Il sistema delle fonti. Un’introduzione

Roberto Bin

 

1. “Ordinamento giuridico” e “sistema delle fonti” come esigenze dell’interprete

 

Che cosa sia il diritto è una domanda che il giurista non affronta volentieri. Se ne libera, un po’ infastidito, con un “sono problemi che riguardano il filosofo”. Il problema però c’è, eccome, e lo si avverte soprattutto in momento di grande trasformazione della società come l’attuale. Ma non lo si avverte nel lavoro quotidiano, che per lo più cade in un’area in cui il problema è semmai accertare quale sia la norma da applicare, non quello di definire se essa appartenga o meno al diritto. Così come il medico può dedicarsi alla cura quotidiana dei propri pazienti senza doversi occupare, nella gran maggioranza dei casi, di che cosa siano la vita o la morte (o persino la “salute”), giudicandoli problemi “metafisici”, ciò che è o non è diritto è un problema “metagiuridico”.

Per dire che cosa sia il diritto si ricorre ad una metafora, quella della “fonte”. Le fonti del diritto sono tutti quei documenti o quei comportamenti accreditati della capacità – inesauribile, ed è questo che vuole significare anzitutto la metafora – di produrre regole che possono essere fatte valere, direttamente o indirettamente, davanti ad un giudice. Sicché, individuate le “fonti”, il giurista ha risolto il problema di che cosa sia il diritto e può iniziare il suo lavoro. Per una serie di vicende storiche che non merita qui ricostruire, nella nostra esperienza attuale le “fonti” del diritto sono tutte imputabili allo Stato, o ad enti da esso derivanti (la Comunità europea o il diritto internazionale, sul piano sovrastatuale, le Regioni o i Comuni nella dimensione substatuale). Queste “fonti” generano norme giuridiche e queste concorrono a formare l’“ordinamento giuridico”. Il teorico dirà che questa è una visione ultrasemplificata del problema, ma è grazie a questa semplificazione che il giurista (l’avvocato, l’interprete, il giudice) può procedere nel suo lavoro.

Per comodità il giurista attribuisce all’ordinamento giuridico alcune caratteristiche, in primo luogo le caratteristiche della coerenza e della completezza: “si dice «coerente» quell’ordinamento in cui non esistono norme incompatibili: si dice, invece, «completo» quello in cui esiste sempre una norma o la norma con questa incompatibile[1].

È fin troppo evidente che non esistono “in natura” ordinamenti giuridici privi di “incoerenze” e di lacune normative: forse non sono esistiti mai, ma certamente non esistono nel mondo odierno, in cui il sistema delle fonti è particolarmente complesso e le norme sono soggette a continui mutamenti. Tuttavia i “miti” della coerenza e della completezza appartengono ai presupposti con cui opera il giurista, chiamato ad interpretare il diritto e ad applicarlo ai casi concreti. Anzi, si potrebbe sostenere che tanto più un ordinamento giuridico è – come il nostro – complesso, frastagliato e in continua evoluzione, tanto più forti si fanno sentire le esigenze di “coerenza” e di “completezza”: negli ordinamenti moderni, infatti, ad un contrasto tra regole giuridiche o di fronte ad una “lacuna” di disciplina, non è ammesso né “denegare giustizia”, ossia rinunciare al giudizio per mancanza della regola da applicare, né rivolgersi al “principe” per chiedere un chiarimento e un’integrazione della norma.

Appartiene infatti ai principi dello Stato di diritto la netta separazione tra il momento della scelta politica che, guidata dal sistema rappresentativo, si trasforma in “legge”, e il momento della sua applicazione al caso concreto, nel corso di un giudizio che si svolge davanti ad un giudice, qualificato e selezionato in base a requisiti tecnici e attentamente sottratto al circuito politico - rappresentativo. Non solo al giudice – e all’interprete più in generale – è vietato il ricorso al responso del principe, ma è fortemente svalutato persino l’impiego, nell’interpretazione degli atti legislativi per trovarvi “la regola del caso”, dell’argomento della “volontà del legislatore”: l’atto legislativo si stacca, si “estranea” dalle intenzioni soggettive dell’organo che l’ha emanato, per assumere un significato “oggettivo” nel sistema giuridico[2].

Il distacco dell’atto normativo dalla volontà politica segna la condizione perché sia possibile tracciare la linea di separazione tra i poteri, tra il momento della “legislazione” e il momento della “applicazione” delle leggi. L’interprete deve “costruire” il significato della disposizione da applicare, e per farlo deve individuarne la ratio, il principio; quale fosse l’intenzione originale del legislatore (spesso assai difficile da accertare in modo univoco), quel che serve è comprendere come la norma si colloca oggettivamente nel “sistema”, a quale esigenza di normazione risponda (rimediando ad una possibile “lacuna”) o a quali esigenze di coerenza (rimediando ad una potenziale contraddizione del sistema). Le intenzioni soggettive del legislatore cedono il campo alle finalità “oggettive” cui assolve la norma (“eterogenesi dei fini” è la locuzione che esprime questo mutamento di prospettiva).

È solo grazie a questa “estraneazione” (Entfremdung) che la disposizione legislativa può entrare nell’ordinamento giuridico ed assumere tutta la pienezza di significato che il “sistema” le conferisce. Il legislatore esaurisce il suo compito (e il suo potere) nello scrivere regole generali e astratte, destinate perciò ad essere applicate ad una quantità indeterminabile di casi. Spetta ai soggetti dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto ricostruire ogni singolo caso concreto ed elaborare la regola giuridica che ad esso va applicata. Il Codice napoleonico – e tutti i codici che ne sono derivati – si preoccupa che questo lavoro di elaborazione della “regola del caso” venga sempre eseguito dal giudice: “il giudice che si rifiuterà di giudicare con il pretesto del silenzio, dell’oscurità o dell’insufficienza della legge, potrà essere perseguito per denegata giustizia”. Viene così definitivamente chiarito che è posto a carico del giudice – e perciò dell’interprete – il compito di riportare la legislazione a un sistema coerente e completo[3].

La “completezza”, la “coerenza”, la “razionalità” di un legisla­tore che non può essere né “contraddittorio” né “ridondante”, sono spesso richiamate dagli interpreti come caratteristiche necessarie della legislazione, su quali è possibile fondare tutta una serie di argomenti utili all’interpretazione. Ma non sono certo qualità che possano essere seriamente attribuite al “legislatore”, che è un corpo politico complesso, eterogeneo, che muta indirizzi nel tempo e non risponde della qualità tecnica dei propri atti: se dovessimo fare la fotografia del complesso degli atti normativi che vigono in Italia – leggi e decreti che risalgono al 1865, la legislazione spesso importante (tre dei quattro codici, per fare un solo esempio) sopravvissuta al fascismo, tutto ciò che ha prodotto il Parlamento e il Governo in sessant’anni di Repubblica, le leggi e i regolamenti delle Regioni, i regolamenti delle autonomie locali, la valanga di norme di provenienza comunitaria ed altro ancora – dovremmo accettare la premessa diametralmente opposta, se non dell’incompletezza, quantomeno della strutturale incoerenza, contraddittorietà e ridondanza della legislazione. Esse, dunque, sono convenzioni che vigono nella co­munità degli interpreti, e che vi so­no ac­creditate perché ritenute premesse utili, anzi indispensabili, per il lavoro che la comunità deve svolge­re. Perché è sull’interprete che grava per intero il compito di riportare a coerenza l’insieme delle disposizioni legislative, onde ricavarne la norma del caso, norma che deve necessariamente essere reperita (nonostante le “lacune” della legislazione) e deve essere necessariamente univoca e non smentita da altre norme concorrenti.

Per l’interprete, di conseguenza, che l’“ordinamento giuridico” sia un “sistema” coerente e completo è un paradigma della sua “scienza”, il presupposto necessario al suo lavoro, la condizione per ottemperare ad una vera e propria rego­la deontologica che gli prescrive di trarre, da un materiale incoerente e spesso contraddittorio, la soluzione univoca del “caso” che si trova di fronte. In presenza, com’è del tutto normale, di un insieme di testi non riducibili ad unità di senso, l’interprete si arma degli strumenti con cui selezionare la norma da applicare. Insomma, la coerenza e la completezza sono per l’interprete il risultato dell’opera di interpretazione e applicazione del diritto. È l’interprete che “anticipa” le qualità di completezza e di coerenza del testo su cui lavora.

2. I “criteri di soluzione delle antinomie” come prodotto culturale

 

Il “sistema delle fonti” non è dunque il punto di partenza, ma il risultato del lavoro dell’interprete. Per raggiungerlo, egli impiega una vasta gamma di strumenti consolidati da un’esperienza che ha attraversato i secoli che ci separano dal diritto romano. Sono i canoni dell’“ermeneutica giuridica”, ossia gli argomenti che vengono accreditati per ricavare dai testi normativi (la “disposizione”) il loro “significato normativo” e quindi la regola da applicare al caso concreto (la “norma”)[4]; quando i testi normativi in vigore sono incoerenti, ossia producono “norme” tra loro incompatibili, allora si ricorre ad un complesso di argomenti predisposto alla soluzione delle c.d. antinomie, ossia alla scelta della norma da privilegiare nel caso specifico. Il criterio cronologico (lex posterior derogat priori), la cui applicazione porta a dichiarare l’abrogazione della legge meno recente; il criterio gerarchico (lex superior dero­gat legi inferiori), che conduce invece a dichiarare l’invalidità della norma di grado inferiore; il criterio delle specialità (lex specialis derogat legi generali), che conduce a privilegiare nel contrasto la norma particolare rispetto a quella più generale; il criterio della competenza, che porta a risolvere il contrasto normativo decidendo quale sia l’atto o l’ordinamento competente a disciplinare la materia: questi sono appunto gli strumenti di base con cui l’interprete seleziona la norma da applicare al caso concreto, così da riportare a coerenza, a “sistema”, un insieme di norme che è realistico attendersi altamente contraddittorio.

Questi criteri sono il frutto dell’incessante  riflessione dei giuristi – e soprattutto della dottrina – attorno alle modalità con cui il “sistema” si costruisce. È un processo lento e costante, frutto di stratificazioni successive (non è un caso che il più recente di questi criteri, quello della competenza, non abbia trovato un broccardo latino che lo esprima), che rielaborano in forma teorica le modificazioni che di fatto subisce l’ordinamento giuridico “storico”. È un processo segnato da dibattiti teorici talvolta molto accesi che però si è sviluppato con una continuità che spesso maschera le svolte e le fratture che hanno segnato gli eventi storici e i mutamenti nello stesso diritto positivo.

