Le riforme costituzionali e i Consigli regionali

(editoriale di “Le istituzioni del federalismo” 3-4/2001)

Roberto Bin

 

 

1. Le riforme, e le riforme costituzionali in particolare, dovrebbero servire a risolvere i problemi e le difficoltà che sono emerse dall’esperienza passata. Se così fosse, esse dovrebbero produrre una netta diminuzione del contenzioso e, in base alla capacità di realizzare questo risultato, se ne potrebbe apprezzare la bontà. La riforma del Titolo V della Costituzione, che ha superato il referendum costituzionale, non sembra affatto idonea a risolvere i problemi del passato: di problemi, anzi, sembra sollevarne di nuovi e minaccia perciò di estendere il contenzioso. La sua scrittura affrettata, l’aggiramento di alcuni nodi cruciali, l’evasione dai problemi centrali delle relazioni centro-periferia: tutto ciò rende davvero difficile comprendere come la riforma potrà essere concretamente applicata. Tuttavia è un fatto positivo che essa  abbia chiuso felicemente il suo iter: almeno è servita a smuovere la grande macina delle riforme, macina ormai bloccata da troppo tempo. Se il referendum avesse bocciato la riforma, quando mai il meccanismo della riforma del Titolo V sarebbe stato riavviato? La situazione era ormai arrivata ad un punto critico: le regole costituzionali del vecchio Titolo V non avevano più alcuna capacità regolativa delle relazioni tra Stato, Regioni ed enti locali ed erano state soppiantate da prassi, leggi ordinarie, sentenze della Corte costituzionale. Una riforma era divenuta necessaria quanto meno per restaurare la legalità costituzionale.

Che il processo di riforma fosse avviato era dunque indispensabile: ma ora va attentamente controllato, altrimenti la grande macina rischia di continuare in una corsa impazzita travolgendo le istituzioni. Scavare il percorso lungo il quale la riforma dovrà scorrere è compito che si ripartisce tra tutti i livelli di governo e tra gli organi che compongono ogni livello.

 

2. Grava sullo Stato, anzitutto, e in primo luogo sul Parlamento. Le Camere dovrebbero mettere urgentemente mano ai propri regolamenti per disciplinare la partecipazione dei rappresentanti regionali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, secondo quanto è previsto da quella svagata norma di chiusura della legge costituzionale di riforma. Certo non è una soluzione seria e definitiva del nodo serio e determinante della partecipazione regionale alle decisioni “federali”, ma piuttosto una di quelle fantasiose soluzioni arredative che hanno fortuna presso i nostri “architetti costituzionali”, quale la famosa formula “due Camere e un camerino” che era emersa in Bicamerale e che è bastato un corrosivo elzeviro di Montanelli a far crollare. Tuttavia si tratta pur sempre di un passo importante in una direzione giusta, ed oltretutto di un passo che verrebbe fatto nel momento più opportuno. Se è vero che la riforma del Titolo V ha poca concretezza, ciò significa che la sua applicazione dipenderà in larga parte da decisioni politiche successive: perché la riforma non si blocchi definitivamente è perciò indispensabile che queste decisioni siano assunte in un clima di accettabile collaborazione tra Stato, Regioni ed enti locali. In questa prospettiva la soluzione prevista dalla riforma costituzionale rappresenta un indubbio passo avanti rispetto alla situazione attuale, che è interamente incentrata sul ruolo delle Commissioni Stato-Regioni, Stato-autonomie locali ecc. Queste sono sedi squisitamente politiche, prive o quasi di garanzie formali e di immediati riflessi giuridici; mentre la “regionalizzazione” della Commissione parlamentare si rifletterebbe direttamente sul procedimento legislativo.

