotta per la vita tutto
trae origine? Qualche base testuale pure l’abbiamo
nelle Sacre scritture. La storia di Onan (Genesi, 38)
lo dimostra, presentandoci anzi quello che è probabilemente
il primo caso documentato di “procreazione assistita” (non medicalmente, però).
Onan è stato invitato da suo padre Giuda a fecondare
la moglie di suo fratello defunto; ma a Onan non piace l’idea di divenire il padre di una prole che
non sarebbe stata considerata sua (già, ecco riaffiorare il tema del
riconoscimento del nato da procreazione “eterologa”!)
e perciò fonda la fortunata pratica, che da lui prende appunto il nome, di disperdere
il seme per terra per non diventare il padre dei figli del fratello. E’ un
racconto modernissimo, ma la scelta di Onan “non fu gradita al Signore, il quale fece morire anche
lui”. Come si vede un principio di tutela dello spermatozoo, per di più
duramente sanzionata, non manca affatto.
Scherzi a parte, quello che mi
preme dimostrare è solo che la legge – come è a tutti
evidente – vuole maldestramente armare con gli strumenti punitivi dello Stato
ciò che corrisponde ad una visione della vita e della sua morale che è
condivisa da una parte limitata della società. Non importa se si tratti di una
parte minoritaria o maggioritaria, non è questo che conta: in uno Stato
costituzionale e pluralista nessuno, per quanto numericamente “pesante”, ha il
diritto di imporre le proprie opzioni etico-religiose agli altri. Nessuno costringe altri ad abortire
o a sottoporsi a tecniche di procreazione medicalmente assistita: ma nessuno
può neppure imporre agli altri di non farlo, se non in nome di
interessi fondamentali che sono ampiamente condivisi e perciò scritti
nella Costituzione. Ed invece la legge sposa una concezione del tutto
discutibile di “vita” e di “persona”, di ciò, dunque, che non si è neppure in
grado di determinare con sicurezza l’inizio, il quale comunque
non sarebbe accertabile se non con gli strumenti del laboratorio: un evento che
sfugge alla percezione diretta delle persone ma da cui scatta un “regime
giuridico” che ha un impatto duro, inflessibile e persino tragico per coloro
che l’hanno voluto.
Lo Stato deve astenersi
dall’ingerirsi nelle opzioni etiche e religiose delle
persone e surrogarsi ai singoli e alle formazioni sociali nella conduzione
della propria vita personale: non è questo che vuole esprimere il “principio di
sussidiarietà orizzontale”? Non è
per questo che il mondo cattolico si batte sul fronte della scuola
privata, dei servizi sociali, della famiglia? Come stanno insieme la difesa della
sussidiarietà e questa legge? L’idea per cui lo stato deve uscire dalla società civile e lasciare
alle libere scelte delle famiglie l’istruzione, l’assistenza, le scelte
culturali eccetera, significa riconoscere non ai singoli, ma ai nuclei – e la
coppia è un nucleo - la libertà di scelta e di gestione; come si concilia questa
idea con uno Stato impiccione che sbircia sotto le lenzuola per controllare se i
partner sono “omo” o “etero” (ma non troppo “etero”, s’intende), costringe il giudice a ficcare l’occhio
nella provetta, va a controllare quanti sono gli embrioni conservati nel
congelatore? Che tipo di ideale di società ne esce?
Qual è la componente, diciamo, di politica legislativa
che emerge da questa legislazione per ciò che riguarda i rapporti tra libertà
individuale, autonomia delle formazioni sociali e potere pubblico? Il messaggio
che io leggo in tutto ciò è terrorizzante, è di una profonda violenza alla privacy delle persone, alla libertà
delle coscienze, al pluralismo delle concezioni delle vita
e, alla fine, alla stessa sussidiarietà.
L’idea che la vita sia un dono, mi può anche andar bene; ma l’idea che la vita
vada accettata comunque, anche al costo della sofferenza, questa è una scelta
che posso ben ammettere che altri facciano (poi vedranno se chi ha donato loro
la vita sarà proprio tanto contento dell’uso che è stato fatto del suo regalo,
sprezzato e reinvestito nella speranza di ottenere un dono migliore nella
prossima vita). Io capisco benissimo che uno abbia una visione religiosa della
vita, consideri questo mondo una valle di lacrime, ritenga
che la vita vera sia in un’altra vita. Va benissimo. Ma
chi gli dà il diritto di imporre a me questa visione? Non c’è nessuno spazio in
un paese costituzionale come il nostro, che professa principi di pluralismo,
per imporre, con la forza della maggioranza, un modello di vita, una concezione
della esistenza. E che cosa
è, se non la violenta imposizione di una visione ideologica, il fatto di
vietare la selezione degli embrioni per impedire che la povera donna che da
dieci anni sta cercando di diventare madre, diventi madre nolente di un figlio deforme e trasformi contro la sua volontà la sua vita in una tragedia?
