Il Codice delle Autonomie e i nodi irrisolti

 

di Roberto Bin

 

(editoriale a “Le regioni” 6/2006)

 

 

1. Che il Governo della Repubblica si sia finalmente deciso a porre mano all’attuazione delle riforma costituzionale del 2001 è senz’altro una buona notizia.

Un’intera legislatura è trascorsa infatti nel segno di un sostanziale ostruzionismo nei confronti della riforma: ogni legge regionale che cercasse di “prendere ciò che la Costituzione dà loro” (seguendo il suggerimento della sent. 422/2002) ha subito una contestazione frontale davanti alla Corte costituzionale, mentre la legislazione ordinaria è stata ispirata al più arcigno centralismo, con conseguente reazione delle Regioni; la riforma del 2001 ha ricevuto attuazione soltanto dalla legge 131/2003, che si è però rivelata in parte illegittima (la sent. 280/2004 ne ha infatti ridimensionato di molto l’oggetto), in parte assai poco praticabile (si veda in particolare l’infelice disciplina della “attività internazionali” delle Regioni), in parte a sua volta priva di attuazione (di ben scarso spessore sono infatti i tre soli decreti delegati di “Ricognizione dei principi fondamentali”); nel frattempo una tanto pubblicizzata quanto inconsistente “riforma della riforma”, è stata promossa dai Governi in carica in nome della “devolution” – una figura leggendaria sconosciuta anche alla mitologia celtica da cui avrebbe forse voluto discendere.

Ora invece, con la nuova legislatura, il Governo ha messo in cantiere il riordino dei poteri locali e ha preannunciato un disegno di riforma del “sistema delle Conferenze” e – un po’ più in là – uno del sistema finanziario, in attuazione dell’art. 119 Cost. Forse l’ordine delle priorità avrebbe dovuto essere invertito, ma non sembra affatto una scelta di poco conto l’aver abbandonato l’orizzonte delle (ulteriori) riforme costituzionali per avviare una stagione di ben più agevoli e urgenti leggi ordinarie che diano sostanza alle innovazioni introdotte dalla legge costituzionale 3/2001. Inoltre non c’è dubbio che il quadro dei poteri locali, confuso ma certamente innovativo, che esce dalla riforma del Titolo V abbia bisogno di una riscrittura delle regole legislative e, perciò, di una radicale revisione del Testo unico approvato con il decreto legislativo 267/2000. Quello che il Governo ha appena licenziato è un disegno di legge delega, per cui è ovvio che solo con l’emanazione dei decreti delegati si potrà apprezzare il nuovo volto del sistema locale. Tuttavia, dato che la strada per l’innovazione legislativa deve necessariamente essere aperta dai “principi e criteri direttivi” introdotti dalla legge di delega, è proprio dalla lettura di questi che si può cogliere e valutare la direzione in cui il riordino si muove. In che modo, dunque, la legge di delega orienta la riforma legislativa? Quali soluzioni essa preannuncia dei tanti nodi lasciati aperti nel 2001?

 

2. Prima di affrontare questi quesiti, un altro deve avere risposta: quali “titoli costituzionali” può usare lo Stato nel ridisciplinare l’assetto delle autonomie locali?

La prima norma a cui fare riferimento è ovviamente la lettera p) dell’art. 117.2, che si riferisce alla “legge elettrorale”, agli “organi di governo” e alle “funzioni fondamentali” delle diverse categorie di enti; la seconda la si rinviene nell’art. 118, che rinvia alla legge dello Stato e a quella della Regione (“secondo le rispettive competenze”) il compito di “conferire” agli enti locali funzioni ulteriori rispetto a quelle “proprie” (co. 2), laddove sembrerebbe, cercando di risolvere il rebus interpretativo ingenerato dalla terminologia sovrabbondante impiegata dal legislatore costituzionale, che sia a questo “conferimento” che si devono applicare i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza del co. 1. Ecco il primo compito che la legge di delega dovrebbe dunque affrontare: indicare un’interpretazione chiara e rassicurante che tracci una distinzione sufficientemente precisa tra le funzioni “fondamentali”, quelle “attribuite” ai Comuni in via generale, quelle “proprie” dei diversi livelli di governo locale e quelle “conferite”. Assolto a questo compito, assumerebbe una dimensione più precisa l’ambito in cui si potrebbe muovere il legislatore statale nel riscrivere il Testo unico.

