I. Ho sempre ritenuto che la teoria di Esposito sulla controfirma ministeriale abbia il notevole pregio di essere coerente con la lettera e con lo spirito della Costituzione.

Perché sia coerente con la lettera è del tutto evidente: l’art. 89 si riferisce a “ministri proponenti” e non al “ministro competente”. Sono incline a non seguire teorie “forti” della Costituzione, che tendano ad ispessirne il significato con l’importazione di componenti tratte dai “valori”, dalla “costituzione materiale” nei suoi vari significati o dai modelli teorici, ma condivido piuttosto una lettura che potrebbe definirsi “minimale” del testo: è proprio nel testo – mi sembra - che l’interprete trova il limite non superabile alla sua attività, il metro di “falsificabilità” della sua teoria[1]. Che la lettera dell’art. 89 Cost. costituisca una “svista”, un errore nella scrittura tecnica del testo, sarebbe un fatto – semmai fosse dimostrato sul piano storico – di scarso rilievo per l’interprete, che potrebbe rassegnarsi ad approdare ad una lettura svalutativa del testo licenziato dall’Assemblea costituente solo come extrema ratio, quando registrasse l’assoluta impossibilità di ritessere il “sistema” costituzionale senza ricorrere alla svalutazione dell’elemento testuale. Invece, la disposizione in questione, così com’è scritta, corrisponde alla perfezione allo “spirito” della Costituzione, alle esigenze del “sistema” in cui si inserisce il ruolo del Presidente della Repubblica, caratterizzato dalla sua irresponsabilità politica.

La nostra Costituzione mostra di essere scritta da chi conosce le regole tecniche della redazione dei testi normativi e perciò non si avventura a definire ciò che il Presidente della Repubblica può e ciò che non può fare; sceglie invece la strada di determinare il ruolo e i poteri del Presidente circoscrivendone la responsabilità. Là où est la responsabilité, là est le pouvoir, dice la famosa sentenza di Duguit, che sembra proprio scritta a commento degli articoli della nostra Costituzione: “la mancanza di responsabilità quindi è solo espressione e riaffermazione della mancanza di potere”[2]. Il Presidente è estromesso dal circuito della responsabilità politica: siccome in un sistema democratico nessun atto di potere può essere esentato da responsabilità politica (oltre che giuridica), ecco che la controfirma ministeriale indica chi è il soggetto che si assume la responsabilità degli atti del Presidente. Di quale grado è la sua responsabilità? Risponde solo di una tenue culpa in vigilando? Quel “proponenti” costituisce la risposta a questa domanda: il ministro o i ministri che controfirmano rispondono “come se” avessero formulato la proposta, e non possono esimersi dal rispondere dell’atto presidenziale celandosi dietro alle presunte prerogative del Capo dello Stato. Come è stato detto[3], non si tratta di “proposta in senso tecnico”, come se fosse giuridicamente obbligatorio che il procedimento di emanazione dell’atto si avvii con l’iniziativa ministeriale: anche perché la derivazione del modello procedurale dal diritto amministrativo sarebbe fuori luogo, in un ambito in cui certo non si può porre un problema di “violazione di legge” per le prassi che deviassero da esso: la “proposta” indica invece l’estensione della responsabilità politica che il Parlamento può far valere nei confronti del Governo.

Una lettura fedele al testo non comporta perciò la necessità di un’adesione in toto alla ricostruzione che Esposito propone del ruolo del Capo dello Stato e del complesso rapporto che lo lega al Governo. A mio modo di vedere, la controfirma del ministro “proponente” non incide tanto su questo versante della teoria costituzionale, quanto su quello del rapporto politico che lega il Governo al Parlamento: indica la “misura” della responsabilità politica del Governo in relazione agli atti del Presidente della Repubblica; e ci dice che in linea di principio questa responsabilità non varia in ragione del tipo di atto presidenziale e della sua genesi. La regola è che il ministro risponde politicamente dell’atto: se è chiamato dalle Camere a renderne conto, potrà e dovrà spiegare la genesi di esso, ma non potrà accollare al Capo dello Stato responsabilità che – per disposto dell’art. 90.1 Cost, - non gli possono essere contestate. Perciò non mi convince la tesi per cui la controfirma avrebbe carattere “necessario e condizionante… solo nei confronti degli atti presidenziali scaturenti da una proposta ministeriale”[4], così come non mi convince la tesi (per altro maggioritaria, ed ora sottoscritta dalla Corte costituzionale) che differenzia gli atti presidenziali a seconda del prevalere della volontà di uno o dell’altro soggetto nella formazione dell’atto.