Se si dovesse indicare un ordine di priorità nelle mosse da compiere per attuare la riforma costituzionale, la prima dovrebbe essere proprio quella appena indicata: numerosi sono infatti gli atti legislativi necessari per attuare il nuovo Titolo V (si pensi anche solo alle leggi “di principio” nelle materie attribuite alla competenza concorrente dello Stato, alle leggi in materia finanziaria, alle leggi che determinano “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” per le Regioni ordinarie, in base al nuovo art. 116, alla legge che disciplina la “partecipazione ascensionale” delle regioni alle politiche comunitarie, ecc.), ed è indispensabile che questa legislazione si definisca attraverso procedure di cooperazione ex ante, e non di scontro giurisdizionale ex post. Emerge così chiaramente anche quale ruolo deve essere svolto dal legislatore nazionale. Un ruolo positivo, accanto al quale si prospetta però anche un ruolo, per così dire, negativo, cioè il compito di prendere sul serio la riforma del Titolo V e di evitare perciò di continuare a produrre leggi in palese contrasto con le nuove regole costituzionali. Già la precedente legislatura non è, sotto questo profilo, senza colpe: la stessa maggioranza che ha fortemente voluto la riforma non ha esitato a produrre, nello stesso tempo in cui faceva avanzare il procedimento di revisione costituzionale, alcune leggi che contraddicevano o comunque mostravano di ignorare il nuovo riparto di funzioni. Ma oggi, entrando in vigore la riforma, un preciso vincolo giuridico si oppone alla legislazione ordinaria che mostra di ignorarla. Prima che siano le Regioni ad opporsi ad essa in sede giurisdizionale, è lo stesso Presidente della Repubblica ad essere chiamato a svolgere il suo ruolo di garanzia, rinviando alle Camere le leggi incompatibili con il nuovo assetto.

È un ruolo importante e indispensabile, l’unico strumento che possa evitare che tutto il peso della riforma finisca con il gravare sulla Corte costituzionale. Infatti la prospettiva più allarmante è proprio questa: che la Corte costituzionale, a cui alcuni settori del mondo politico rimproverano aspramente e ingenerosamente di aver contrastato in passato la realizzazione del disegno autonomistico, sia nuovamente chiamata a gestire con i soli strumenti a sua disposizione, che sono quelli tipici di un giudice, l’attuazione di una riforma costituzionale che, come si è detto, necessità  di ulteriori scelte politiche per poter funzionare. Se il sistema politico non adempie ai suoi doveri, la Corte costituzionale resterebbe schiacciata da una micidiale alternativa: o denegare giustizia, abdicando alla sua funzione di giudice, e dire quello che mai ha detto in passato, cioè che l’attuazione del Titolo V è una questione della politica che non può essere risolta da un giudice; oppure accettare di continuare nella sua vecchia prassi di supplente della politica, riprendendo ad inventare strumenti e meccanismi che consentano al sistema di funzionare. Nella prima ipotesi il risultato sarebbe che vengono meno le regole e le garanzie costituzionali del disegno autonomistico e la politica la farebbe da padrona; nella seconda ipotesi la Corte si ritroverebbe sovresposta, al centro di critiche e attacchi politici. Tutto ciò è da evitare e il Presidente della Repubblica non può non avvertirne l’esigenza.

 

3. Ma anche sulle Regioni gravano responsabilità di notevole peso che impongono ad esse di muoversi su versanti diversi. Il primo le porta ad essere protagoniste al centro: ad intavolare le trattative con il Governo per stringere le intese politiche necessarie all’attuazione della riforma; a bussare alla porta della Camere per sollecitare le modifiche dei loro regolamenti; a rivolgersi al Presidente della Repubblica per chiederne l’intervento quando il Parlamento approvasse leggi contrastanti con le nuove regole costituzionali; a promuovere, come extrema ratio, il contenzioso davanti alla Corte. Dalla capacità delle Regioni di attenuare le reciproche diffidenze politiche e fissare alcuni punti strategici comuni da portare insieme al tavolo delle trattative politiche dipende per una certa quota la direzione in cui muoverà la ruota della riforma.