Il disegno di legge sembra farsi carico di questo chiarimento concettuale. Nella Relazione illustrativa infatti si cerca di prendere posizione netta nel delimitare i concetti: le “funzioni fondamentali” sono concepite come comprendenti “non solo quelle «ordinamentali» inerenti l’esistenza e l’organizzazione dell’ente, ma anche quelle «gestionali» attinenti all’esercizio di compiti che sono essenziali per la collettività territoriale amministrata”; le funzioni “proprie” (di cui si occupa l’art. 2.3. lett f) consistono nei “compiti ulteriori” che gli enti locali possono assumere nei confronti della propria collettività, purché ne abbiano le risorse, non li sottraggano ad altri livelli di governo e, ovviamente (non essendoci “copertura” legislativa sufficiente a soddisfare il principio di legalità), non implichino poteri autoritativi.

 Non sempre il disegno di legge sembra però preoccuparsi troppo dei titoli di competenza da cui può muovere il legislatore statale e di attenersi all’opera di pulizia concettuale. Per esempio, l’art. 1, co. 2 fissando i “principi”, non della delega ma “della presente legge”, ingarbuglia le idee. Lo Stato deve “individuare e allocare” le funzioni degli enti locali, il cui esercizio sarà poi disciplinato dalla legge statale e da quella regionale, secondo le proprie competenze legislative, ma nel rispetto dell’autonomia regolamentare locale (co. 3). Sin qui sembra abbastanza chiaro, ma cessa d’esserlo quando i principi del disegno di legge incominciano ad intrecciare le competenze ex art. 117, lett. p) con quelle del 118: le funzioni fondamentali vengono mischiate con le “altre funzioni amministrative” in un “riassetto organico ed unitario” in cui deve essere individuato “con chiarezza il ruolo e le competenze dei diversi livelli di governo, sulla base della loro adeguatezza organizzativa e dimensionale” (lett. c), così che sia prevista l’“obbligatorietà dell’esercizio associato di determinate funzioni amministrative da parte degli enti di minori dimensioni demografiche” (lett. d). Nei principi della delega (art. 2, co. 3) questa contaminazione sembra però evitata, perché l’esercizio associato delle funzioni fondamentali compare come una possibilità che deve essere garantita agli enti locali, non una misura imposta dall’alto.

Se il testo licenziato alimenta ancora qualche margine di confusione, bisogna però riconoscere che esso è decisamente migliore dei testi che, con impressionante continuità “tecnica” pure nella discontinuità politica, si sono succeduti, scavalcando la legislatura, dalla legge 131 in poi. La c.d “Legge La Loggia”, infatti, prevedeva che i (mai emanati) decreti di revisione del Testo unico allocassero le funzioni fondamentali degli enti locali valorizzando i princìpi di sussidiarietà, di adeguatezza e di differenziazione, con una chiara sovrapposizione delle funzioni conferite ex art. 118 Cost. a quelle fondamentali. Analoga confusione aveva segnato anche le prime versioni dell’attuale disegno di legge, ma ora appare non più così marcata e sarà compito dei decreti delegati apportare i chiarimenti e le distinzioni necessari. Non è un caso, infatti, che i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza compaiano laddove, nell’art. 118, si individuano i meccanismi di “mobilità” delle funzioni amministrative e non anche nell’art. 117.1, lett. p), che si riferisce alle “funzioni fondamentali” degli enti locali. Queste devono necessariamente riferirsi a competenze che sono intrinseche all’ente cui si riferiscono e non variano in base alla sua dimensione: applicare ad esse il principio di differenziazione minerebbe l’idea stessa della loro “fondamentalità”. Il che non toglie ovviamente che la legge dello Stato possa promuovere l’esercizio associato di alcune di queste funzioni (forse a ciò si riferisce anche la lett. h dei “principi e criteri direttivi”): si tratta di un’ipotesi assai diversa da quella di “allocare” le funzioni “fondamentali” dei Comuni in base alle classi demografiche di appartenenza. Oltretutto, che sia lo Stato a dimensionare le categorie dei Comuni con criteri generali e astratti validi per tutto il territorio nazionale appare di per sé una plateale violazione del canone della sussidiarietà, perché le condizioni demografiche, territoriali, organizzative e di tradizione politico-amministrativa dei Comuni variano di troppo da regione a regione, sicché, se le funzioni fondamentali sono necessariamente allocate dallo Stato, la differenziazione per classi degli enti locali è bene che sia compiuta invece dalle Regioni.