Per quali motivi il Presidente della Repubblica si determini ad emanare un atto è argomento che non riguarda il giurista, ma lo psicologo. Per scopi descrittivi e didattici si possono tipicizzare gli atti del Capo dello Stato secondo schemi che riflettono l’id quod plerumque accidit, purché non si scivoli poi di piano, confondendo le regolarità con le regole.

Così, per esempio, il rinvio della legge alle Camere è generalmente classificato, sin dai tempi dei primi rinvii operati da Einaudi[5], come un atto tipicamente presidenziale[6]: ma ciò non impedisce affatto che talvolta sia il Governo a sollecitare il Presidente della Repubblica a bloccare una legge[7] - per esempio, perché è sfuggita al necessario controllo finanziario[8] - senza che perciò si debba sostenere che la “proposta” sia illegittima o riesumare “la stantia raffigurazione del rinvio quale atto sostanzialmente governativo”, sostenuta da Tosato nel dibattito alla Costituente[9]. I rapporti tra Governo e Presidente della Repubblica sono coperti da uno spesso strato di riservatezza e non c’è modo di sapere con esattezza chi di fatto abbia voluto il rinvio. Anche per questo motivo, la genesi dell’atto poco interessa al giurista, che deve invece occuparsi dell’imputazione della responsabilità di esso: tale imputazione è chiaramente indicata dalla Costituzione, che ne determina anche l’estensione. Il ministro risponde “come se” avesse proposto l’atto: di fatto – come per lo più accade – il rinvio non l’ha proposto lui? questo non l’esenta dal rispondere alle Camere – se richiesto - del suo comportamento, di non aver cercato di convincere il Capo dello Stato a promulgare l’atto, insomma del non aver esercitato un ruolo “meramente notarile”.

So bene che l’esigenza di differenziare il “valore” della controfirma si è avvertita in relazione ad alcuni specifici atti. È noto infatti che la questione s’impose già in occasione della discussione parlamentare di quella che poi divenne la legge 87/1953: “a soli tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione i giuristi manifestavano, pertanto, la chiara intenzione di andare al di là del testo della carta, impadronendosi dei suoi disposti per operazioni ermeneutiche affidate all’apporto talora impalpabile dell’elaborazione di più o meno definiti elementi che vanno al di là della lettera della Costituzione”[10]. Le ragioni di opportunità, di equilibrio sistematico, che hanno sorretto questa interpretazione “sostitutiva” della Costituzione sono ben note e assolutamente comprensibili, ma non mi sembrano condurre necessariamente al risultato cui sono invece approdate nell’opinione prevalente.

A parte l’ovvia considerazione che sarebbe stato comunque preferibile agire sul piano della revisione costituzionale, piuttosto che attraverso un’interpretazione svalutava del testo vigente, credo che la soluzione avrebbe potuto essere ricercata altrove. La controfirma è un sistema di “controllo a doppia chiave” del circuito decisionale, per cui sarebbe stato comunque possibile al Presidente della Repubblica garantire l’indipendenza dei giudici dal Governo attraverso un attento vaglio dei candidati “proposti”, se mai il Governo avesse avuto la scarsa sensibilità di proporli. Certo questo avrebbe richiesto un comportamento ispirato al fair play da parte delle istituzioni coinvolte e lo sviluppo di un metodo convenzionale di designazione rispettoso del principio di leale cooperazione: ma un sistema costituzionale non può mai funzionare a dovere senza questo “lubrificante”, basandosi sulla sola applicazione di regole[11]. Derogare al rispetto della lettera della costituzione per supplire al difetto di affidabilità del corretto funzionamento dei rapporti istituzionali non mi sembra né un buon risultato né, ancor meno, una premessa utile su cui costruire l’interpretazione della Costituzione. È davvero paradossale che una determinata applicazione della Costituzione, elaborata mezzo secolo fa sotto la forte influenza della situazione politica contingente (un blocco di maggioranza parlamentare che si avviava a consolidarsi e a resistere al mutamento per i decenni successivi, sicché le nomine dei giudici costituzionali avrebbero potuto, se imposte dal Governo, deformare permanentemente il ruolo della Corte costituzionale), riesca a condizionare ancor’oggi l’interpretazione del testo sino al punto di indurre la Corte costituzionale a riscriverlo.

