La “leale collaborazione” tra prassi e riforme

 

di Roberto Bin

 

1. Ha compiuto il primissimo passo del suo avventuroso viaggio parlamentare un progetto di revisione costituzionale che modifica radicalmente, in “senso federale”, il Senato. La larga maggioranza che lo ha votato è di buon auspicio, anche se il quadro politico in cui la riforma deve proseguire il suo iter non è certo dei più favorevoli.

È di gran lunga il miglior progetto di revisione del Senato che sia stato preso in considerazione dalle Camere da quando, oltre un decennio fa, si è aperta la stagione delle riforme costituzionali; l’unico in grado di conferire alla camera alta una fisionomia intelligibile. I senatori verrebbero scelti con elezioni di secondo grado: ciascun Consiglio regionale e ciascun Consiglio regionali delle autonomie locali eleggerebbe per quota i nuovi senatori. A parte la sopravvivenza dei “senatori esteri” – che in una camera di rappresentanza territoriale troverebbe una collocazione coerente soltanto se si coltivasse l’ardita ambizione di “federare” l’intero globo terrestre – la denominazione “federale” del Senato appare finalmente coerente con la sua struttura. Ed anche le funzioni legislative che ad esso verrebbero attribuite (mentre resterebbe escluso ogni incidenza nel rapporto fiduciario con il Governo) sembrano en gros compatibili con il modello.

Sarebbe utile un Senato così disegnato? In che modo esso potrebbe migliorare l’efficienza del complesso sistema di governo “multilivello” introdotto dalla riforma costituzionale del 2001?

La principale critica mossa alla riforma del Titolo V colpiva proprio la carenza di istituzioni e di procedure di raccordo tra Stato, Regioni e autonomie locali: mentre la tendenziale equiparazione di questi livelli di governo, la cancellazione di ogni riferimento alla prevalenza assicurata, sempre e comunque, all’interesse nazionale, la più accentuata segmentazione delle competenze in ambiti materiali pur necessariamente connessi, rende ancora più necessarie sedi e procedure di “leale collaborazione”. È stata la stessa Corte costituzionale, sin da subito, a stimolare la moltiplicazione delle procedure di contrattazione. La Corte ha anzi colto l’occasione di interrompere il trend giurisprudenziale precedente, che la vedeva continuamente coinvolta in un impervio giudizio di merito sulla dimensione degli interessi coinvolti dagli atti impugnati. L’accentuazione della “pariodinazione” dei livelli di governo che compongono la “Repubblica”, annunciata dal nuovo art. 114 Cost., è stata la base argomentativa utile per trarre la prescrizione di una procedura collaborativa che deve essere attivata ogni qual volta lo Stato voglia dettare norme su oggetti che non ricadano integralmente all’interno delle materie assegnategli dalla Costituzione, ma lambiscono interessi (e competenze) affidati in cura alle Regioni.

 

2. Il risultato è stato il necessario e sempre più frequente coinvolgimento del “sistema delle Conferenze”, cioè della Conferenza Stato – Regioni o della Conferenza Unificata, le uniche “istituzioni della cooperazione” attualmente operanti (la Conferenza Stato – autonomie locali invece si riunisce raramente più di un paio di volte all’anno). Questi meccanismi di raccordo, da un iniziale nucleo relativamente ristretto di specifici atti amministrativi, si sono così progressivamente estesi ad una ben più ampia e indeterminata tipologia di atti politici. La prassi vede sempre più spesso iscritti nell’ordine del giorno delle Conferenze “accordi” destinati a impostare decisioni di alta politica, sia che riguardino questioni che coinvolgono direttamente le attribuzioni regionali (i piani sanitari, la partecipazione alla formazione degli atti comunitari, il “federalismo fiscale” ecc.), sia che tocchino invece temi politici di interesse più generali (per esempio, l’impostazione della legge finanziaria, i costi della politica, la lotta alla criminalità). Come ha osservato la Corte costituzionale, essi “rappresentano la via maestra per conciliare esigenze unitarie e governo autonomo del territorio, poteri dominicali e interessi delle collettività amministrate”: costituiscono “la via di concretizzazione del parametro della leale collaborazione che… appare anche la più coerente con la sistematica delle autonomie costituzionali, giacché obbedisce ad una concezione orizzontale-collegiale dei reciproci rapporti più che ad una visione verticale-gerarchica degli stessi” (sent. 31/2006).