Il quadro si complica ancor più se poi si prendono in considerazione le funzioni ulteriori conferite dallo Stato e dalla Regione, ciascuno per le sue competenze. Giustamente il disegno di legge prescrive che tale conferimento debba mirare ad un “riassetto organico ed unitario” del complesso delle funzioni allocate all’ente locale: siccome però si tratta di mettere insieme le funzioni fondamentali, quelle conferite dallo Stato e dalla Regione, e le scelte attorno ai livelli ottimali di esercizio delle funzioni stesse, appare evidente che la strada non può essere altra che quella di una forte collaborazione tra Stato e Regioni.

 

3. La collaborazione ha presidi importanti nel disegno di legge. Si prevede che sui decreti legislativi che individuano e allocano le funzioni sia acquisita l’intesa in seno alla Conferenza unificata (art. 2.2); mentre alla predisposizione degli atti istruttori relativi ai provvedimenti attuativi di tutti i decreti delegati soprintende una “sede di coordinamento” cui partecipano i rappresentanti dei  ministeri interessati e delle amministrazioni di Regioni ed enti locali, cui spetta anche compiti di verifica e monitoraggio del processo di attuazione.

È per altro interessante che il disegno di legge preveda un’attività di trasferimento di funzioni, non solo per quel che riguarda le materie di competenza esclusiva statale, ma anche per le materie “concorrenti” e “residuali”. L’art. 4 contiene infatti una delega al Governo ad individuare le funzioni ancora esercitate dallo Stato “che non richiedendo l’unitario esercizio a livello statale” devono perciò essere conferite alle regioni e agli enti locali, se ricadono in materie di competenza “esclusiva”, e alle regioni se invece ricadono nei co. 3 e 4 art. 117 Cost. È una norma che profuma un po’ troppo di restaurazione: già che lo Stato legiferi in materia “residuale” potrebbe apparire illegittimo a chi prendesse eccessivamente sul serio la riforma del 2001; ma che poi esso possa trattenere a sé le funzioni il cui esercizio consideri “infrazionabile” richiama in modo plateale la mistica dell’interesse nazionale dell’epoca antecedente alla riforma. È tuttavia una norma piena di buon senso: lo Stato si occupa della “sua” organizzazione amministrativa e intende (o almeno così afferma) smantellare le strutture burocratiche che non devono più operare al centro. L’obbligo dell’intesa con la Conferenza unificata costituisce del resto la miglior garanzia che il meccanismo operi virtuosamente.

C’è però almeno un punto che resta fortemente critico. L’art. 6 del disegno di legge rispolvera il meccanismo di sostituzione legislativa dello Stato nei confronti delle Regioni che non ottemperino all’obbligo di adeguare la propria legislazione conferendo agli enti locali le funzioni ricevute dallo Stato: qualora la Regione non ottemperi nel termine fissato, il Governo è delegato ad emanare un decreto legislativo di sostituzione, seguendo le procedure stabilite dalla norme della legge 131/2003 di attuazione dell’art. 120.2 Cost. (inclusa – sorpresa nella sorpresa -  la norma sulla procedura derogatoria in casi di “assoluta urgenza”). Riaffiora qui uno dei temi dominanti della storia del sistema italiano delle autonomie, l’eccesso di “consociativismo istituzionale” stigmatizzato di recente da Augusto Barbera (Il TitoloV tra attuazione e riforma, in Forum di Quaderni costituzionali). La pressione di potenti organizzazioni private che vantano la rappresentanza (di larga parte) del sistema delle autonomie ha condizionato pesantemente la scrittura del disegno di legge raggiungendo l’obiettivo dell’inserimento di questa clausola di garanzia nei confronti del centralismo delle Regioni. Ma è ancora legittima questa clausola?

