Dopo gli Statuti, c’è molto da fare

di Roberto Bin

(in Le istituzioni del federalismo - editoriale del n. 1/2005)

 

In molte Regioni la stagione degli Statuti è finita, ma non è finita in gloria. Troppo tempo e troppa attenzione sono stati dedicati all’inutile dibattito attorno alle “norme di principio”: l’equivoco per cui gli Statuti sarebbero delle “piccole costituzioni” è stato chiarito dalla Corte costituzionale, la quale ha fatto bene a dire con tutta chiarezza che non è così, che le Regioni sono libere di assumere tutti i programmi che ritengono politicamente importanti per la propria collettività ma che, giuridicamente, queste norme non possono avere alcun effetto giuridico. Dal punto di vista giuridico, gli statuti non sono “costituzioni”, ma una legge regionale rinforzata, non necessaria (le regioni potrebbero decidere di lasciare in vigore gli Statuti del 1970), a competenza limitata e riservata: nulla di più. Equipararli alla Costituzione temo rientri oltretutto nel atteggiamento, purtroppo così diffuso, di svalutazione di questa, quell’atteggiamento che, sottovalutando o ignorando il significato politico – istituzionale del processo costituente italiano, sembra considerare la Carta costituzionale come qualcosa che non ha un valore diverso dalla legislazione costituzionale “motorizzata” che ogni singola maggioranza al governo può imporre, come fosse un fatto tecnico, più che un fatto politico. Il vero nodo degli Statuti sta proprio qui.

Gli Statuti hanno un contenuto “necessario” ed uno “eventuale”, dice la Corte: trai secondi rientrano anche le norme programmatiche, che hanno una funzione “ricognitiva” delle funzioni e dei compiti della Regione. Non solo le norme programmatiche non hanno efficacia giuridica nel senso che non creano diritti e doveri in capo ai singoli, ma non hanno neppure alcun effetto normativo in relazione alla successiva legislazione regionale, alla quale solo in parte si rivolgono. Grazie a ciò possono spaziare su ogni argomento e non sono illegittime anche quando vanno fuori dalle attribuzioni regionali.

Infatti, se dovessimo attribuire loro un qualche significato normativo, paragonabile a quello che si è ormai soliti assegnare alle disposizioni programmatiche della Costituzione, incontreremmo comunque degli ostacoli insormontabili a riconoscerne la legittimità costituzionale. Il vincolo derivante, in ipotesi, dalle norme programmatiche per gli organi legislativi regionali entrerebbe infatti in competizione con i vincoli che ad essi derivano, a vario titolo, dalla legislazione statale (vuoi a titolo di “princìpi fondamentali” in relazione alla legislazione concorrente, vuoi per effetto delle leggi statali nelle “materie trasversali”, vuoi per effetto di attrazione al centro prodotto dal principio di sussidiarietà) e dalla normativa comunitaria. Per di più ci troveremmo di fronte a questa ulteriore grossa difficoltà, che la maggioranza politica che attualmente domina il Consiglio regionale potrebbe con le “sue” norme statutarie programmatiche pretendere di porre vincoli alle maggioranze future che si formano, non solo nel Consiglio regionale stesso (problema che comunque non può essere sottovalutato), ma addirittura nello stesso Parlamento nazionale, proprio laddove la Costituzione riconosca a questo il potere di imporre scelte legislative di fondo comuni all’intero paese. Né si potrebbe pensare che l’efficacia delle norme statutarie di programma possa esprimersi attraverso la dichiarazione di invalidità delle leggi regionali con esse contrastanti; questo effetto potrebbe produrre la situazione paradossale per cui una legge regionale “necessaria” per l’attuazione di una norma statale di principio (o vincolante per altre ragioni) debba però essere dichiarata illegittima per contrasto con lo Statuto. Persino come guida interpretativa delle successive leggi regionali le norme statutarie programmatiche non potrebbero svolgere una funzione significativa: le leggi regionali, infatti, vanno interpretate in senso conforme alle norme statali di principio (e alle atre che costituiscono vincolo per il legislatore regionale), oltre che alle norme comunitarie: anche in questo caso, dunque, possono sorgere situazioni di conflitto.

Come si vede, tutto ciò che è predicabile in relazione ai princìpi costituzionali, non lo è, o quantomeno non lo è con la stessa assolutezza, in relazione alle norme programmatiche degli Statuti. La conseguenza mi sembra drastica e inequivocabile: il dibattito attorno alle norme programmatiche è stato tempo perso e ha indotto ad un equivoco di fondo: che lo Statuto regionale fosse un documento politico atto a fondare una mitologica “comunità regionale”, e non un regolamento giuridico rivolto a mettere in un corretto ed efficiente assetto il sistema dei poteri della regione e le sue procedure decisionali. Questi, appunto, erano i contenuti necessari dello Statuto, come dice la Corte costituzionale.