Non si è invece dato sinora altrettanto peso ad un altro atto generalmente ascritto a quelli tipicamente presidenziali (come mostra di ritenere anche la sent. 200/2006): la nomina dei senatori a vita (riflettere su questo atto può servire a rispondere al quesito n. 1 posto dalla Direzione della Rivista).

È chiaro il motivo, tutto di fatto, per cui il tema non ha ancora suscitato la giusta attenzione: prima di ora l’incidenza politica dei senatori di nomina presidenziale è stata irrilevante, un’ipotesi affatto teorica. Ma oggi, nella malaugurata ipotesi che si dovesse procedere alla nomina di un nuovo senatore a vita nel corso della legislatura attuale, il dibattito si farebbe incandescente. A chi spetterebbe la “proposta”?

Già la formulazione della domanda dimostra in realtà la sua inutilità. Al contrario della nomina dei giudici costituzionali, quella dei senatori a vita non è (stando all’opinione assolutamente prevalente) un atto dovuto, e questo semplifica di molto il problema. Se il Governo e il Presidente non trovassero l’accordo, la nomina non si farebbe e non vi sarebbero altre conseguenze giuridiche; ma quelle politiche sarebbero invece rilevantissime, data la situazione contingente. Probabilmente il Presidente della Repubblica eviterebbe di effettuare la nomina, per non incidere sui destini della maggioranza: ma in questo modo potrebbe determinare una sorta di “eutanasia passiva” della legislatura; forse, per questo motivo, il Capo dello Stato potrebbe essere indotto allora ad evitare la crisi e ridare ossigeno alla maggioranza con una nomina ad essa favorevole; o almeno potrebbe cercare, attraverso la nomina di un nuovo senatore “neutro”, di evitare l’accusa di concorso in omicidio. Molte le soluzioni possibili, dunque: ma è immaginabile che il Presidente della Repubblica proceda in assoluta e incontestata autonomia a scegliere il futuro senatore dal cui (forse imprevedibile) voto potrebbero dipendere le sorti del Governo e della legislatura? E se il Presidente, con il consenso del Governo, decidesse invece di riesumare la prassi interpretativa inaugurata da Pertini e ripresa da Cossiga[12] e, al dichiarato scopo di stabilizzare anche al Senato la maggioranza chiaramente espressa nel voto alla Camera[13], procedesse ad una classica “infornata” nominando cinque nuovi senatori favorevoli al Governo[14]? È immaginabile che anche in questi casi il Governo si trinceri dietro alla classificazione dell’atto presidenziale, ora suffragata dalla Corte costituzionale, per rifiutare di rispondere politicamente delle nomine che pure ha concorso a compiere attraverso la controfirma, ribadendo la sua posizione “meramente notarile in quanto volta ad accertare la costituzionalità formale dell’atto e l’autenticità della sottoscrizione”[15]? La classificazione degli atti del Presidente della Repubblica non ci verrebbe certo in aiuto per rispondere a questi quesiti, non potendo fornirci un criterio normativo di un qualche pregio.

 

II. È chiaro che la ricostruzione accolta è smentita dalla sent. 200/2006; ma anche la Corte costituzionale può sbagliare (del resto la sua giurisprudenza non è affatto priva di clamorosi “pentimenti”[16]). A mio avviso la sentenza è sbagliata per due diversi profili.