Si potrebbe obiettare che sono le norme positive a “costruire” il sistema giuridico, a partire dalle c.d. Preleggi, le Disposizioni sulla legge in generale che precedono il Codice civile, le quali si occupano di disciplinare sia le modalità con cui la legge va interpretata (art. 12) sia gli stessi criteri di soluzione delle antinomie, qual è per esempio l’abrogazione (art. 15). Ma non è così. Le “Preleggi” riproducono senza variazioni apprezzabili, le analoghe disposizioni con cui esordiva il Codice civile del 1865, almeno per ciò che riguarda le “regole sull’interpretazione” (art. 12, che è quasi identico all’art. 3 del codice 1865) e l’abrogazione (art. 15, identico all’art. 5 del vecchio codice). Nei lavori preparatori del nuovo codice si era anche dubitato dell’opportunità di mantenere in vita tali disposizioni: delle norme sull’interpretazione si era anzi proposta la soppressione, perché apparivano “più di danno che di utilità”, dato che erano necessariamente incomplete, si ingerivano “nel campo della dottrina” piuttosto che in quello “della legislazione”, e finivano quindi con apparire regole spurie che “partecipano più del consiglio che del comando[5]; mentre della norma sull’abrogazione si convenne di lasciarla in vigore solo perché “non ha dato luogo ad alcun serio dubbio” e poteva comunque servire a chiarire che la consuetudine non può mai avere “virtù abrogativa” della legge[6].

Il fatto è che il criterio cronologico era già da molto tempo consolidato nella cultura giuridica: lo stesso codice del 1865 ne aveva ereditato la scrittura dai codici preunitari, sia pure con una significativa modificazione. I codici estense e parmense[7], per esempio, consideravano la sola abrogazione espressa, in conformità all’antica massima cuius est condere legem eius est abrogare. Il codice albertino, che riproduceva quasi eguale la disposizione sull’interpretazione dell’attuale art. 12[8], la faceva però seguire dalla riserva al Sovrano del potere di “interpretare la legge in modo per tutti obbligatorio”, rispolverando l’istituto del rescriptum principis. Ancora nel solco della tradizione: cuius est condere legem eius est interpretari è un broccardo assai simile al precedente[9], espressione della stessa cultura assolutistica, tanto da essere stato trascritto nei primi codici delle monarchie centroeuropee. Ma il codice 1865, ispirato ai principi del costituzionalismo liberale, si distacca dalla tradizione assolutistica proprio perché riconosce espressamente l’autonomia interpretativa della dottrina (viene perciò cancellato il rescriptum) e, allo stesso tempo, apre ufficialmente la strada all’abrogazione “implicita”, opera autonoma dell’interprete: anche se, ricorrendo a una classica “finzione”, si continua ad imputare alla volontà abrogatrice del legislatore la causa dell’abrogazione non espressa[10], si colloca definitivamente in capo all’interprete il compito di “accertarla”, quando non sia manifestata espressamente in una disposizione.

Il codice del 1942 introduce però una novità: la gerarchia delle fonti tracciata dall’art. 1. Assente nel Progetto preliminare, tale disposizione recepisce a sua volta l’elaborazione della dottrina, che aveva raggiunto la sua maturazione nella costruzione gradualistica di Kelsen e della Scuola di Vienna[11] e si era imposta anche in Italia, pur faticando a superare forti contestazioni teoriche[12]. La trascrizione nel codice 1942 ne sfrutta solo in parte le potenzialità, ponendola come strumento ordinatore delle relazioni tra legge e regolamento (che è poi il rapporto su cui si è inizialmente sviluppata la costruzione gerarchica) e tra questi e la consuetudine (oltre che le norme corporative). Assente è invece il livello costituzionale della gerarchia, essendo ormai stato sostanzialmente pretermesso dalle fonti del diritto lo Statuto del 1848.

Ma l’impianto concettuale è ormai consolidato: entrando in vigore solo pochi anni dopo, la Costituzione repubblicana trova nella gerarchia delle fonti un criterio ordinatore del “sistema delle fonti” che le assegna immediatamente la collocazione[13], ponendola – proprio come nel modello kelseniano – al livello più elevato. L’art. 1 delle Preleggi perde così la sua capacità di “descrivere” l’intera struttura gerarchica del sistema delle fonti, ma il criterio gerarchico sembra invece trovare nella introduzione della costituzione rigida il suo completamento. La neonata Carta costituzionale non ha neppure il bisogno di ribadire il suo ruolo nel “sistema”, né la natura essenzialmente gerarchica di questo, riproducendo un nuovo catalogo in cui – come aveva inteso fare l’art. 1 delle Preleggi - vengano enumerate le fonti e indicato il loro rispettivo rango. Perfettamente assimilato il modello kelseniano, essa si preoccupa esclusivamente di disciplinare i modi di produzione delle “fonti primarie”, definendole come una categoria chiusa composta dalle legge formale e dagli “atti con forza di legge” specificamente enumerati, istituendo la Corte costituzionale come giudice della conformità di esse con la Costituzione. Nulla ha invece da dire sui regolamenti amministrativi e sulle fonti subordinate, perché la loro disciplina sarebbe spettata alle fonti primarie, poste immediatamente sopra ad essi nella gerarchia.

3. La Costituzione come fattore di crisi del “sistema delle fonti”: la “specializzazione” delle leggi

 

La gerarchia delle fonti è dunque il presupposto implicito che caratterizza il sistema delle fonti al momento dell’introduzione della nuova costituzione; ma essa ne segna però anche la crisi[14].

La gerarchia degli atti normativi si regge infatti a sua volta su due presupposti: l’unicità dell’ordinamento giuridico statale, inteso come sistema unitario: in esso si manifesta un perfetto parallelismo tra gerarchia di fonti, gerarchia di procedimenti di produzione normativa e gerarchia di organi dotati di potere normativi.

Il sistema gerarchico rispecchiato dall’art. 1 delle Preleggi è infatti un sistema monolitico: alla sua base c’è l’idea della sovranità indivisa dello Stato e il suo corollario, il principio di esclusività, ossia l’esclusione dal territorio nazionale di ogni altra autorità dotata di potere normativo, sia essa “esterna” (autorità straniere o derivanti dall’ordinamento internazionale) o “interna” (ordinamenti “autonomi” non sottoposti al diritto dello Stato). L’ordinamento ha una struttura piramidale, il cui vertice è occupato dalla legge, in memoria del mito ottocentesco della “sovranità parlamentare”: la legge ne rappresenta l’apice perché è il prodotto del consenso della Camere e del Capo dello Stato; essa prevale sul regolamento governativo perché “il Re in Parlamento” prevale sul “suo” Governo.

Questa relazione è interamente recepita nella nuova Costituzione, il cui regime parlamentare non può che condividere la “dipendenza” del Governo dal Parlamento (ben rappresentata dalla disciplina del rapporto di fiducia) e la prevalenza della procedura deliberativa parlamentare - connotata dalla solennità, dalla pubblicità del dibattito in cui è garantito il confronto  tra maggioranza e opposizione - sulla procedura decisionale del Governo, che non può vantare nessuna di queste caratteristiche. Ma il “rapporto gerarchico” si esaurisce qui, perché tutti gli altri presupposti della concezione piramidale dell’ordinamento giuridico vengono incrinati dalle stesse norme costituzionali.

Viene anzitutto a rompersi l’unitarietà della “legge”. Essa perde la caratteristica ottocentesca di fonte normativa per eccellenza, espressione diretta della sovranità. La tecnica impiegata dalla Costituzione italiana è chiara: l’art. 70 attribuisce alle Camere la “funzione legislativa”, intesa come generica potestà di legiferare, secondo le modalità fissate dagli artt. 71-74. Gli articoli successivi individuano gli altri atti che, derogando alla generale attribuzione legislativa al parlamento, “concorrono” con la legge, ossia sono dotati della sua stessa “forza”: il referendum abrogativo (art. 75), il decreto delegato (art. 76), il decreto-legge (art. 77), gli atti emanati dal Governo in caso di guerra (art. 78)[15]. La “forza di legge” comporta che questi atti siano posti sullo stesso piano gerarchico della legge formale, con cui competono secondo il criterio cronologico. Ma la loro “concorrenza” non è totale, perché la Costituzione introduce un meccanismo cha la limita e la regola: la riserva di legge. Concepita come meccanismo che tutela le prerogative parlamentari dall’invadenza di atti normativi provenienti dall’esecutivo, la riserva di legge svolge nella Costituzione italiana un triplice ruolo: quello, tradizionale, di limitazione del potere regolamentare del Governo, riservando la disciplina totale (c.d. riserva assoluta) o almeno “di principio” (c.d. riserva relativa) alle fonti primarie (e quindi non solo alla legge formale, ma anche agli atti con forza di legge); quello ulteriore di limitare il potere legislativo del Governo, escludendo che esso possa sostituirsi alle Camere provvedendo con suo atto con forza di legge a svolgere alcuni adempimenti che al parlamento devono necessariamente essere riservati[16] (c.d. riserva formale); quello, infine, di “specializzare” la stessa legge formale.

La “specializzazione” delle leggi è l’aspetto più interessante:

a) vi sono “materie” che possono essere regolate soltanto con un procedimento particolare (gli “accordi concordatari” per la modifica delle norme di esecuzione del Concordato: art. 7; le “intese” per la regolazione dei rapporti con i c.d. “culti acattolici”: art. 8; i referendum consultivi per la modificazione delle circoscrizioni degli enti territoriali, ecc.). La ratio di queste riserve di legge rinforzate è di limitare il potere della maggioranza politica nei confronti delle minoranze, siano esse comunità religiose o comunità locali: la maggioranza può fare la legge solo al “costo” di ottenere il consenso dei soggetti che rap­presentano la comunità particolare direttamente interessata. Se la legge è la fonte normativa per eccellenza, in quanto espressione della “volontà generale” espressa dal sistema della rappresentanza parlamentare, in queste materie essa è incompetente ad intervenire, se nel procedimento non si acquisisce anche il consenso della “volontà particolare espressa dai rappresentanti delle specifiche comunità;

b) vi sono casi (le c.d. riserve rinforzate per contenuto) in cui la Costituzione prevede che la legge ordinaria possa disciplinare la materia solo rispettando specifiche limitazioni di contenuto. Per esempio, l’art. 14.3 consente al legislatore di dettare regole speciali per le perquisizioni domiciliari, meno rigide della disciplina generale, ma soltanto per “motivi di sanità e di incolumità pubblica”, oppure per “fini economici e fiscali”; mentre l’art. 16.1 consente al legislatore di limitare la libertà di circolazione ma solo con regole che dispongano “in generale” e  per motivi di sanità o di sicurezza[17]. La ratio di queste riserve è di limitare il potere del legislatore, che può comprimere la sfera di libertà degli individui soltanto a condizione che le misure normative siano razionalmente giustificabili in relazione ai fini o ai criteri indicati dalla Costituzione stessa;

c) vi sono infine dei casi il cui la Costituzione modella determinate leggi in modo così pervasivo da “staccarle” dal “tipo” a cui appartengono: sono sì, formalmente, delle comuni leggi approvate dal Parlamento, ma la loro “forza” è diversa da quella normale. Il caso più emblematico è la legge di approvazione del bilancio di previsione. L’art. 81.3 Cost. vieta che la legge di bilancio stabilisca “nuovi tributi e nuove spese”. La ratio è di evitare che la tipologia e il quantum dei prelievi fiscali o delle prestazioni pubbliche, la politica degli investimenti, le scelte di spesa pubblica siano occultati dal Governo nelle pieghe di un documento contabile estremamente complesso, perché così il controllo del Parlamento diverrebbe praticamente impossibile. L’atipicità del bilancio di previsione consiste proprio in ciò, che la legge che lo approva non può modificare la legislazione sostanziale vigente; la sua forza attiva – cioè, la sua capa­cità di innovare le leggi ordinarie  – è azzerata, ma “atipica” è anche la sua forza passiva: la legge di bilancio ha un’efficacia temporale limitata all’anno cui si riferisce, nel corso del quale possono essere apportate le modifiche necessarie (le c.d. “variazioni”) previste da apposite leggi, ma non è possibile abrogarlo in toto con una legge successiva o con referendum.