L’estensione e il rafforzamento del ruolo delle Conferenze è stato accompagnato da una interessante evoluzione delle modalità di funzionamento, evoluzione non tracciata da norme legislative – la disciplina è minima e anche piuttosto equivoca – ma dalla prassi: da prassi che spesso si svolgono ben lontane dalla previsione normativa. In via di prassi si è introdotta una forma di contrattazione dell’ordine del giorno delle Conferenze, e la convocazione preliminare della Conferenza dei Presidenti delle Regioni per concordare tra esse posizioni comuni che poi vengono comunicate al Governo in sede di Conferenza Stato – Regione (o Unificata) – il che spiega come mai la rappresentanza delle Regioni in queste ultime sia in genere ridottissima (poche volte si va oltre ad un paio di Presidenti e qualche assessore) anche quando gli argomento trattati sono di grande importanza. Sempre per prassi, è nella Conferenza dei Presidenti che talvolta le Regioni si contano votando, non certo nella seduta con i rappresentanti del Governo.

L’organizzazione stessa dei lavori delle Conferenze si è evoluta in via informale, per accordi informali. All’organizzazione per gruppi di lavoro formati dai funzionari di settore si è aggiunta di recente un’innovazione importante: seguendo l’esempio del Coreper (il Comitato dei rappresentanti permanenti che coopera con il Consiglio dell’Unione europea), gli ordini del giorno sia della Conferenza Stato – Regioni sia della Conferenza Unificata si sono scissi in due parti, secondo i risultati che l’istruttoria aveva raggiunto nei gruppi misti di lavoro: nella parte “B” dell’ordine del giorno si iscrivono gli argomenti “da intendersi già discussi salvo richiesta di dibattito”, nella parte “A” gli oggetti che devono essere effettivamente discussi in quanto in sede tecnica non è stato possibile raggiungere un accordo. Il tavolo politico può così concentrarsi solo sulle questioni più delicate e controverse.

 

3. Di tutte queste trasformazioni operative e organizzative delle Conferenze non c’è traccia nella disciplina normativa, spesso neppure nei verbali delle Conferenze stesse: tutto si è sviluppato di fatto, attraverso un accordo interistituzionale del tutto informale che si è occupato di realizzare condizioni migliori per un efficiente operare di questi organi di raccordo politico e amministrativo tra centro e periferia.

È quasi un miracolo che ciò si sia potuto realizzare in Italia. L’Italia è un paese ricco di ingegneri e di architetti costituzionali, minato da una sorta di idealismo istituzionale che porta sempre ad affrontare i problemi non cercando di escogitare la soluzione meno complicata e “costosa” ma, anzi, iniziando sempre dal “modello”, dal “disegno complessivo”, dal “nodo di fondo”. La riforma del Titolo V del 2001 ne è la dimostrazione: che cos’è l’art. 114 se non un “modello astratto” di multilevel government, l’abbozzo fantasioso di un disegno costituzionale complessivo tanto ambizioso quanto privo di concretezza, lasciato sulla carta del tutto privo degli strumenti istituzionali necessari per poter funzionare? Il problema è che i modelli astratti, frutto di un disegno tutto cerebrale e privo di aderenza alla effettività dei comportamenti istituzionali, costituiscono un salto nel vuoto e innescano conflitti tra le istituzioni, come il contenzioso Stato – Regioni davanti alla Corte costituzionale sta a dimostrare. Mentre le norme giuridiche, e le riforme costituzionali in primis, dovrebbero essere prodotte proprio allo scopo di prevenire e risolvere i conflitti.

È allora di indubbio interesse scoprire che in Italia, paese dominato da un approccio “giacobino” alle riforme costituzionali, nella indiscussa aspettativa che con un atto di volontà normativa si possa radicalmente trasformare la società, si stiano sviluppando invece soluzioni che – per riprendere la nota polemica contro lo spirito delle costituzioni rivoluzionarie francesi – s’ispirano invece ad una filosofia di tipo burkiano, in cui le istituzioni si consolidano progressivamente, dando luogo passo dopo passo ad un disegno complessivo leggibile solo in retrospettiva.