Il primo è di opportunità o – per usare la nota locuzione impiegata per definire proprio il potere del Capo dello Stato nel rinvio delle leggi – di “merito costituzionale”. Invero, il primo errore è da imputarsi al Presidente della Repubblica che, mal consigliato dal suo staff tecnico, ha compiuto un atto che un Presidente non dovrebbe compiere se non di fronte a casi in cui è in gioco la sopravvivenza stessa dell’ordine costituzionale: formalizzare il dissenso con il Governo e farlo emergere in un contenzioso giurisdizionale, rompendo quello che è un rapporto di necessaria collaborazione. Certo, il conflitto di attribuzione serve a difendere la legalità costituzionale contro le derive che l’assetto dei poteri subisce nella prassi, ma in presenza di una realtà politico-istituzionale già troppo compromessa dall’elevata litigiosità, il Presidente della Repubblica dovrebbe cedere a simili reazioni solo quando si tratti di bloccare comportamenti gravissimi (come l’approvazione, unilaterale e a poche settimane dal voto, di una riforma elettorale per la cui fattura tecnica si sono impiegate le qualificazioni meno lusinghiere), non certo per difendere prerogative proprie, per altro assai dubbie, in relazione ad un caso particolare, di indubbia rilevanza umana, ma certo non unanimemente valutato dall’opinione pubblica né decisivo per le sorti della Repubblica. Ma visto che il Presidente è stato indotto a muovere guerra, sarebbe stato quantomai opportuno che la Corte esercitasse, come altre volte ha fatto, la sua funzione didascalica per spiegare che tali questioni si devono risolvere con la trattativa e l’accordo, non con i ricorsi. Avrebbe potuto semplicemente affermare che sbaglia il ministro quando rivendica un potere esclusivo di avviare la procedura e rifiuta di collaborare lealmente al provvedimento di grazia promosso dal Presidente della Repubblica; ma che sbaglia il Presidente quando a sua volta rivendica un potere esclusivo di decidere della grazia, relegando il ministro al compimento di “atti dovuti”[17].

Forse qualcuno avrebbe rimproverato alla Corte di ricorrere ad una sentenza “pilatesca”. Ma allora la sent. 200 deve essere salutata come un atto di coraggio da parte della Corte costituzionale, tante volte accusata di schivare i problemi politicamente più delicati? Un atto di responsabilità, per risolvere un problema umano che altrimenti non si sarebbe mai risolto? Non direi, perché la Corte ha atteso, per emanare la decisione, che la maggioranza parlamentare fosse cambiata, che il Governo fosse scaduto dalle sue funzioni (la sentenza è stata depositata il giorno dopo il giuramento del nuovo Governo), che fosse cambiato lo stesso Presidente della Repubblica (tre giorni prima del deposito): insomma, che si verificassero tutte le condizioni politiche perché il problema di quello specifico atto di grazia fosse superato. Quindi, si tratta di una sentenza di ben scarsa utilità pratica, che però, per una questione non certo centrale nella vita del paese, affronta un tema cruciale (nel senso che cruciale è l’istituto della controfirma per la comprensione dell’intera “forma di governo”) e lo fa proponendo un’interpretazione del “testo” costituzionale che ne svaluta la lettera, la sostituisce con parole diverse.

Qui si manifesta il secondo errore in cui la Corte mi sembra sia incappata, un errore di strategia giudiziaria. “Sostituire” i termini impiegati nella Costituzione significa accreditare indirettamente le opinioni meno lusinghiere sulla fattura tecnica della carta costituzionale e sulla sua precettività, opinioni che alimentano per altro l’incessante ricerca di “riforme” costituzionali da parte di quasi tutte le forze politiche. Mi pare francamente un pessimo risultato, ulteriormente aggravato da questa circostanza: che essendo assai infrequente che il tema della controfirma venga sottoposto al giudizio della Corte, questo “precedente” rischia di restare privo di ulteriori verifiche, precisazioni o smentite. Né mi auguro che la Corte abbia presto l’occasione di ritornare sulla questione della controfirma, perché vorrebbe dire che i rapporti tra le istituzioni costituzionali si sarebbero ulteriormente deteriorati.