Ma dei contenuti necessari i Consigli regionali hanno visto essenzialmente la parte alta, quella che con espressione tanto ricorrente quanto fuorviante si chiama la “forma di governo”. Si è trascurato però che come un ente si governa, come organizza i rapporti e gli equilibri tra i suoi organi, non è dato dalle poche (e sostanzialmente inutili) norme che regolano il rapporto di fiducia tra l’assemblea elettiva e l’esecutivo (rapporto – come si sa – che solo nella prassi politica prende forma effettiva). La forma di governo la fanno gli interessi organizzati quando vanno a chiedere o proporre qualcosa, i cittadini che protestano, le strutture che istruiscono le decisioni, i supporti tecnici che forniscono i dati per le decisioni, le competenze nelle decisioni strategiche di bilancio ecc. Tanta è stata l’attenzione per il sistema di elezione del Presidente della Giunta regionale e per la distribuzione dei compiti tra esecutivo e Consiglio regionale, quanto poca è stata quella prestata all’effettiva ristrutturazione del Consiglio regionale, al potenziamento delle sue capacità effettive di decidere (cosa ben diversa dalle competenze formali, da troppo tempo ben poco esercitate), all’allargamento delle sue capacità di acquisire conoscenze circa le decisioni che assume, al rafforzamento della sua possibilità di attrarre l’attenzione degli interessi organizzati e dei cittadini (quello che con termine che odora ormai d’antico si chiama la partecipazione).

Forse non molto potevano fare gli Statuti per risolvere questi problemi complessi, ma certo assai poco hanno inventato per avviare un processo tendente alla loro soluzione. Ora, però, questo compito si ripropone, ineludibile. La scrittura dei nuovi regolamenti consiliari, delle leggi di organizzazione, delle nuove norme di contabilità e di programmazione finanziaria attende i Consigli regionali neoeletti. Sono compiti delicati e cruciali, a cui si deve sperare che i consiglieri regionali si accostino consapevoli e liberi dai soliti equivoci.

All’equivoco più diffuso è legato all’idea del “primato della politica”. È un’idea corretta per molti versi (questo Paese soffre di un malinteso pregiudizio avverso alla “politica”), sbagliata quando fa perdere il senso della “professionalità” del politico, il cui compito non è la politica “pura” (quella che ha reso instabili maggioranze ed esecutivi, impossibili i programmi, litigiosi i partiti e le coalizioni). Il consigliere regionale è pagato con retribuzione adeguata per svolgere una funzione professionale assai precisa, risolvere i problemi della collettività che lo ha eletto; e per farlo adeguatamente deve essere in grado di conoscere la realtà, i problemi, i dati, i fatti, le implicazione, i costi, le dinamiche di bilancio. Siccome non può pretendersi che sia onnisciente, deve attrezzare il proprio lavoro e, per farlo, deve comprendere che il “primato della politica” può essere affermato solo se la politica è debitamente assistita da apparati tecnici, procedure conoscitive, competenze di analisi ecc.: non può mai essere indipendente dai processi cognitivi e partecipativi. Le leggi devono nascere da un’attività istruttoria e “partecipativa” (i “fatti” si conoscono solo in contraddittorio con le organizzazioni sociali), e devono contenere – le leggi importanti s’intende – le necessarie previsioni che consentano di valutare i loro risultati, ciò che hanno prodotto e ciò che sono costate. Se il Consiglio regionale non organizza il proprio procedimento e se stesso per assicurarsi di essere effettivamente capace di assolvere a questi compiti, di poter uscire dal ruolo passivo che ha sinora svolto nei confronti delle informazioni e dei dati forniti dagli uffici della Giunta, di poter attrarre l’attenzione dei soggetti che operano nella società, di poter valutare i risultati delle leggi che ha approvato, allora la “forma di governo” ne resterà definitivamente segnata, e la colpa non potrà essere attribuita all’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e alla clausola simul stabunt, simul cadent.

La stagione degli Statuti sembra destinata a chiudersi con un bilancio piuttosto deludente, sia per i tempi troppo lunghi, sia per le scarse innovazioni che sono stati in grado di introdurre. Ma la stagione della riorganizzazione della Regione non è finita, perché adesso c'è la fase delicatissima dell’attuazione degli Statuti. In questa fase si può fare ancora molto, si può fare tutto il necessario per rendere i processi decisionali adeguati (come tempi, come capacità di rispondere alla domanda sociale, come conoscenza dei problemi da affrontare, come consapevolezza dei risultati conseguite dalle politiche pubbliche) ai compiti che le Regioni hanno assunto dopo la riforma del Titolo V: compiti ingenti per quantità, ma soprattutto per qualità, perché ormai è sulla Regione che grava la responsabilità generale di far fronte all’innovazione richiesta dalla collettività. Questa responsabilità non può essere di fatto interamente addossata dai Consigli alle Giunte, dopo tutti i tentativi di difendere nominalisticamente le proprie attribuzioni negli Statuti. E l’interesse ad un equilibrato assetto dei poteri non deve essere sentito solo dal Consiglio, perché questa legislatura una cosa deve aver insegnato a tutti, che una Regione in cui vi sia troppo squilibrio tra i poteri non è una Regione che può funzionare bene. Il riequilibrio tra gli organi è una necessità oggettiva, e la partita è ancora tutta da giocare.

La Rivista inaugura il suo ventiseiesimo anno di vita aprendo un dibattito sullo Statuto dell’Emilia-Romagna e sui compiti di attuazione che attendono gli organi regionali dopo le elezioni. È il segno di un impegno di proposta e di riflessione critica a cui vorrebbe restare fedele.