 

4. La prassi però ha i suoi limiti. Anzitutto quello di dipendere dalla volontà dei protagonisti di mantenerla in efficienza. Le Conferenze funzionano solo se il Governo vuole farle funzionare, se ritiene di avere un interesse politico a contrattare con le Regioni piuttosto che ad alimentare un defaticante contenzioso giurisdizionale. In secondo luogo le prassi si scontrano con le disposizioni vigenti nell’ordinamento. Sotto questo secondo profilo due sembrano gli ostacoli principali: uno riguarda la composizione della Conferenza Unificata e l’altro il rapporto tra concertazione in Conferenza e legislazione.

Nell’attuale assetto, nella Conferenza unificata siedono fianco a fianco due categorie di soggetti del tutto eterogenee: da un lato i presidenti di regione, soggetti politici democraticamente investiti della rappresentanza delle collettività locali; dall’altro i rappresentati scelti dalle associazioni di categoria degli amministratori locali, soggetti dunque che non solo legati da un vincolo di rappresentanza territoriale, ma sindacale. I primi sono politicamente responsabile nei confronti della propria collettività anche dei comportamenti assunti in Conferenza, i secondi no, essi rispondono esclusivamente alla associazione d’appartenenza. Come tutti coloro che sono investiti di una rappresentanza di interessi, questi soggetti muovo in una prospettiva che tende a tutelare anzitutto l’uniformità di trattamento degli enti che essi rappresentano e mantenere così unita la categoria rappresentata: privilegiano quindi le soluzioni accentrate rispetto a quelle decentrate, le soluzioni uniformi rispetto a quelle differenziate. La compresenza di rappresentanti politici delle comunità territoriali e rappresentanti sindacali di interessi di categoria crea insomma una strutturale difficoltà di funzionamento della Conferenza.

Quanto al secondo problema, è chiaro – e la stessa Corte costituzionale ha avuto modo di ribadirlo – che gli accordi tra Governo e Regioni non possono vincolare mai il potere legislativo del Parlamento: e questo è l’argomento che ha sempre reso forte la richiesta, ampiamente condivisa, di “regionalizzare” il Senato.

La proposta di riforma costituzionale a cui si accennava all’inizio sembra dare una risposta soddisfacente ad entrambe queste esigenze. Molto apprezzabile è l’idea di attribuire la designazione dei rappresentanti delle autonomie locali agli organi che le rappresentano nelle regioni, anziché agli organismi associativi nazionali. Apprezzabile è poi il coinvolgimento del “Senato federale” nel processo legislativo. Tuttavia qualche perplessità il disegno la suscita.

Il Senato sarà composto da consiglieri regionali (i Consigli regionali dovrebbero scegliere i senatori tra i propri membri) e da “eletti negli enti locali”. Benché le locuzioni usate dalla proposta siano alquanto ambigue – da un lato tra i membri del Consiglio regionale sono spesso compresi, in base allo Statuto, i Presidenti di Regione; dall’altro organi elettivi degli enti locali sono tanto i consigli comunali (e provinciali) quanto i sindaci (e i presidenti di provincia) - mi sembra però probabile che prevarrà un Senato composto in grandissima prevalenza (se non esclusivamente) da membri delle assemblee elettive, perché questo è uno dei “modelli astratti” da tempo vagheggiati. Per di più mi sembra quasi inevitabile che la legge elettorale, a cui la proposta legge costituzionale rinvia la disciplina concreta, provvederà a distribuire la rappresentanza tra maggioranza e minoranze presenti nelle assemblee locali. Il risultato sarà un Senato in cui le ragioni della rappresentanza territoriale si confonderanno con  le ragioni dell’appartenenza politica e in cui spesso si sentirà amplificata a livello nazionale la polemica politica locale.

Qualche effetto negativo potrebbe derivarne per il buon funzionamento dei rapporti tra Governo ed esecutivi regionali e quindi delle Conferenze. La soluzione italiana non sarebbe affatto equivalente al modello del Bundesrat tedesco, organo non parlamentare in cui siedono esclusivamente i rappresentanti degli esecutivi regionali. In Italia, per un preconcetto che deriva da un “modello” costituzionale del tutto astratto, non si vuole che le leggi siano sottoposte all’assenso degli esecutivi regionali (e quindi si esclude l’ipotesi di costituzionalizzare il ruolo della Conferenza dei Presidenti, che sarebbe il pendant italiano del Bundesrat): si preferisce duplicare gli organi di raccordo tra Stato e sistema delle autonomie, organizzando le loro competenze non lungo l’asse “federale” della contrapposizione centro – periferia, ma lungo l’asse tradizionale della separazione tra legislativo ed esecutivo.