C’è però da aggiungere che la Corte costituzionale, non avendo approfittato dell’occasione didattica offertale per ammonire i protagonisti a ricercare la collaborazione reciproca e non lo scontro giudiziario, potrebbe viceversa dare la stura a numerosi potenziali micro-conflitti: per ogni atto del Presidente della Repubblica si potrà riaprire la discussione se nel sistema “a doppia chiave” debba prevalere la volontà di uno o dell’altro protagonista. E potrebbe anche verificarsi il caso opposto (giustamente tematizzato dal quesito n. 2 posto dalla Direzione): che venga fatto valere dal Governo, per “reciprocità”, l’obbligo “notarile” del Presidente della Repubblica di formare gli atti “sostanzialmente governativi”. Che vantaggio ne avrebbe ricavato allora il “sistema costituzionale”? Aver manipolato il testo della Costituzione può apportare maggior chiarezza ai rapporti tra le istituzioni? Mi sembra che il risultato rischi d’essere esattamente l’opposto. Anche perché dal ragionamento impiegato nella motivazione della sentenza è del tutto assente il soggetto che è preposto a far valere la responsabilità del ministro controfirmante, il Parlamento.

È davvero singolare che tutto il dibattito sul potere di grazia stia racchiuso nelle relazioni “bilaterali” tra ministro (ed eventualmente il Governo) e il Presidente, senza mai coinvolgere il Parlamento (che infatti non compare mai nella motivazione della sentenza della Corte): come se non spettasse al Parlamento intervenire a giudicare del comportamento assunto dal ministro nei casi in cui sia in discussione la concessione della grazia, almeno quando essa assuma una connotazione “politica”. La sentenza 200/2006 consente viceversa al Ministro della Giustizia, schermandosi dietro alla pretesa “tecnicità” della sua controfirma, di sgusciare dal circuito della responsabilità politica e allentare tanto gli obblighi nei confronti del Parlamento quanto i vincoli di collegialità con il Governo. Come è stato notato[18], la decisione della Corte costituzionale giunge al risultato di derogare “alla configurazione unitaria dell'organo Governo, ex art. 95, comma 1, Cost.”, confermando la tesi (a mio avviso singolare: e con ciò rispondo implicitamente ai quesiti n. 5 e 6 posti dalla Direzione) per cui il Ministro di Giustizia si porrebbe come “un centro d'iniziativa - in materia di giustizia - giuridicamente sciolto da vincoli collegiali e dotato di una libertà di manovra sconosciuta agli altri Ministeri”.

Così però si interrompe il circuito della rappresentanza, perché si ammette che vi siano atti di potere sottratti a tale circuito, per i quali il ministro non risponde né al Governo, né al Parlamento, né agli elettori. E siccome qualcuno deve pur rispondere della grazia concessa, si rifarà strada l’idea che il Presidente della Repubblica debba in qualche modo rispondere degli atti “presidenziali” compiuti, ridando fiato ad un’altra infelice pagina della letteratura costituzionalistica, quella della “responsabilità diffusa” del Capo dello Stato. Ecco la conclusione: una linea ricostruttiva del ruolo del Capo dello Stato, che prende le mosse da un indebito sconfinamento nella psicologia dell’agire presidenziale, sfocia nell’acquitrino sociologico di una ipotetica responsabilità che si manifesta ormai fuori del diritto costituzionale.

 

Roberto Bin



[1] Ho cercato recentemente di sviluppare questo punto di vista in Che cos’è la Costituzione? in Quad. cost. 2007, 11 ss.

[2] L. CARLASSARE, Art. 90, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna – Roma 1983, 156.

[3] G. GALEOTTI, Il rinvio presidenziale di una legge (art. 74 Cost.). Spunti ricostruttivi e critici, in Rass. Dir. Pubbl. 1950,  48 ss., 56 s.

[4] E. CHELI, Art. 89, in Commentario della Costituzione, cit., 146.

[5] Sui quali cfr. G. GALEOTTI, Il rinvio presidenziale cit., 48 ss., cui per altro si deve la definizione della controfirma (quando riferita ad atti propri del Presidente) come “inutile ingombro” (p. 56 s.).