Questa “specializzazione” degli atti legislativi incrina il “sistema delle fonti” che la dottrina aveva edificato attorno ai due assi della “gerarchia” e della “cronologia”: non è più (interamente) vero che tutte le fonti rientranti nel gradino gerarchico delle “fonti primarie” concorrono tra di loro governate dal solo criterio cronologico: non tutte le leggi formali sono abrogabili e sostituibili dagli atti con forza di legge (vi si oppone la riserva di legge formale), né tutte le leggi formali sono abrogabili e sostituibili da qualsiasi altra legge formale (vi si oppone la riserva di legge rinforzata). Vi sono invece leggi particolari, approvate con procedimenti aggravati (le leggi rinforzate), a cui la Costituzione attribuisce una particolare “competenza”, che è esclusiva sia nel senso che solo esse posso regolare quel particolare oggetto, sia nel senso che solo quel particolare oggetto può essere da esse disciplinato.

La Costituzione va anche oltre, istituendo una “riserva” di disciplina che sembra del tutto impenetrabile, in entrambi i sensi, da parte di qualsiasi atto legislativo: è la riserva ai regolamenti interni delle Camere (art. 64), la competenza dei quali sembra delimitata quasi “fisicamente” dai muri perimetrali delle assemblee elettive. Un caso analogo è introdotto dagli Statuti delle Regioni speciali, che prevedono per la propria attuazione (e quindi per il trasferimento delle funzioni amministrative) una fonte del tutto particolare, un decreto legislativo predisposto da una commissione paritetica e emanato dal Governo, senza che le Camere ne prendano neppure visione. Anche in questi casi ci si trova di fronte ad atti che sono “primari” almeno nel senso che sono direttamente previsti dalla Costituzione e “garantiti” da essa nella loro competenza, ma che non si possono neppure definire a rigore come “atti con forza di legge” per il semplice fatto che, perfettamente isolata la loro competenza, sono privi di vis abrogativa nei confronti della legge ordinaria né rischiano di essere da questa abrogati.

4. Altri fattori di mutamento del sistema: a)  il pluricentrismo “interno” e le “fonti delle autonomie”

 

Ancora più vistoso è l’effetto provocato sul sistema delle fonti dall’introduzione dell’autonomia regionale. La “invenzione” delle regioni è stata stimolata dal desiderio dei costituenti di istituire un livello di governo locale, dotato di autonomia di indirizzo politico, che potesse rafforzare il sistema di divisione dei poteri: ignari delle sorti politiche future, che si sarebbe chiarite solo quando le prime libere elezioni politiche avrebbero decretato quale schieramento politico aveva vinto e doveva governare, e chi invece sarebbe stato relegato all’opposizione, si convenne sulla opportunità di creare delle “riserve” territoriale in cui il pluralismo politico avrebbe potuto sopravvivere e anche le minoranze avrebbero potuto svolgere attività di governo. Ma per garantire l’autonomia politica dei nuovi enti, bisognava consentire loro di fare ciò che ai tradizionali enti locali non era consentito fare: derogare alla legge del Parlamento, espressione dell’indirizzo politico legittimamente imposto dalla maggioranza democratica. Ecco da dove nasce l’esigenza di dotare le Regioni di un potere normativo che operasse sullo stesso livello gerarchico della legge formale, in concorrenza con questa.

Il fenomeno della “frantumazione” della legge e la moltiplicazione delle fonti primarie non poteva essere più vistoso: non si tratta più soltanto di “specializzare” la legge del Parlamento, di istituire piccole nicchie di competenza riservata ad atti diversi dalla legge formale o di regolare il rapporto tra questa è gli atti con forza di legge – atti normativi comunque collegati alla legge formale (che li anticipa, nel caso della delega, o li segue, nel caso del decreto-legge) ed emanati del Governo nazionale che è strettamente dipendente dal rapporto di fiducia che lo lega alle Camere; ci si trova ormai di fronte ad una serie di legislatori totalmente indipendenti, e potenzialmente divergenti dal (se non conflittuali col) Parlamento nazionale. I riflessi della rottura che subisce il mito dell’unicità della legge si fanno sentire fortissimi sul sistema delle fonti, la cui ricostituzione è tanto più necessaria in quanto il problema di regolare le relazioni tra legislatore nazionale e legislatori locali resta interamente affidato al “sistema” dei rapporti giuridici che intercorrono tra le fonti primarie statali e la legge regionale[18]. La “concorrenza” tra legge statale e legge regionale è regolata dalla distinzione tra “principi” e “dettaglio”[19]: ma non è affatto chiaro come questa distinzione operi. Si potrebbe supporre che essa operi nel senso di un rapporto di “gerarchia strutturale[20], come quello che lega il decreto delegato ai “principi e criteri direttivi” della legge di delega; oppure che esso implichi una netta separazione delle competenze, per cui la legge statale prevale se e solo se pone i “principi” (la legge regionale che li violasse sarebbe perciò illegittima perché incompetente), mentre la legge regionale prevale se e solo se dispone il dettaglio (sarebbe perciò illegittima la legge statale che invadesse la competenza regionale introducendo norme di dettaglio).

Non si tratta soltanto di disquisizioni teoriche: è la teoria che assume il compito di individuare i criteri con cui l’interprete “mette a sistema” le fonti. Qui però la teoria si inceppa, per due difficoltà insormontabili: la prima è che non c’è nessun mezzo logico, nessun criterio teorico, nessun espediente pratico che consenta di distinguere in concreto tra ciò che è “principio” e ciò che è “dettaglio”: per cui la distinzione si rivela impraticabile. In secondo luogo, che la “prevalenza” della legge statale di principio sulla legge regionale di dettaglio non è dotata di strumenti che la facciano operare. Certo, lo Stato può impugnare davanti alla Corte la legge emanata dalla regione in contrasto con la precedente legge statale; ma se invece lo Stato mette mano ad una importante riforma di settore, alla quale il legislatore regionale non si adegua, non dispone di alcuno strumento per imporne l’astratta prevalenza: speciei per genus non derogatur decreta la paralisi della legge “di principio” di fronte alla legge “di dettaglio”.

Il criterio della competenza, che la dottrina aveva elaborato proprio per risolvere il problema di “sistemare” le fonti in un ordinamento con più centri di legislazione ordinaria, dimostra tutta la sua fragilità: descrive la complessità del reale, ma non la risolve; sottolinea la difficoltà di ordinare il sistema con il solo ricorso alla gerarchia, ma non individua un criterio normativo con il cui impiego si renda possibile riportare il reale a “sistema”[21].

Infatti la realtà è evoluta per altra strada, imponendo un rapporto tra legge statale e legge regionale assai distante da come avrebbe dovuto modellarsi secondo il criterio di competenza: le leggi dello Stato ignorano il loro limite di competenza e si occupano dell’intera disciplina della materia considerata, superando qualsiasi distinzione tra “principi” e “dettagli”. La Corte costituzionale[22] ha fornito il “quadro teorico” con cui si spiega (e legittima) questa prassi: è inevitabile che la legge statale disciplini anche il dettaglio, perché così si può imporre sulla precedente legislazione regionale contrastante, abrogandola; in seguito spetterà alla Regione, se lo vorrà, emanare proprie leggi di dettaglio (soggette ovviamente al controllo del Governo) che a loro volta sostituiranno le norme statali contrastanti. È insomma il criterio cronologico l’asse attorno al quale il sistema si ricompone, com’è proprio dello schema “classico” dei rapporti tra fonti che condividono la medesima collocazione nella gerarchia “formale”[23]; il che non esclude però che entrino in gioco anche rapporti di gerarchia strutturale tra la norma (statale) di principio e la norma (regionale) di dettaglio, secondo una relazione che opera anche tra altre fonti primarie (per esempio, tra la legge di delega e il decreto legislativo delegato).

La riforma costituzionale nel 2001 ha modificato l’intero impianto dei rapporti tra Stato, Regioni e autonomie locali, ma non ha affatto introdotto elementi utili all’elaborazione di un diverso, più coerente e affidabile sistema delle fonti. Anzi, il quadro si è ulteriormente complicato. Posto che il nodo relativo al rapporto tra legge statale e legge regionale resta irrisolto per ciò che riguarda le materie di competenza concorrente di cui al “nuovo” art. 117.3, due problemi ulteriori rendono ancora più difficile la costruzione del “sistema”.

Da un lato, il tentativo di contrapporre un elenco di materie “esclusive” dello Stato (art. 117.2) all’attribuzione “residuale” alle Regioni di ogni materia non espressamente enumerata sembra ridare forza ad un’applicazione “forte” del criterio della competenza, in forza della quale si potrebbe essere tentati di costruire una netta separazione delle rispettive attribuzioni legislative, ormai poste su un piano di piena equiparazione[24]. Ancora una volta, però, lo schema astratto che ha ispirato il legislatore (costituzionale) si è rivelato incapace di operare concretamente: la rigida contrapposizione di competenze, governata dalla fragile indicazione di “etichette” che marcano le “materie”, si è rapidamente dimostrata inadatta a governare la complessità delle politiche pubbliche. Perciò la realtà della legislazione e la giurisprudenza costituzionale hanno già smentito questa ipotesi di organizzazione del sistema delle fonti, e il sistema si va perciò faticosamente riorganizzando per altre strade.

Dall’altro lato, un ulteriore problema è emerso (o forse soltanto si è fortemente accentuato): il nuovo Titolo V, già dalla sua disposizione d’esordio[25], sembra voler attenuare quegli elementi di supremazia che caratterizzavano, nel testo del 1948 e nella prassi applicativa conseguente[26], la posizione dello Stato (e della sua legge) nei confronti delle Regioni e degli enti locali; per di più, nell’art. 117.6 si riconosce agli enti locali “potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”, ponendo perciò con forza l’esigenza di individuare la collocazione dei loro atti normativi nel “sistema” delle fonti.

Che i Comuni (e le Province) esaurissero il loro potere normativo con l’emanazione di regolamenti era perfettamente coerente con una visione monolitica e gerarchica dell’ordinamento giuridico, dominato dalla legge statale, cui corrispondeva una visione monolitica e gerarchica dell’amministrazione pubblica[27]: in essa il Comune compariva essenzialmente come la struttura periferica di un apparato funzionale dominato dal Governo, la prosecuzione delle scelte d’indirizzo compiute dallo Stato (e dalle sue leggi). Tale impianto concettuale mostrava però i suoi limiti con l’avvento della Costituzione repubblicana, la quale inseriva il principio di autonomia locale tra i suoi “principi fondamentali” (art. 5) e dotava gli enti locali di autonomia politica (art. 128), oltre che di un ordinamento democratico – rappresentativo. Come poteva reggere ancora la sottoposizione del governo locale, non solo alle leggi, ma anche ai regolamenti dello Stato[28] (e della Regione), privi questi ultimi della legittimazione democratica che distingue gli atti derivanti direttamente dal circuito della rappresentanza elettorale[29]? La gerarchia degli atti veniva scissa dalla gerarchia dei procedimenti (e delle garanzie di legittimazione democratica insite in essa).