Ma il nostro giudice – e tanti altri con lui - teme che
così si apra la strada alla selezione eugenetica, trascurando che l’eugenetica
è cosa ben diversa. Qui non si pretende di avere un figlio bello, alto, biondo
ed ariano, che in certi casi farebbe anche un po’ ridere: qui si pretende
semplicemente di avere un figlio non affetto da gravi deformità, del legittimo
desiderio dei genitori di essere tali ma non al prezzo
di una vita fatta di tormenti. Vietarlo per legge è una violenza che alla mia
educazione classica fa ribrezzo perché mi ricorda l’hybris della cultura greca: è un
gesto di tracotanza, di violenza contro gli dei da parte di empi
che non ne temono la giusta ira punitiva.
7. Vi è ancora un ultimo profilo,
assai delicato e di grande interesse per il diritto costituzionale: i limiti
che la legge impone alla ricerca scientifica.
L’articolo 13 della legge pone
un divieto drastico, per di più sanzionato penalmente.
Esso dispone: “E’ vietata qualsiasi
sperimentazione su ciascun embrione umano. La ricerca clinica e sperimentale su
ciascun embrione umano è consentita a condizione che si proseguano
finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte
alla tutela della salute e dello sviluppo dell’embrione stesso”. Non capisco
bene che cosa significhi la deroga al divieto, e mi rivolgo perciò ai medici:
si può fare una ricerca sull’embrione per curare l’embrione
stesso? E si può immaginare di impiantare un embrione
su cui si è svolta la supposta attività di ricerca senza conoscerne il
risultato?
La libertà di ricerca è ben tutelata
dalla nostra costituzione, che le dedica norme
apposite. In America, dove non c’è una norma costituzionale sulla libertà della
scienza, la tutela della libertà della scienza viene ricompresa
nella libertà di espressione: la conseguenza è che sorge
il grosso problema di determinare quando la sperimentazione scientifica, che è
un’attività materiale di per sé distinta dall’elaborazione e la diffusione
delle proprie idee, sia ancora collegabile alla libertà di espressione e quando
consista invece in un’attività che sta completamente fuori da quella protezione.
Da noi la libertà della scienza ha un riconoscimento a sé, e per di più –
fortunatamente – non vi sono stati episodi tali da provocare una giurisprudenza
della Corte costituzionale apposita, tale da chiarire
l’intensità e i limiti della protezione costituzionale. Siamo perciò privi di esperienze e strumenti per affermare con sicurezza se e
quando una limitazione legislativa della ricerca scientifica sia compatibile
con la costituzione. Ma, se ragioniamo anche noi con le categorie che la nostra
giurisprudenza costituzionale ha elaborato per definire il raggio di protezione
della libertà di espressione e le applichiamo alla libertà
della scienza, possiamo ottenere finalmente un test a cui sottoporre leggi come
queste, per verificare se esse siano o meno compatibili con le garanzie
costituzionali. Come ovvio, la libertà di espressione,
come anche la libertà della scienza, possono incontrare dei limiti posti dalla
legislazione a protezione di interessi rilevanti per la società: ma questi
divieti non possono essere introdotti liberamente dal legislatore, perché per
essere considerati legittimi devono superare un test che ne saggi la
compatibilità con la protezione che la costituzione assicura alla libertà.
Il primo passo di questo test verifica
se questi divieti siano content neutral, ossia se possono considerarsi neutri o non neutri rispetto al contenuto della ricerca. La concezione della
neutralità rispetto al contenuto è facilmente spiegabile con un esempio
classico relativo alla libertà di espressione: se la
polizia vieta di bruciare le bandiere per evitare il pericolo d’incendio degli
edifici, questo divieto è neutro rispetto al contenuto; ma se invece vieta di
bruciare le bandiere perché sono un simbolo della patria, il divieto non è più
neutro rispetto al contenuto perché ciò che si colpisce è proprio l’espressione
di quel pensiero. Questo tipo di distinzione si applica a tutte le libertà fondamentali:
per esempio, una limitazione della libertà di circolazione è tollerabile se serve
a proteggere valori “neutri” come il diffondersi di una epidemia,
non lo è affatto se colpisse invece determinati soggetti in ragione delle loro
idee politiche o religiose.