La sent. 408/1998 aveva giustificato l’analogo meccanismo previsto dalla legge 59/1997 in base a questo ragionamento, che il contenuto delle norme delegate “sostitutive” “corrisponde a ciò che in astratto il legislatore statale sarebbe abilitato a compiere direttamente: vale a dire ripartire le funzioni amministrative fra Regioni ed enti locali, attraverso lo strumento dell'attribuzione agli enti locali delle funzioni di interesse esclusivamente locale” (punto 6 del “diritto”). Ma il riferimento allora era all’art. 118.1 Cost. nella sua versione originaria, norma che oggi non esiste più. Il potere dello Stato di imporre alle Regioni il conferimento agli enti locali di funzioni amministrative che non sono classificabili come “fondamentali” appare ormai fortemente contestabile sul piano della legittimità costituzionale, un prezzo “politico” che le Regioni, nel loro insieme, hanno pagato per non incrinare definitivamente il sempre incerto “fronte” delle autonomie nella trattativa con il Governo, ma che singole Regioni potranno essere indotte a contestare di fronte alla Corte costituzionale. Sarebbe bene che il Governo non cadesse nella tentazione di dare troppo ascolto alle pressioni “sindacali” di Anci e Upi, perché il rischio di passare il limite della legittimità costituzionale è alto. Nella bozza di disegno di legge delega per la riforma del “sistema delle Conferenze” – attualmente in attesa del parere delle Regioni - si ipotizza per esempio l’unificazione delle due Conferenze attuali nella “Conferenza stato- istituzioni territoriali”, sicché sarebbero eccezionalmente demandate alla “sezione” particolare cui partecipano i soli rappresentanti delle Regioni unicamente “le questioni che incidano esclusivamente su competenze legislative delle Regioni”. Sembra emergere la singolare idea che la tutela costituzionale delle attribuzioni regionali si limiti soltanto alla funzione legislativa, scissa (in che modo ciò sia possibile non lo si dice) e contrapposta alle funzioni amministrative che invece starebbero fuori da quella tutela. Rileggere con attenzione ciò che la Corte ha scritto nella sent. 408/1998 a proposito della “Conferenza unificata”, aggiornandolo al nuovo Titolo V, potrebbe evitare simili rischi.

 

4. Ma vi è un altro nodo lasciato irrisolto dal disegno di legge, ben più rilevante sul piano sia teorico che pratico: il nodo del potere regolamentare degli enti locali.

L’art. 117.6 Cost., che riconosce agli enti locali la potestà regolamentare “in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”, ha aperto una questione assai complessa circa i rapporti tra leggi e regolamenti statali e regionali, da un lato, e regolamenti locali, dall’altro. Pochi sono gli Statuti regionali che hanno cercato di affrontare il problema, almeno per il profilo di loro competenza (St. Toscana, art. 63 e St. Emilia-Romagna, art. 49.3). Il disegno di legge invece lo sfiora appena, ponendo tra gli indirizzi generali che “le leggi statali e regionali disciplinano le funzioni amministrative di Comuni, Città metropolitane e Province nel rispetto degli ambiti riservati all’autonomia degli enti locali nella disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle loro funzioni istituzionali, ai sensi dell’articolo 117, comma 6, della Costituzione” (art. 1.3).

Non sembra che questa norma consenta grandi progressi; forse però acquista maggior significato se letta insieme alla disposizione specifica posta per Roma capitale: l’art. 5.2 del disegno di legge prevede infatti che a Roma sia conferito “potere regolamentare… in materie non disciplinate da leggi statali o regionali ovvero al fine di integrare le leggi statali o regionali” (lett. e), aggiungendo che il decreto delegato deve disciplinare il “potere regolamentare di cui all’articolo 117, comma 6 della Costituzione, anche in deroga a specifiche disposizioni legislative, nel rispetto degli obblighi internazionali, del diritto comunitario, della Costituzione e dei principi generali dell’ordinamento giuridico, nell’ambito delle materie del governo del territorio, dell’edilizia pubblica e privata, dei trasporti e della mobilità, dei servizi sociali, in relazione alle peculiari esigenze del ruolo di capitale” (lett. f).