Il problema ha acquisito tutta la sua evidenza a seguito della legge di riforma dell’ordinamento locale (legge 142/1990), la quale riconosce il Comune come l’ente che “rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo” (art. 2.1) e gli attribuisce “tutte le funzioni amministrative che riguardino la popolazione ed il territorio comunale… salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze” (art. 9.1). Un ente che assuma su di sé la rappresentanza della propria comunità, abbia fini generali (e non solo quelli che gli sono assegnati dalla legge dello Stato[30]), sia dotato di un ordinamento politico di forte rappresentanza politica, legittimata dal voto popolare, ma esprima la sua autonomia politica solo nelle forme di regolamento amministrativo, che è destinato a ricoprire una posizione gerarchica di scarso valore, pone una seria sfida al “sistema delle fonti”. Può il regolamento comunale rimanere ancora “ordinato” con l’impiego esclusivo del “criterio gerarchico”, oppure richiede che venga applicato quello della “competenza”, trovando il suo fondamento diretto in Costituzione[31]? Se alla “competenza” è necessario fare appello, come si concilia questo incerto criterio con quello della gerarchia formale (relativa alla qualità degli atti) che tradizionalmente ordina i rapporti tra la “legge” e il “regolamento” [32]?

Il nuovo testo del Titolo V non risolve affatto i problemi già posti dalla Costituzione del 1948, ma anzi li rende ancora più difficili e urgenti.

5. c) il pluricentrismo “esterno”

 

Il “criterio della competenza”, la cui applicazione ai rapporti tra legge statale e fonti delle autonomie ha dato esiti così incerti, è diventato invece l’asse portante attorno al quale si sono organizzati i rapporti tra ordinamento italiano e ordinamento comunitario.

La “pressione” che le fonti derivanti da ordinamenti esterni esercitano su quello italiano non è causata dalla Costituzione repubblicana. Essa ha tratto ispirazione dalla tradizione visione “dualista”, basata sulla impermeabilità dell’ordinamento nazionale rispetto agli ordinamenti esterni, impermeabilità che è tratto caratteristico del concetto stesso di sovranità. Due sole porte sono lasciate aperte dalla Costituzione, certo non progettate per far passare tutto ciò che in seguito vi è transitato: il “rinvio automatico” alle norme internazionali di fonte consuetudinaria (art. 10.5) e la previsione di una possibile, parziale “cessione di sovranità” al fine di consentire che l’Italia faccia parte di un’auspicata riedizione della Società delle Nazioni (art. 11).

Come è ben noto, per la “porta” dell’art. 11 ha fatto invece ingresso nel nostro ordinamento l’alluvione normativa prodotta dalle istituzioni comunitarie. Il Trattato istitutivo, così come interpretato dalla Corte di giustizia, ha sancito il principio di prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno: ma è compito del singolo ordinamento interno determinare come debba operare questo principio. Il legislatore italiano non si è mai preoccupato (almeno sino alla riforma costituzionale del 2001) di dettare norme apposite che servissero da guida per i soggetti – i giudici e l’amministrazione pubblica – cui spetta applicare il diritto; per cui l’onere di individuare soluzioni adeguate è stato assolto dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale, più volte chiamata a decidere sul contrasto tra le leggi ordinarie e le norme comunitarie.

La Corte ha mutato nel tempo l’impostazione del problema, adattando i meccanismi di adeguamento del diritto interno a quello comunitario ai diversi livelli di compenetrazione tra i due ordinamenti che venivano man mano realizzandosi di fatto. In un primo tempo la Corte costituzionale, secondo gli schemi più tradizionali, ha applicato il criterio cronologico: i conflitti tra leggi italiane e “leggi” comunitarie si sarebbero dovuti risolvere secondo le regole della successione delle leggi nel tempo, le norme più recenti abrogando quelle meno recenti, “senza dar luogo a questioni di costituzionalità[33]. Naturalmente questa soluzione non era affatto gradita alla Corte di giustizia, impegnata a garantire sempre e comunque la prevalenza del diritto comunitario: che una norma nazionale potesse “abrogare” un regolamento comunitario altro non poteva sembrarle che una plateale violazione del principio di supremazia del diritto comunitario. Sicché la Corte costituzionale cercò di adeguare la propria giurisprudenza, applicando il criterio gerarchico: le leggi italiane che contrastassero con una precedente norma comunitaria dovevano essere impugnate davanti alla Corte costituzionale stessa per violazione “indiretta” dell’art. 11 Cost., poiché contravvenivano agli impegni e alle limitazioni che l’Italia aveva assunto ratificando il Trattato[34]. Ma anche questa soluzione non era affatto priva di inconvenienti: in anni in cui la Corte costituzionale era alle prese con l’unico processo penale per “reati ministeriali” in cui sia incappata (lo “scandalo Lockheed”), il ritardo accumulato nel risolvere le questioni di legittimità costituzionale fece sì che per anni le norme comunitarie “violate” dalla legge italiana potessero restare paralizzate, con patente violazione degli obblighi assunti dallo Stato italiano con la Comunità. Ed allora, con la sent. Granital[35], la Corte cambiò ancora una volta il criterio di soluzione delle antinomie, optando per il criterio di competenza[36].  I due ordinamenti sono visti come ordinamenti giuridici autonomi e separati, ognuno dotato di un proprio sistema di fonti (secondo la c.d. “teoria dualistica”); per cui il conflitto tra fonti interne e fonti co­munitarie è solo apparente, perché ognuna è valida ed efficace nel proprio ordinamento secondo le con­dizioni poste dall’ordinamento stesso; è il Trattato a segnare la “ripartizione di competenza” tra i due ordinamenti, per cui – in caso di apparente antinomia -  è il giudice italiano che deve accertare se, in base al trattato, nella materia specifica sia competente l’ordinamento comunitario o quello italiano e deve, di conseguenza, applicare la norma dell’ordinamento competente.

La soluzione è brillante, non solo perché riesce a dare una direttiva abbastanza precisa agli interpreti – e ai giudici in primo luogo – su come inserire le norme comunitarie nel sistema delle fonti, ma anche perché apre uno spiraglio attraverso cui può penetrare solo (anche se non è poco) il diritto di provenienza comunitaria, non anche le norme provenienti dal diritto internazionale o da altre organizzazioni di stati (per i quali non vale la “copertura” dell’art. 11). Perciò né i trattati internazionali né, in particolare, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto che ne deriva possono filtrare nell’ordinamento italiano direttamente, cioè senza un’apposita disposizione legislativa di trasposizione. Secondo la dommatica tradizionale, infatti, le fonti “esterne” al nostro ordinamento possono acquistare rilevanza al suo interno se e soltanto se vengono “eseguite” da disposizioni interne: queste “producono” norme interne corrispondenti a quelle esterne, norme che pertanto acquistano il rango gerarchico proprio dell’atto che le ha immesse. I Trattati internazionali sono perciò “fatti” estranei al nostro ordinamento, da cui è il legislatore italiano che provvede a trarre norme giuridiche applicabili nel nostro ordinamento: che lo faccia attraverso apposite leggi di disciplina (cosa purtroppo alquanto rara) o semplicemente attraverso un “ordine di esecuzione”[37] (come avviene nella normalità dei casi), è comunque la disposizione posta dal legislatore italiano che “genera” le norme che il giudice o l’amministrazione dovranno applicare.

Come si vede, nei rapporti che intercorrono tra l’ordinamento italiano e quelli esterni (a parte quanto ha elaborato la Corte costituzionale per l’ordinamento comunitario), lo schema su cui si basa la costruzione del “sistema” è ancora quello ereditato dalla tradizione ottocentesca: il sistema delle fonti italiane è “chiuso”, dominato dal principio di esclusività; le fonti sono tutte identificate da apposite “norme di riconoscimento” poste dal nostro ordinamento (le norme costituzionali sulla funzione legislativa e sugli atti con forza di legge, quelle sulla potestà legislativa regionale, sulle fonti “rinforzate”, sulla revisione costituzionale; gli articoli delle Preleggi; l’art. 17 della legge 400/1988 per il potere regolamentare dell’esecutivo; ecc.).

La summa divisio corre ancora tra le fonti-atto e le fonti-fatto: le prime sono imputabili a soggetti cui lo stes­so ordinamento riconosce il potere di porre in essere atti normativi, sono frutto di un agire volontario da parte di un organo a ciò abi­litato dall’ordinamento giuridico, costituiscono l’esito di procedimenti altamente formalizzati (e controllabili); le seconde invece costituiscono ormai una categoria residuale, perciò stesso non definibile. La categoria delle fonti-fatto è sorta avendo come riferimento la consuetudine, per cui ancora oggi nelle definizioni di essa ricorrono riferimenti frequenti ad espressioni come “fenomeni normativi non volontari”, “comportamenti sociali”, “produzione sociale spontanea di norme”, “diritto non scritto”. Poiché nella consuetudine è il “fatto” che crea la norma, si attenua in relazione al suo accertamento la regola “iura novit curia”, essendo onere della parte “allegare” i fatti, se non sono notori.

Tuttavia la consuetudine ormai occupa solo interstizi insignificanti del “sistema” delle fonti, mentre nella categoria delle fonti-fatto sono confluiti tutti quei complessi fenomeni normativi che conseguono all’internazionalizzazione dell’economia, della società e del diritto. Fonti-fatto sono perciò qualificati gli atti normativi della Comunità europea, i trattati internazionali, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (nell’interpretazione quotidiana che di essa fornisce la Corte di Strasburgo), le stesse leggi degli ordinamenti stranieri richiamate dalle norme di diritto internazionale privato: però nessuna di queste fonti è “involontaria” o “spontanea”, nessuna è “non scritta”. Siccome esse non provengono da “organi abilitati dal nostro ordinamento”, ciò non consente di annoverarle tra le “fonti-atto”, impedisce al giudice italiano di  rilevarne gli eventuali vizi di legittimità, ostacola talvolta l’accertamento giudiziale della vigenza della norma, esclude la possibilità del ricorso in Cassazione per la loro violazione o falsa applicazione.

Anche questi però sono dogmi vacillanti, corollari del concetto tradizionale di “fatto normativo”, che non si adattano affatto a tutti i fenomeni che vengono imputati a questa categoria: che il giudice non possa rilevare i vizi formali o sostanziali delle fonti-fatto è un’affermazione che non vale affatto per le norme comunitarie (il Trattato legittima il giudice nazionale a investire in via pregiudiziale la Corte di giustizia con questioni relative alla validità, oltre che all’interpretazione, degli atti compiuti dalle istituzioni della Comunità e della BCE[38]). Certo, se in base alle norme di diritto internazionale privato il giudice si trova ad applicare la legge di uno Stato straniero, non può rilevarne i vizi impugnandola di fronte alla giurisdizione di quel paese; ma dopo la riforma intervenuta con la legge 218/1995 spetta al giudice italiano “accertare” la legge straniera e interpretarla “secondo i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo”[39] e persino, se quell’ordinamento prevede un controllo diffuso di costituzionalità, disapplicarla qualora la ritenga in contrasto con la Costituzione di quel paese[40]. Inoltre è pacifico che la violazione della norma di diritto straniero sia deducibile come motivo di ricorso in Cassazione[41].