Il divieto della sperimentazione
sugli embrioni e sulle cellule staminali da essi prelevate è rivolto ad uno specifico contenuto della
libertà di ricerca o è neutro rispetto ad esso? La risposta mi pare ovvia: il
divieto colpisce una sola forma di ricerca, definita attraverso il generico
riferimento all’embrione, quale sia l’obiettivo scientifico che
il ricercatore si proponga. A parte l’ipotesi di una ricerca svolta su un
embrione al fine di curare quello specifico embrione - e a parte la disgustosa
previsione contenuta nel DM 4 agosto 2004 che autorizza la sperimentazione
sugli “embrioni orfani” al fine di migliorare le tecniche di crioconservazione, da svolgersi esclusivamente nella struttura
ospedaliera da cui proviene il Ministro emanante e che ha come obiettivo solo
di prolungare il gelido limbo di azoto in cui “quelli
come noi” vengono puntigliosamente conservati in attesa della loro “naturale” estinzione
– ogni altra sperimentazione è vietata per il solo fatto di svolgersi su una
cellula frutto della procreazione medicalmente assistita, quale ne sia lo
stadio di sviluppo, lo stato di salute, il destino e, per altro verso, quale
sia la finalità della ricerca stessa. Perché la sperimentazione animale non é
vietata, ma attentamente disciplinata, e quella sulle cellule embrionali sì,
sempre e comunque? Perché gli
animali non sono “uno di noi”? E questa non è un’opzione
ideologica, una visione, come dire, religiosa della vita e del valore
dell’embrione? È nel nome di questa precisa scelta di contenuti etici che si vieta la ricerca scientifica. Il divieto perciò non è
“neutro” rispetto al contenuto della ricerca.
Ma, si potrebbe obiettare, il
divieto presiede alla difesa dell’integrità dell’uomo, in quanto specie, dai
tentativi di creare mostri genetici, creature artificiali ecc. Chi sostiene la
legittimità della legge evoca i fantasmi della clonazione e della “produzione di ibridi e chimere” (espressamente punita dall’art. 13.3,
lett. d) e l’esigenza quindi di impedire questi eventi. Il secondo test si pone
quindi un quesito ulteriore: questo obiettivo è
sensato? Il divieto di svolgere ogni tipo di ricerca sugli embrioni è
necessario per realizzare l’obiettivo? Sull’argomento ho l’impressione che si dicano molte sciocchezze: la clonazione umana sembra proprio
che non sia alle porte; anche se lo fosse, se sono gli abusi delle pratiche di
ricerca e di sperimentazione sugli embrioni che si vogliono evitare, le vie da seguire
sono altre. A qualcuno è mai venuto in mente di proibire la ricerca nel campo
della fisica nucleare per impedire la proliferazione delle bombe atomiche? Se
applicassimo i normali test cui sono sottoposti i
limiti che la legge oppone alla libertà di espressione, la risposta sarebbe
semplice. Per assicurare che la ricerca non abusi delle sue potenzialità, non è
certo necessario un divieto penale a carico della ricerca stessa, ma – come ha detto
È questa del resto la regola che
presiede alla disciplina delle pratiche mediche: è la regola che la Corte
Costituzionale ha sancito in una sentenza recente, la 282/2002, in cui si chiarisce
che il legislatore non può intervenire in merito alle decisioni che i medici
assumono circa le scelte tecniche da compiere, perché le pratiche mediche non possono
essere oggetto di scelte politiche. Non vi sono ragioni per ritenere che le pratiche
relative ai rimedi alla infertilità non siano da
trattare come tutte le altre pratiche scientifiche strumentali alla ricerca
medica. Può essere che la ricerca oggi non sia ancora sviluppata, che l’utilizzazione delle cellule staminali
prelevate dagli embrioni per la cura di malattie genetiche non sia ancora
possibile, che altre strade e altri “materiali” siano preferibili: ma queste
ragioni possono giustificare un divieto di sperimentare pratiche mediche non
ancora garantite nei risultati dalla ricerca sperimentale, non certo il divieto
di svolgere ogni sperimentazione scientifica. Bloccare la possibilità di
sviluppo della medicina in Italia per un pregiudizio ideologico e in nome di
una visione religiosa dell’embrione rievoca