Questa norma rischia di avere un impatto devastante, che è difficile capire se sia stato ben valutato dai suoi estensori. Innanzitutto è scritta in termini tali da preludere all’introduzione di una nuova fonte primaria, il che sarebbe ovviamente illegittimo cozzando contro il sacrosanto principio per cui gli atti con forza di legge costituiscono una tipologia chiusa, interamente riservata alla fonte costituzionale; per di più essa minerebbe l’autonomia legislativa della Regione Lazio, con le evidenti conseguenze. Non basta certo la previsione dell’art. 114.3 Cost., che autorizza la legge dello Stato a disciplinare l’ordinamento della Capitale, a consentire al legislatore ordinario di stravolgere il sistema costituzionale delle fonti.

Per quanto riguarda invece il problema dell’interpretazione dell’art. 117.6, essa costituisce una sorta di boomerang. Da un lato, introducendo questo regime eccezionale per la sola Roma capitale, si legittima a contrario un’interpretazione restrittiva della norma costituzionale, tale per cui verrebbe sconfessata l’opinione di quanti vi leggono un’implicita ammissione della cedevolezza, nei confronti dei regolamenti locali, delle leggi e dei regolamenti (statali e regionali) laddove disciplinino nel dettaglio l’organizzazione e il procedimento locale; dall’altro, così ristretta la portata della disposizione costituzionale, il particolare status riconosciuto ai regolamenti di Roma capitale perde qualsiasi base costituzionale su cui poggiare. In altri termini: se il disegno di legge avesse suffragato l’inclusione della clausola generale di cedevolezza nell’art. 117.6, avrebbe poi potuto impegnarsi ad allargare l’ambito di competenza regolamentare di Roma capitale; avendo invece praticato un’interpretazione restrittiva (implicita) della norma costituzionale, il regime d’eccezione di Roma capitale costituisce un evidente vulnus nei confronti del sistema costituzionale delle fonti.

 

5. Vi sono altre novità rilevanti nel disegno di legge. Tra esse non è da annoverare quella – assai pubblicizzata – delle Città metropolitane. Il procedimento per la loro istituzione lungo e macchinoso, la loro sostanziale facoltatività (anche perché possono essere sostituite da altre forma di associazione tra enti locali), l’incerto rapporto con le province (talvolta di immedesimazione, altre di contrapposizione), non sembra far fare un gran passo avanti alla loro istituzione. Il dato più apprezzabile è forse che finalmente si è compreso che la Città metropolitana non può rappresentare un modello “prêt à porter”, ma deve essere cucito su misura delle singole realtà.

Anche il riordino delle province previsto, attraverso un’ulteriore delega, dall’art. 7 del disegno di legge è una buona notizia, se la previsione sarà effettivamente attuata con coraggio e attenzione; ma che sui decreti delegati la Conferenza unificata esprima solo un parere, mentre essi sono predisposti “previa iniziativa dei comuni, sentite le province e la Regione interessate”, appare rispondere alla solita tradizionale visione centralistica che vede le Province come snodi dell’amministrazione centrale piuttosto che come un ambito territoriale intermedio centrale per la funzionalità delle Regioni e degli stessi comuni. Qui forse l’unica nota innovativa è implicita: se le province possono essere abolite dove vengono costituite le Città metropolitane e se esse possono essere totalmente riscritte dal legislatore delegato, sarà difficile opporre alle Regioni speciali che volessero procedere alla loro soppressione o totale riorganizzazione l’ostacolo della pretesa “costituzionalizzazione” dell’ente provinciale ad opera dell’art. 114.

Un’ultima novità va invece sottolineata. L’art. 2.4, lett. h) include negli indirizzi della delega l’obbligo di “riconoscere all’autonomia statutaria dei comuni la possibilità di attribuire ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea che siano titolari della carta di soggiorno…l’elettorato attivo e passivo nelle elezioni degli organi delle circoscrizioni comunali”. È una disposizione quasi rivoluzionaria sulla quale – si sa – le discussioni avvamperanno.