La categoria delle fonti-fatto, che costituisce uno degli elementi portanti del sistema delle fonti, ha ormai perso ogni tenuta concettuale ed è definibile solo in negativo, come “tutto ciò che genera norme giuridiche ma non è iscrivibile tra le fonti-atto”. Siccome però non si tratta più di fenomeni periferici del diritto applicato nelle aule giudiziarie, ma ne costituiscono anzi una parte cospicua (e spesso connesso a questioni di elevato significato economico), la debolezza dei concetti ordinatori si riflette sulla difficoltà operativa che incontrano gli interpreti nel determinare quale sia il diritto applicabile e come debba essere applicato.

Su tutto ciò la riforma costituzionale del 2001, che ha introdotto nell’art. 117.1 un esplicito riferimento al limite che le leggi dello Stato e delle Regioni incontrano nell’ordinamento comunitario e negli obblighi internazionali, non ha inciso affatto nel senso di una maggior chiarezza. I problemi interpretativi che la disposizione presenta non sono semplici, ma essa può preludere all’apertura di una nuova “porta” di comunicazione tra l’ordinamento italiano e quello internazionale - con l’effetto però di complicare ulteriormente, non certo di semplificare gli sforzi di ricondurre le fonti normative a sistema coerente.

6. d) la giurisprudenza delle Corti costituzionale, comunitaria e Cedu

 

Se la giurisprudenza sia o meno fonte del diritto è una questione tanto antica quanto oziosa[42]. Ormai è difficile incontrare chi neghi risolutamente l’apporto innovativo dell’interpretazione o resti affezionato al mito del giudice bouche de la loi: ed è del tutto normale nel lavoro del giurista che, accanto alla ricerca della norma di legge che regola il caso, ci si preoccupi di ricostruire i precedenti giurisprudenziali, le rationes decidendi, le “massime” elaborate dai giudici[43]. Vi è però un profilo che non può essere ignorato impostando un’analisi del “sistema delle fonti”: il ruolo assunto dalla Corte costituzionale, nonché dalle Corti della Comunità europea e della CEDU.

Il tratto che segna la particolarità della “produzione normativa” generata da questa tre Corti è che esse detengono il monopolio dell’interpretazione dell’atto che le ha istituite (rispettivamente, la Costituzione, il Trattato istitutivo e il “diritto derivato” da esso, la Convenzione). Esse hanno perciò il potere di produrre “norme” nel senso di dichiarare, con effetti tendenzialmente erga omnes, il significato normativo delle singole disposizioni interpretate. Queste “norme” interagiscono con le altre componenti del sistema normativo, suscitando molteplici interrogativi. Quali effetti producono nel sistema le sentenze della Corte costituzionale quando tolgono o aggiungono una norma alla disposizione sindacata? Quali conseguenze derivano dalla sentenza della Corte di giustizia, adita in via pregiudiziale dal giudice nazionale (italiano o di altro Stato membro), quando accerta che una determinata disposizione nazionale “osta” con il diritto comunitario? Come si riflette sul piano del diritto interno la sentenza della Corte EDU che dichiara che una norma interna (e non semplicemente una sua specifica applicazione) ha violato un articolo della Convenzione[44]?

Sono quesiti ai quali si possono dare solo risposte complesse e di notevole impegno teorico. Non sono neppure questioni che possano trovare risposte appaganti grazie all’intervento del legislatore, poiché qui siamo ormai piuttosto lontani dalla “teoria degli atti normativi” e abbondantemente penetrati nella “teoria dell’interpretazione”. La Costituzione e le leggi di attuazione ci dicono con una certa precisione quali sono gli effetti delle sentenze della Corte costituzionale che dichiarano l’illegittimità di una legge: ma nulla ci dicono della c.d. “interpretazione conforme”, né delle sentenze additive o delle additive “di principio”; nulla ci dice il Trattato Ce sugli effetti diretti che possono provocare le sentenze con cui la Corte di giustizia interpreta il diritto comunitario; mentre è all’ordine del giorno di giurisprudenza e dottrina il problema di quale “trattamento” debbano riservare i giudici italiani alle sentenze della Corte EDU. Una volta di più il peso di ricostruire il “sistema delle fonti” è affidato alla responsabilità degli interpreti.

7. e) la produzione “sociale” di norme

 

Le teorie classiche spesso riservano nel “sistema delle fonti” uno spazio agli atti di autonomia privata[45]. Sono le norme prodotte da chi, pur non essendo investito di pubbliche funzioni, esercita poteri normativi “per disciplinare rapporti giuridici destinati a svolgersi tra loro o con soggetti a qualunque titolo tenuti ad uniformarsi alle loro disposizioni”[46]. Si tratta dunque o di rapporti giuridici che attengono al diritto di proprietà (per es. il regolamento di condominio o quello di un’impresa) o di particolari prodotti dell’autonomia negoziale, quali per esempio, per citare i più noti, i contratti collettivi di lavoro o gli statuti delle associazioni. Inserire o meno questo tipo di fonti nel “sistema normativo” dipende essenzialmente dal gusto estetico di chi sta elaborando il “modello” e dalla estensione teorica di questo.

Va però notato che, assumendo talvolta le formazioni sociali venature pubblicistiche più o meno accentuate, può accadere che gli atti che formano i rispettivi ordinamenti acquistino a loro volta un carattere normativo rilevante per l’ordinamento generale (si pensi all’ordinamento sportivo, alle norme poste dai consorzi obbligatori, agli Ordini professionali o ai regolamenti degli enti pubblici non territoriali). Sono fenomeni indubbiamente affascinanti ma sufficientemente “organizzati” nel sistema delle norme attraverso il criterio gerarchico (sono comunque fonti sottoposte alla fonti primarie) e a quello di competenza (è la legge che di solito assegna a loro un determinato spazio di autonomia “riservato”, cioè non penetrabile da altri atti sublegislativi[47]).

In tempi più recenti, però, la tradizionale prospettiva dell’autonomia privata e degli ordinamenti sezionali è stata ingigantita e complicata da un fenomeno connesso all’imporsi nel nostro ordinamento, sotto la spinta del diritto comunitario e della c.d. globalizzazione, dell’autonomia del “mercato”. Interi segmenti della regolazione (e dell’organizzazione) pubblica sono arretrati per lasciare il campo a fenomeni regolatori la cui natura non è sempre agevole determinare.

L’archetipo è costituito dai regolamenti emanati dalla Banca d’Italia, in particolare nella sua funzione di vigilanza sugli istituti bancari e sugli intermediari finanziari, nei confronti dei quali gode di autonomia normativa e potere sanzionatorio; ma esercita poteri normativi anche con riguardo ai sistemi di pagamento, nella disciplina dei prodotti finanziari e della gestione dei fondi, in materia di trasparenza delle operazioni bancarie. In linea di principio, questi poteri sono attribuiti da apposite “norme di riconoscimento” contenute in leggi dello Stato, per cui è in esse che vanno ricercati i criteri (posizione gerarchica, ambiti di competenza “riservata”) con cui inserire questi corpi normativi settoriali nel “sistema” delle fonti.

Altrettanto può dirsi, sul piano europeo, dei poteri normativi della Banca Centrale Europea[48] e, di nuovo sul piano interno, degli ampi poteri normativi affidati alle c.d. autorità amministrative indipendenti. Il fenomeno è interessante, perché è in continua crescita: lo Stato – si dice - tende a ritrarsi dall’intervento diretto e dall’esercizio del potere normativo e affida i compiti di regolazione a soggetti che, pur istituiti e disciplinati per legge, si collocano ai margini o fuori del sistema dell’autorità pubblica. Sono “indipendenti” nel senso che vengono sottratti al circuito politico-rappresentativo: se ciò dovrebbe rafforzare il carattere “neutrale” della loro attività normativa, ne indebolisce ovviamente la legittimazione, rompendo proprio quel rapporto, tradizionalmente considerato necessario, tra rappresentanza politica, garanzie procedimentali e collocazione degli atti nella gerarchia delle fonti. Il potere normativo di queste autorità sembra trarre legittimazione “dal basso”, per almeno due motivi: vuoi perché l’attribuzione di tale potere è “finalizzata alle esigenze che emergono dal settore da regolare”, ed è perciò coerente che i regolamenti emanati “ricavino le regole dall’oggetto da regolare”[49]; vuoi perché la regolazione dello specifico segmento di mercato verso cui si rivolge la competenza del soggetto regolatore è generalmente partecipata e condivisa dagli operatori economici che agiscono il quel segmento. L’osmosi tra pubblico e privato è dunque un tratto caratteristico, anzi programmatico, di queste regolazioni.

È vero dunque che questi atti entrano nel “sistema” perché previsti dalla legge; oltretutto, nei loro confronti vengono garantiti i meccanismi ordinari di tutela giurisdizionale. Ma è anche vero che i poteri regolamentari di queste autorità sono delimitati in modo abbastanza generico sia per estensione che per grado di discrezionalità esercitabile. Le norme che essi emanano derivano molto spesso da “regole” imposte dagli stessi mercati internazionali alla cui regolazione dovrebbero viceversa essere rivolte (le stesse direttive comunitarie sono frequentemente ispirate ad esse). Vi è insomma un rapporto osmotico tra la regolazione che deriva, dall’alto, dalla normativa statale e comunitaria e la regolazione che invece proviene, dal basso, dalle prassi, dagli accordi, dalle normative tecniche che emergono dai “dati scientifici”[50] o dal “mercato” stesso. Questa osmosi si manifesta nella moral suasion di cui si dice siano dotate molte delle regolazioni emanate dalle autorità indipendenti, dai “codici di autoregolamentazione” prodotti dalle organizzazioni professionale e recepiti dalle autorità preposte, dalla produzione di normative tecniche e best practices che in ogni settore alcuni soggetti (enti di unificazione normativa, organizzazioni d’interesse, contratti internazionali ecc.) vanno producendo di continuo, anche per riempire di significato formule legislative che sempre più spesso fanno ed esse rinvio più o meno esplicito. Siamo in un mondo di ectoplasmi normativi, riassunti nella comoda categoria del soft law, dotati di un potere regolativo più o meno intenso – laddove l’intensità non è da misurare con la maggiore minore efficacia di queste discipline, ma è determinata dal maggiore o minore impiego degli strumenti sanzionatori, rientranti nel tradizionale monopolio statale. Lo Stato si ritrova in una situazione antica, funge da “braccio secolare” che garantisce l’effettività di scelte normative assunte altrove.

7. Qual è il “diritto” dello Stato di diritto?

 

Per chi voglia accingersi alla ricostruzione del “sistema delle fonti” si apre quindi in queste zone il problema preliminare di definire ciò che sta dentro e ciò che sta fuori della nozione di “fonte”, interrompendo perciò questo flusso osmotico con un taglio netto che delimiti con qualche precisione il novero delle fonti di cui occuparsi. Se si vuole, anche questo non è un problema del tutto inedito.