[6] Per una quadro di sintesi della dottrina, cfr. M. C. GRISOLIA, Il rinvio presidenziale delle leggi, in Quad. cost. 1992, 216 ss. Un esame analitico si trova invece in P. FALZEA, Il rinvio delle leggi nel sistema degli atti presidenziali, Milano 2000.

[7] Così per altro già A. VALENTINI, Gli atti del presidente della Repubblica. Milano 1965, 49; l’ipotesi è delineata anche da V. CRISAFULLI, Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, in Stato, popolo, governo: illusioni e delusioni costituzionali, Milano 1985, 147 ss., 184 s., che sottolinea come in questo caso si dilati anche la responsabilità politica del Governo.

[8] Come probabilmente è avvenuto in alcuni casi di rinvio decretato da Cossiga e motivato anche con riferimento ai rilievi mossi in Parlamento dal rappresentante del Governo: cfr. G. GIOVANNETTI, Capo dello Stato e controllo della finanza pubblica, in Quad. cost. 1992, 352 ss.

[9] La citazione è di A. RUGGERI, Rinvio presidenziale delle leggi e autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge fra aperture del modello e delusioni della prassi, in Il Presidente della Repubblica, a cura di M. Luciani e M. Volpi, Bologna 1997, 171 ss., 184 s.

[10] S. BARTOLE, Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, Bologna 2004, 94 s.

[11] Ho approfondito questo punto in Il principio di leale cooperazione tra i poteri dello Stato, in Rivista di Diritto Costituzionale  2001, 3 ss.

[12] Su cui cfr. però le note critiche di G. D’ORAZIO, Il numero dei senatori a vita nell’interpretazione del Capo dello Stato, in La figura e il ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, a cura di G. Silvestri, Milano 1985, 333 s.

[13] Carlo Fusaro, in particolare, ha teorizzato l’opportunità di una convenzione costituzionale per cui i senatori a vita (e quelli eletti nei collegi esteri) dovrebbero comunque sostenere la maggioranza democraticamente scelta dagli elettori con il voto espresso per la Camera: Dai senatori a vita l'unica scelta rispettosa della volontà popolare, nella prospettiva di una possibile convenzione costituzionale, in Forum di Quaderni cost. Non sono mancate anche in passato voci che sottolineano il ruolo di “potere moderatore” riservato al Presidente della Repubblica anche nella nomina dei senatori, che potrebbe essere effettuata in modo da “temperare la composizione di organi costituzionali”: cfr. E. MALFATTI, Natura e controlli dei decreti presidenziali di nomina dei senatori a vita, in Foro it. 1994, I, 3181 e indicazioni ulteriori ivi riportate.

[14] Valentini (Gli atti cit., 53 s.) poneva in relazione l’interpretazione del numero dei senatori a vita con l’interpretazione della “natura” dell’atto di nomina, ritenendo che vi fosse coerenza tra la ricostruzione della nomina come atto “presidenziale” e l’attribuzione a ciascun Presidente del potere di nominare cinque senatori.

[15] P. FRANCESCHINI, Art. 59, in Commentario della Costituzione cit., 113, che si allinea alla dottrina prevalente (ivi citata).

[16] In vero, come sottolinea M. LUCIANI, Sulla titolarità sostanziale del potere di grazia del Presidente della Repubblica, in Corriere giuridico, 2007, 2, 190 ss., 195, la sent. 200 rappresenta forse un revirement rispetto all’obiter dictum contenuto nell’ord. 388/1987, in cui (correttamente) si afferma: “il provvedimento di grazia è l'effetto della collaborazione fra il potere del Capo dello Stato e quello del competente Ministro della Giustizia che controfirma l'atto e ne assume la responsabilità”.

[17] Ho già sostenuto questa opinione, prima della sentenza, in Pigreco. Le ragioni esoteriche di un match nullo, in La grazia contesa, a cura di R. Bin, G. Brunelli, A. Pugiotto e P. Veronesi, Torino 2006, 46 ss.

[18] A. PUGIOTTO, Castelli di carte sul potere di grazia, in Forum di Quaderni cost.