In passato il problema si accentrava soprattutto nella difficile cesura da applicare tra gli atti normativi e quelli variamente attribuibili alla c.d. funzione di indirizzo politico e al rapporto di direzione amministrativa: basti richiamare, da un lato, la vasta letteratura sulle direttive amministrative e sugli atti di indirizzo e coordinamento e, dall’altro, le ancor più risalenti riflessioni sugli atti “interni” di organizzazione amministrativa e sulle circolari. Non si può certo affermare che questi fenomeni siano scomparsi, dissolvendo le problematiche teoriche connesse. Il “sistema delle fonti” sembra assestato su un presupposto ricco di implicazioni a tale riguardo: che solo le “fonti primarie” costituiscano un novero chiuso e predefinito dalla Costituzione, mentre le fonti secondarie sono liberamente plasmabili dalle leggi ordinarie. Le stesse leggi “generali” in materia di produzione normativa (si pensi alla legge 400/1988 sui poteri normativi del Governo, o il Testo unico sulla emanazione e pubblicazione degli atti normativi[51]), se, in quanto fonti primarie, s’impongono all’esecutivo e ne disciplinano i comportamenti anche normativi, non sono accreditate della “forza passiva” necessaria per imporsi alle altre leggi: queste restano libere di istituire specifici “atti” con contenuti di tipo normativo, variamente denominandoli.

Le fonti secondarie (e le leggi che le istituiscono) hanno sempre dimostrato una certa tendenza alla “fuga dalla forma”, specie quando sono le norme costituzionali a porre limiti o vincoli[52]. In vigenza del “vecchio” art. 121.2 Cost., che attribuiva al Consiglio regionale la potestà regolamentare, in quasi tutte le Regioni il “regolamento” è pressoché scomparso dalla produzione normativa, mentre – per lo più per espressa previsione legislativa – si sono prodotte numerose specie di fonti anomale, variamente denominate “programmi”, “atti di indirizzo”, “criteri generali”, “indirizzi programmatici”, “linee guida”, “deliberazioni” ecc.: uno sforzo di fantasia lessicale motivato dall’esigenza di aggirare il vincolo costituzionale e consentire alla Giunta regionale (e talvolta allo stesso Consiglio) di produrre le norme necessarie all’attuazione della legge. Qualcosa di analogo è avvenuto dopo l’entrata in vigore del “nuovo” art. 117.6 Cost.: la severa delimitazione costituzionale del potere regolamentare dello Stato alle sole materie “esclusive” viene “evaso”, per esempio, attraverso la curiosa prassi delle leggi che autorizzano il ministro ad emanare decreti “non aventi valore regolamentare[53] anche se contengono prescrizioni normative.

Anche prescindendo da episodi di “truffa delle etichette[54] come quelli appena riferiti, sono in corso nell’ordinamento evoluzioni che spingono verso la proliferazione di atti regolativi anomali. Il venir meno dei poteri di direzione politica dell’economia (fenomeno che ha comportato la scomparsa della partecipazione pubblica nel capitale delle imprese, il che ha aperto la strada alla proliferazione delle autorità indipendenti di regolazione man mano svaniva il potere sostanzialmente gerarchico di impartire direttive alle imprese pubbliche) e l’attenuazione della supremazia dello Stato rispetto al sistema delle autonomie locali (si veda il paragrafo precedente) hanno rafforzato infatti relazioni impostate su un piano più paritario sia tra pubblico e privato sia tra Stato e autonomie locali. Gli accordi di programma, le intese raggiunte in Conferenza Stato – Regioni o in quella Unificata, gli atti di programmazione negoziata sono frutto di negoziazione politica e normativa che si collocano sulla soglia tra l’atto meramente politico e l’atto giuridico produttivo di effetti normativi. Non sono del resto fenomeni ignoti neppure nell’ordinamento comunitario, in cui, anzi, gli accordi interistituzionali hanno costituito il principale motore di evoluzione del sistema di governo[55].

Il fenomeno è imponente e ricco di implicazioni importanti. La natura negoziale di gran parte del soft law mostra come l’attitudine autoritaria e “dirigistica” dello Stato vada temperandosi attraverso la preferenza per metodi consensuali e “partecipati” di produzione normativa. Questa è però una visione parziale del fenomeno. Dietro alla tipicità delle forme in cui si esercita il potere pubblico, lo Stato di diritto custodisce anche le garanzie delle procedure legali attraverso le quali si formano decisioni che rispondano all’interesse generale. Sarà anche vero che assegnare alle istituzioni rappresentative la funzione di garantire la “volontà generale” appartiene più all’ideologia che alla realtà effettiva dello Stato costituzionale, ma non è certo meno vero che le prassi di negoziazione politica aprono un canale privilegiato per gli interessi sociali più forti e meglio organizzati: sicché la “legittimazione dal basso” che può giustificare la produzione normativa “negoziata” o comunque ispirata dal “mercato” o dalla “cosa da regolare” non è per nulla tranquillizzante, se riletta dall’angolo visuale dello Stato di diritto e dei suoi principi. Deviare dalle forme tipiche della produzione di norme generali significa smarrire uno dei capisaldi dello Stato di diritto, la netta separazione tra i documenti che sono abilitati (e legittimati) a produrre regole obbligatorie per la generalità dei consociati e i documenti che sono privi di tali obbligatorietà. Lo “sfarinamento” della sovranità statale, intesa come monopolio della coercizione su un determinato territorio, va di pari passo con la perdita di riconoscibilità di ciò che è “diritto” e ciò che non lo è.

8. Teorie delle fonti e loro “falsificabilità

 

Il primo compito che dovrebbe affrontare chi voglia ricostruire il “sistema delle fonti” inizia dunque dal non piccolo problema di delimitare il campo dei “fatti (ed atti) abilitati dall’ordinamento giuridico a creare diritto oggettivo”[56]. Non si tratta di un impegno significativo solo sul piano teorico, perché determinare se una regola appartenga o meno al diritto oggettivo è gravido di conseguenze pratiche. Per esempio, il giornalista che si attenga alle regole del Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali - approvato dal suo Ordine professionale con la pretesa, del tutto unilaterale (anche se avvalorata dal Garante), di “contemperare i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all’informazione e con la libertà di stampa”[57] - può ciononostante incorrere in un comportamento illecito[58]? Il decreto ministeriale che approva il regolamento di un gioco a premi predisposto dall’ente gestore, oppure lo Statuto di un ente pubblico previdenziale vanno interpretati come atti normativi o come regolamenti contrattuali[59]? Può l’atto di “indirizzo e coordinamento” essere fatto valere come fonte di norme direttamente applicabili, immediatamente vincolanti e dotate di efficacia erga omnes[60]? Scorrendo i massimari di giurisprudenza ci si imbatte in continui dilemmi che si collocano lungo il discrimine tra ciò che è e ciò che non è atto normativo, dilemmi ai quali i giudici offrono risposte molto spesso opposte.

Ma anche varcata questa prima soglia, e ragionando quindi di atti della cui natura normativa più non si deve dubitare, il rapporto tra essi, e quindi la riduzione di essi a “sistema”, è un’operazione teorica spesso assai ardua. Perché di operazione essenzialmente teorica si tratta: questo è l’aspetto più interessante.

Non si vuole certo affermare che il dato normativo non conti: ma è l’evoluzione della legislazione nel suo insieme ciò che maggiormente influenza la costruzione del sistema normativo, non l’emanazione di specifiche disposizioni dirette a fissare le relazioni tra gli atti. Già si è ricordato lo scarso credito che venne riconosciuto alle disposizioni delle Preleggi, le quali si prefiggevano invece il compito di tracciare le linee progettuali del sistema delle fonti. Mortati[61] interpretò l’opinione nettamente prevalente in dottrina riconoscendo ad esse un valore “equiparabile a un Testo unico” di norme già vigenti in precedenza, giudicandole del tutto prive di effetti innovativi. La separazione tra gli atti e le disposizioni da un lato, e le norme e l’interpretazione dall’altro è un tratto necessario della divisione dei poteri, ma è anche la premessa da cui l’interprete muove per svolgere l’opera di ricondurre a sistema atti che sono manifestazione del potere politico e che perciò non sono affatto gravati dall’obbligo della coerenza[62].

Ogni tentativo del legislatore di guidare il processo di interpretazione viene perciò rigettato non solo come un’invasione di campo, ma anche perché rischia di costituire un ostacolo in più che si oppone all’opera ricostruttiva dell’interprete. Il che non vuol dire affatto che si tratta di mondi che non comunicano. È frequente che sia l’elaborazione teorica prodotta dalla dottrina a fornire gli strumenti necessari sia al legislatore che alla giurisprudenza; ma è altrettanto vero che sono poi questi a decretare il successo di un modello teorico o dell’altro. Il dialogo è continuo, così come lo è l’evoluzione.

I modelli teorici elaborati dalla dottrina non sono mai disgiunti dal riferimento ai dati empirici desumibili dal concreto modo di porsi dell’ordinamento nella sua complessità. La letteratura pre-costituzionale rifletteva essenzialmente sui rapporti intercorrenti tra la legge e i regolamenti, rapporti saldamente ancorati allo schema della gerarchia: chi, come Carlo Esposito, aveva cercato di disancorare il “sistema delle fonti” da questo schema, proponendo un’ipotesi alternativa di costruzione del sistema basata su uno schema circolare in cui ogni atto normativo era sostanzialmente capace di regolare la propria validità, non ebbe seguito “operazionale”, vide cioè “falsificata” la sua teoria dalle prassi giurisprudenziali e dalla stessa legislazione (le Preleggi infatti accolgono e calcificano il principio di gerarchia). Però nei rapporti tra regolamenti già si faceva strada il “criterio della competenza”, con il quale si poteva rappresentare la “realtà” legislativa costituita da leggi che istituivano ambiti di autonomia normativa “riservati”[63].

L’introduzione della Costituzione rigida mutava i riferimenti empirici e consentiva a Crisafulli[64] di riassumere il criterio della competenza come rappresentazione del rapporto tra “atti normativi”. Ma anche questa teoria, che pure costituiva un brillante e valido strumento descrittivo di spiegazione di come era costruito il sistema, si rivelava poco produttivo come criterio normativo per mezzo del quale fosse possibile risolvere le antinomie che si creavano, per esempio, tra legge statale “di principio” e legge regionale “di dettaglio” (cioè proprio in quel contesto a cui principalmente si rivolgeva l’attenzione di Crisafulli). Sotto questo profilo, anche questa teoria è stata “falsificata” dalla giurisprudenza costituzionale che ha avvalorato la prassi del legislatore statale di emanare norme di dettaglio autoapplicative, sicché il legislatore regionale subiva una retrocessione dalla competenza legislativa “riservata” alla mera “preferenza”[65].

Ed invece il criterio della competenza era destinato ad imporsi, proprio grazie alla giurisprudenza della Corte costituzionale, come criterio normativo per la risoluzione di conflitti, non tra atti e neppure tra norme[66], ma tra ordinamenti, quando a configgere siano leggi italiane e norme comunitarie. Anche questo episodio è significativo della preparazione tutta teorica del modello applicato dalla giurisprudenza costituzionale: la quale ha adeguato la soluzione prescelta all’evoluzione stessa dell’ordinamento comunitario, adottando di volta in volta tutti i criteri messi a disposizione dalla elaborazione teorica della dottrina.

Sempre nell’ottica dei rapporti tra ordinamenti, oggi il criterio della competenza sta assumendo sempre più vigore come criterio normativo per coordinare gli atti normativi degli enti locali con le leggi dello Stato (e delle Regioni), rapporti che in precedenza venivano risolti per lo più secondo lo schema della gerarchia. È stata la stessa Cassazione[67] ha stabilire, in recenti sentenze, che lo Statuto del Comune non può più, a seguito della riforma costituzionale del Titolo V della Parte II, essere considerato subordinato alle leggi, alla pari della restante normazione secondaria: ed è questa forse una porta aperta per una ricostruzione “sistematica” originale, basata sulla competenza, dell’intero sub-ordinamento degli enti locali.

Se Esposito non aveva avuto successo nel delineare una teoria generale della validità delle leggi, una sua intuizione si dimostra viceversa del tutto valida: i criteri e le teorie che contribuiscono a formare il “sistema delle fonti” sono prodotti essenzialmente culturali, e le stesse norme sulle fonti sono effettive se e solo se riescono a radicarsi nella cultura giuridica[68].

 



[1] N. BOBBIO, Lacune del diritto, in Contributi ad un dizionario giuridico, Torino 1994, 89.

[2] Cfr. G. U. RESCIGNO, L’atto normativo, Bologna 1998, spec. 51-57

[3] È noto, per altro, che le norme sull’ interpretazione, quali l’art. 4 del Code Napoléon (appena citato nel testo) o l’art. 12 della nostre “Preleggi” (di cui si tratterà in seguito), nascono  non dalla pretesa dell’ordinamento statale ad essere completo, ma appunto dal tentativo di regolare i poteri-do­veri dei giu­dici: cfr. G. GORLA, I precedenti storici dell’ art. 12 disposizioni preliminari del codice  civi­le  del  1942  (un  problema  di diritto costituzionale?), in  Foro it. 1969, V, 112 ss.

[4] Ovviamente la letteratura sull’interpretazione giuridica è sterminata. In quella di lingua italiana classici sono i testi di E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici2, Milano 1971 e G. TARELLO, L’interpretazione della legge, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di A. Cicu e F. Messineo,  vol. I.2, Milano 1980. Ora si vedano inoltre di R. GUASTINI, Le fonti del diritto e l’interpretazione, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano 1993; Teoria e dogmatica delle fonti, in Trattato di diritto civile e commerciale cit., vol. I.1, Milano 1998; L’interpretazione dei documenti normativi, ivi, Milano 2004.

[5] Così nella Relazione della Commissione Reale, in G. PANDOLFI, G. SCARPELLO, M. STELLA RICHTER, G. DALLARI, Codice civile (illustrato con i lavori preparatori), I, Milano 1939, 24 ss.

[6] Ibidem, 29.

[7] Rispettivamente agli artt. 2 e 4.

[8] Artt. 14 e 15.

[9] Essi si trovano infatti accomunati nelle Summa di Tommaso (IIª-IIae, q.LX, art. 6).

[10] La volontà abrogatrice del legislatore “può essere espressa o tacita” osserva G. DELVITTO, Commentario teorico-pratico del Codice civile, I, Torino s.d., 84.

[11] Sull’evoluzione storica e teorica del principio di gerarchia cfr. F. MODUGNO, Fonti del diritto (gerarchia delle), in Encicl.dir., Agg. I, 561, 563 ss.

[12] Il riferimento inevitabile è a C. ESPOSITO, La validità delle leggi, Milano 1934.

[13] Cfr. per es. la ricostruzione tracciata da G. ZANOBINI, La gerarchia delle fonti nel nostro ordinamento, in Commentario sistematico alla Costituzione italiana, a cura di  P. Calamandrei e A. Levi, Firenze 1950, 47 ss. (ripubblicato in Scritti vari di diritto pubblico, Milano 1955, 367 ss.).

[14] Sul fenomeno cfr. F. MODUGNO, Fonti cit., 564 ss.

[15] Prima della revisione apportata dalla legge cost. 1/1992, anche l’amnistia e l’indulto erano decretati con un “atto con forza di legge”, emanato dal Presidente della Repubblica su delega votata con legge dalle Camere.

[16]  Le “riserve di legge formale” sono tutte indicate in Costituzione dalla locuzione “le Camere con legge” e riguardano: l’auto­rizzarne alla ratifica dei trattati internazionali: art. 80; l’approvazione dei bilanci: art. 81; la conversione del decreto-legge o l’eventuale “sanatoria” del decreto decaduto: art. 77; la delega legislativa  al Governo: art. 76. Ad esse si associano altre ipotesi, elaborate dalla dottrina, come il conferimento al Governo dei “poteri necessari” in caso di guerra: art. 78. Dopo la riforma dell’art. 79, intervenuta nel 1992, anche per l’amnistia e l’indulto è prevista una “riserva di legge formale”, per di più fortemente “rinforzata” (come si dirà subito dopo).

[17] Altri casi di riserve “rinforzate per contenuto” si ritrovano in molte norme costituzionali: per es., negli artt. 21.5, 42.2, 43.

[18] Anche a causa del fallimento del controllo di merito che gli artt. 117.1 e 127 del testo originario della Cost. avevano previsto proprio per “regolare” i conflitti di merito sollevati dal Governo contro la legge regionale: su tale fallimento cfr. R. BIN, Legge regionale, in Digesto disc. pubbl,, IX, Torino 1994, 173, 187 ss.

[19] Per la potestà esclusiva delle regioni speciali le “norme fondamentali delle grandi riforme economico sociali” sposta ma non di molto (specie nella prassi) l’asse.

[20] Uso la terminologia proposta da Guastini (Le fonti del diritto e l’interpretazione, cit., 37 s.) per indicare un rapporto di superiorità tra atti normativi che possiedono la stessa forza “formale”. Altri la denominano “gerarchia strumentale” (per es. A. PIZZORUSSO, Delle fonti del diritto: art. 1-9, in Commentario del Codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma 1977, 10) o “logica di contenuti normativi” (V. CRISAFULLI, La legge regionale nel sistema delle fonti, in Riv. Trim. Dir. Pubbl. 1960, 262, 286) o “gerarchia circoscritta” (G. U. RESCIGNO, L’atto normativo, cit., 175).

[21] Benché non manchi chi ipotizza il superamento del criterio di gerarchia, considerato ormai del tutto obsoleto, con il criterio della competenza:  cfr. F. MODUGNO, Fonti cit. § 4. Sui diversi sviluppi teorici del criterio della competenza, cfr. S. NICCOLAI, Delegificazione e principio di competenza, Padova 2001, 70 ss.

[22] Sent. 214/1985.

[23] Proprio V. Crisafulli, l’Autore che più aveva contribuito al tentativo di introdurre il criterio della competenza come nuovo criterio di soluzione delle antinomie che, aggiungendosi ai due criteri precedenti, può concorrere a ordinare il “sistema delle fonti” così come emergere dalla Costituzione (Gerarchia e competenza  nel sistema costituzionale delle fonti, in Riv.trim.dir.pubbl. 1960, 775 ss.), riconosce alla fine che quella teoria non regge alla prova dei fatti, perché all’idea della separazione delle competenze tra legge statale e legge regionale si sia sostituita una (quasi) completa concorrenza, mitigata da un principio di preferenza per la legge regionale di dettaglio (cfr. Vicende della “questione regionale”, in Le Regioni 1982, 495, 502-507).

[24] Cfr. G. G. FLORIDIA, Fonti regionali e sistema delle fonti, in La revisione costituzionale del Titolo V tra nuovo regionalismo e federalismo, a cura di G.F.Ferrari e G.Parodi, Padova 2003, 33, 35 s.

[25] Art. 114.1: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”.

[26] Cfr. in particolare S. BARTOLE, Supremazia e collaborazione nei rapporti tra Stato e regioni, in Riv. trim. dir. pubbl. 1971, 84 ss.

[27] La gerarchia, nell’organizzazione amministrativa, rappresenta “la linea concatenata delle autorità amministrative disposte per gradi, e solo così atte a trasmettere fino all’ultimo lembo della realtà statuale la volontà sovrana, fonte e capo di unità del potere”: G. MARONGIU, Gerarchia amministrativa, in Encicl. Dir. XVIII, 616, 617. Che il rapporto di gerarchia possa sussistere anche in relazione ad enti dotati di autonomia, come gli enti locali, è finemente argomentato da A. AMORTH, La nozione di gerarchia, Milano 1936, 22 ss.

[28] Secondo lo schema già tracciato da G. ZANOBINI, Gerarchia e parità fra le fonti, in Studi in onore di Santi Romano, I, Padova 1939, 589 ss. (ora in Scritti vari cit., 299, spec. 319 ss.).

[29] Il punto è colto con esattezza da V. CRISAFULLI, La legge regionale cit., 268-270.

[30] Secondo l’insegnamento classico di Zanobini “la competenza ad emanare leggi in senso materiale non è per gli organi amministrativi una competenza originaria” (Il fondamento giuridico della potestà regolamentare, in Scritti vari cit., 145, 153): per cui anche il potere regolamentare dei comuni non può giustificarsi che attraverso il richiamo di una legge che ne attribuisce la competenza (anche se indirettamente, cioè affidando all’ente la cura di un determinato interesse).

[31] Come ha affermato il Cons. St., sez. consultiva, parere 335/2003. Il problema è ora approfonditamente trattato da G. DI COSIMO, I regolamenti nel sistema delle fonti, Milano 2005, spec. 75 ss. e 141 ss., il quale osserva che la “riserva” posta dall’art. 117.6 Cost. provoca una “frantumazione della categoria dei regolamenti locali”, per cui i regolamenti locali che si occupano della disciplina sostanziale della materia andrebbero inquadrati con il criterio gerarchico (non operando per essi la riserva), mentre quelli che si occupano degli aspetti procedurali e organizzativi andrebbero inquadrati con il criterio della competenza (81 s.).

[32] L’introduzione della Costituzione rigida ha comportato – come si ripete usualmente – l’estensione del principio di legalità alla stessa funzione legislativa. Ma si è creata così una situazione che presenta un notevole isomorfismo con quanto è accaduto nell’organizzazione amministrativa, nella quale l’introduzione della riserva di legge e la conseguente attribuzione per legge di competenze a determinati uffici o enti ha fortemente compromesso l’applicazione del principio di gerarchia, rendendolo un principio meramente residuale: “quando è la legge che investe un ufficio, in modo immediato e sicuro, di una competenza specifica, come può configurarsi la permanenza di una piena superiorità gerarchica?”: G. MARONGIU, Gerarchia amministrativa, cit., 621. D’altra parte, “gerarchia è concetto antitetico di competenza esclusiva” aveva già affermato A. DE VALLES, Teoria giuridica della organizzazione dello Stato, I, Padova 1931, 313.

[33] Sent. 14/1964.

[34] Sent. 232/75.

[35] Sent. 170/1984.

[36] In precedenza, la dottrina (soprattutto internazionalista: cfr. per esempio B. CONFORTI, Diritto comunitario e diritti degli Stati membri, in Riv. Dir. int. priv. proc. 1966, 5, 18 s. e Regolamenti comunitari, leggi nazionali e Corte costituzionale, in Foro it. 1976, I, 542 ss.) – seguita talvolta dalla giurisprudenza di merito – aveva suggerito anche di applicare il criterio di specialità, risolvendo così l’antinomia sul piano esclusivo dell’interpretazione: il conflitto tra norma interne e norme comunitarie sarebbe solo apparente, perché le norme comunitarie andrebbero sempre intese come norme speciali in virtù della specialità del procedimento di immissione e per la separazione di competenza che le caratterizzano. Quest’ultimo argomento è usato dalla sent. Granital che ne accentua la portata sino a fondarvi la tesi della completa separazione dei due ordinamenti.

[37] Come è noto, l’ordine di esecuzione è una formula inserita in buona parte delle leggi di autorizzazione alla ratificata dei trattati internazionali, il cui contenuto è sempre lo stesso: “Piena ed intera esecuzione è data al Trattato…”. Incomprensibilmente, nella prassi parlamentare si è imposta, per analogia con formula dell’autorizzazione alla ratifica, la regola della non emendabilità dell’ordine di esecuzione, il che impedisce al legislatore di intervenire per “guidare” attraverso apposite norme o direttive l’opera dell’esecuzione, che resta pertanto interamente affidata all’interprete. Opera che risulta particolarmente gravosa quando – come spesso capita – si ordini l’esecuzione di trattati che non contengono disposizioni fraseggiate in modo tale da consentirne la applicazione diretta da parte del giudice.

[38] Art. 234.1, lett. b), Tr.CE.

[39] Così, rispettivamente, gli artt. 14 e 15 della legge 218/1995.

[40] Come è chiarito dalla Relazione ministeriale: cfr. N. BOSCHIERO, Commento all’art. 15, in Le nuove leggi civili commentate, 1996, 1045.

[41] Così ha ritenuto la Corte di Cassazione anche prima dell’entrata in vigore della legge 218/1995: cfr. Sez. II, 29 gennaio 1993 n. 1127 (in Juris data).

[42] Cfr. per un quadro analitico delle opinioni, R. GUASTINI, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., 259-266.

[43] Cfr. A. PIZZORUSSO, Comparazione giuridica e sistema delle fonti del diritto, Torino 2005, 38 s.

[44] Come è noto, la Risoluzione Res.(2004)3 adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 12 maggio 2004, e la coetanea Raccomandazione Rec(2004)6, invitano la Corte CEDU a identificare nei suoi giudizi le violazioni causate da difetti sistematici conseguenti a discipline legislative e invitano altresì gli Stati e dar seguito alle sentenze della Corte modificando la normativa “censurata”: cfr. la sentenza CEDU, 22 giugno 2004, Broniowski c. Polonia.

[45] Cfr. ad esempio H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, Torino 1990, 287 ss.

[46] A. PIZZORUSSO, Delle fonti del diritto cit., 469.,

[47] Già R. RAVÀ, Gli statuti degli enti pubblici, Milano 1936, 178, rilevava che gli Statuti degli enti pubblici, essendo prodotti tramite forme particolari previste dalla legge, godevano di una competenza riservata che non poteva essere incisa dai normali regolamenti dell’esecutivo. In senso analogo cfr. G. ZANOBINI,  Gerarchia e parità cit., 320 s.

[48] Si veda in particolare l’art. 110 Tr. CE.

[49] Così F. MERUSI, M. PASSARO, Le autorità indipendenti, Bologna 2003, rispettivamente 10 e 98.

[50] Per es., la Cassazione civile , sez. lav., 1 marzo 2006 , n. 4540 (in Juris data), di fronte ad una disposizione che, occupandosi del “rischio silicotigeno” cui sono esposti determinati lavoratori, non indica in valori numerici quale sia la concentrazione che costituisce il rischio concreto, ritiene che “la determinazione della concentrazione… ha valore normativo. Essa va desunta da elementi esterni alla norma stessa, e cioè, atteso l’oggetto della determinazione integrativa, dalle indicazioni della ricerca scientifica, anche variabili nel tempo, con il che si realizza la flessibilità della norma elastica voluta dal legislatore”.

[51] D.P.R. 28 dicembre 1985, n. 1092.

[52] Si vedano le rassegne di G. Tarli Barbieri in Osservatorio sulle fonti 1998 (Atti regolamentari e atti pararegolamentari nel più recente periodo, 241ss.) e  1999 (Fonti del diritto e riforma dei ministeri, 69, spec. 106 ss.)

[53] La vicenda è ben descritta da G. DI COSIMO, Storia di un regolamento mai nato. In margine al decreto-legge 24/2003, in Forum di Quad. cost., e da F. CINTIOLI, A proposito dei decreti ministeriali “non aventi natura regolamentare”, in Quad. cost. 2003, 820 ss.

[54] F. MODUGNO, A. CELOTTO, Un “non regolamento” statale nelle competenze concorrenti, in Quad. cost. 2003, 355, 356.

[55] Cfr. i dati riportati da D. KIETZ, A. MAURER, The European Parliament in Treaty Reform: Predefining IGCs through Interinstitutional Agreements, in European Law Journal, 2007, 20 ss.

[56] Secondo la classica definizione accolta da V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale5, II, Padova 1984, 2.

[57] Così l’art. 1 del Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica ai sensi dell’art. 25 della legge 31 dicembre 1996, n. 675, pubblicato sulla G.U. n. 179 del 3/8/1998.

[58] È apparentemente un punto fermo della giurisprudenza di Cassazione che le regole deontologiche si riferiscono “a precetti extragiuridici ovvero a regole interne alle categorie e non già ad atti normativi” (così ad es., tra le decisioni più recenti, Cassaz. civile, sez. III, 11 ottobre 2006 , n. 21732, in Juris data). Ma in esplicito dissenso da questo orientamento si esprime per es. Cassaz. civile, sez. III, 14 luglio 2004 , n. 13078 (ivi) e Cassaz. civile, sez. un., 23 marzo 2004 , n. 5776 (ivi). Per altro il Consiglio nazionale forense sembra orientato a ritenere che il codice deontologico non abbia carattere “creativo” bensì “ricognitivo” delle situazioni in precedenza ritenute costituenti illecito disciplinare, per cui possa essere invocato anche retroattivamente (si veda per es. la decisione 28 novembre 2003 , n. 372, in Rass. forense 2004, 1005, s.m.).  Anche i giudici amministrativi di primo grado si sono talvolta manifestati propensi ad un’applicazione diretta di tali atti: cfr. per es. T.A.R. Marche, 8 febbraio 1996 , n. 50

[59] Cfr., rispettivamente, Cassaz. civile , sez. III, 31 luglio 2006 , n. 17458, in Mass Giust. civ. 2006, 7-8 e Cassaz. civile, sez. lav., 24 ottobre 1998 , n. 10581, ivi. 1998, 2171 (entrambe nel senso di escludere la natura normative dell’atto).

[60] Per la risposta negativa cfr. Consiglio di stato, sez. V, 28 giugno 2004 , n. 4780 e sez. VI, 3 febbraio 2006 , n. 380 (entrambe in Juris data) e precedenti ivi citati. Ma di contrario avviso sembra invece la Cassaz. penale, sez. III , 10 gennaio 2006 , n. 3963 (ivi); ma in campo penale anche documenti che a prima vista dovrebbero giudicarsi sicuramente privi di “valore normativo” – come un circolare che reca le “linee guida” sugli alimenti adatti ad un intenso sforzo muscolare – può viceversa acquistarlo ai fini di determinare la data dalla quale una determinata condotta può “con la dovuta sicurezza ritenersi qualificata dall’elemento soggettivo” proprio dei reati specifici: cfr. Cassaz. penale, sez. III, 18 maggio 2005, n. 36943 (ivi). Per altro, il T.A.R. Lazio - Roma, sez. III, 9 maggio 2005 , n. 3452 (ivi), affrontando numerose questioni di legittimità delle “Linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita”, non sembra minimamente dubitare della “normatività” del D.M. che le approva. Anche in riferimento all’ “Atto di indirizzo a carattere generale in materia di adeguamento degli statuti delle fondazioni”, adottato dal Ministro del Tesoro e pubblicato nella G. U. del 10 agosto 1999 n. 186, il T.A.R. Lazio - Roma, sez. III, 22 febbraio 2002 , n. 1196 ne afferma expressis verbis l’immediata precettività. In genere la giurisprudenza amministrativa appare alquanto oscillante in relazione al valore da assegnare a questa tipologia di atti, anche quando si è trattato di temi delicatissimi come i criteri di accreditamento delle strutture sanitarie (si vedano, per es., le opposte opinioni espresse da T.A.R. Umbria, 1 luglio 2000 , n. 526 e T.A.R. Campania - Napoli, sez. I, 28 dicembre 1999 , n. 3398) o gli studi di compatibilità ambientale (T.A.R. Lombardia - Brescia, 3 aprile 2001, n. 151; T.A.R. Puglia - Lecce, sez. I, 21 giugno 2001 , n. 3011, T.A.R. Abruzzo - L’Aquila, 26 novembre 2002 , n. 712 e, per l’opinione opposta, TAR Puglia - Bari 1 aprile 2000, n. 1277), fondando spesso il giudizio sulla fraseggiatura delle “disposizioni” in essi contenute o persino sul comportamento conseguente tenuto dai protagonisti istituzionali.

[61] Valore giuridico delle disposizioni generali sulle fonti del diritto nel nuovo Codice civile, 1947, ma ora in Raccolta di scritti, II, Milano 1972, 689 ss.

[62] Si veda sopra il § 1.

[63] Vedi la precedente nota 47.

[64] Vedi il precedente § 4.

[65] Vedi la precedente nota 22.

[66] Il criterio della gerarchia opera con riferimento ai requisiti formali degli atti (la legge, gli atti con forza di legge, i regolamenti), mentre il criterio cronologico, se non si tratta di abrogazione espressa disposta dal legislatore, opera sul piano dell’interpretazione, cioè tra norme. Anche il criterio della competenza, sorto con precipuo riferimento al rapporto tra atti (per es., tra legge statale e legge regionale), viene per lo più riferito dalla dottrina ai rapporti tra i contenuti degli atti, cioè le norme, e quindi sul piano dell’interpretazione: cfr. S. NICCOLAI, Delegificazione cit., 157 ss.

[67] Sez. un., 16 giugno 2005 , n. 12868, in Juris data. Ma in tal senso, già prima della riforma del 2001, cfr. T.A.R. Toscana Firenze, sez. I, 26 marzo 2001 , n. 623, che richiama esplicitamente le posizioni espresse sul punto dalla dottrina.

[68] Cfr. Consuetudine (diritto costituzionale), in Encicl. Dir. IX, 456, 466.