Per un’altra quota essa dipende dalla capacità delle Regioni di stringere alleanze con i “propri” enti locali. Finché il timore del “centralismo regionale” – timore, in certi casi, tutt’altro che ingiustificato – spingerà gli enti locali, e soprattutto le loro rappresentanza nazionali, a cercare protezione al centro, il Governo resterà arbitro incontrastato dei destini delle autonomie regionali e di quelle locali. D’altra parte le incertezze su come opererà la riforma costituzionale pesano fortemente anche sul governo locale: si pensi anche soltanto alla questione dei controlli o all’esercizio dei poteri sostitutivi, questioni delicatissime e di immediata attualità su cui non v’è alcuna chiarezza. È importante che le Regioni onorino il loro ruolo ed esercitino le loro attribuzione: e che riscoprano in questo momento la funzione della legge come strumento di razionalizzazione e di certezza.

Questo è un punto di estrema importanza. Se la riforma del Titolo V è da prendere sul serio, il quadro che si prospetta è marcatamente diverso dal passato. In passato, il vincolo che sottoponeva la legge regionale ai princìpi della legislazione statale di settore faceva sì che l’innovazione legislativa (e l’innovazione amministrativa, per la parte in cui essa dipendeva dalla legge) fossero monopolio dello Stato (o della normativa comunitaria). Oggi questo non è più vero. Anzi, il principale effetto del nuovo meccanismo di distribuzione delle competenze è proprio di spezzare il monopolio statale e spostare in larga parte sulle Regioni il compito dell’innovazione legislativa. Ciò vale sicuramente per le materie “residuali”, non rientranti nella competenza esclusiva o concorrente dello Stato: ma, ovviamente, molti spazi si apriranno anche nella legislazione concorrente. Le politiche locali dipenderanno in massima parte dalle regole che detterà la Regione: allo stesso tempo, però, l’attuazione amministrativa di quelle politiche sarà in massima parte affidata all’amministrazione locale, che sarà liberà di scegliere le modalità con cui procedere (gli enti locali, come dispone il nuovo art. 117.5, “hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”).

Non possono sfuggire le implicazioni che da ciò derivano per i rapporti che legheranno la Regione con il “sistema amministrativo” regionale. Fin da subito, sarà compito delle leggi regionali tagliare i legami con la “vecchia” legislazione statale di settore e con le relative soluzioni organizzative e procedurali ed aprire la strada all’innovazione. Lo si può fare senza un foedus che unisca chi fa le leggi e chi ne organizza l’attuazione amministrativa?

Certo, ci vorrà del tempo prima che le Regioni riescano a varare le numerose leggi di settore che saranno necessarie. Tuttavia sin da oggi esse sono chiamate a prendere le redini del processo e assicurare certezza sui punti critici immediati che rischiano di paralizzare l’amministrazione locale. Penso, per esempio, al problema dei controlli amministrativi: può una Regione che intenda correttamente il suo ruolo attendere che siano il TAR e il Consiglio di Stato a decidere se i vecchi controlli amministrativi siano o meno stati abrogati dalla riforma costituzionale e chi debba esercitarli? Vi è lo spazio e la necessità che il legislatore regionale vari subito tutta una serie di norme transitorie che definiscano i punti critici oppure delineino i primi e più urgenti capisaldi della futura disciplina innovativa (per esempio, in materia di coordinamento degli strumenti di programmazione finanziaria almeno per ciò che riguarda i progetti territoriali); ed è indispensabile che le Regioni predispongano subito i meccanismi istituzionali che consentano agli enti locali di partecipare con efficacia all’imponente opera di legislazione cui sono chiamate.

 

4. Qui emerge con tutta evidenza il ruolo dei Consigli. Credo di essere stato tra i primi, all’indomani dell’entrata in vigore della legge cost. 1/1999, a far suonare il campanello d’allarme, denunciando il rischio che si indebolisse il ruolo dei Consigli regionali in presenza di un forte potenziamento del Presidente della Regione, conseguente alla sua elezione diretta e alle relative implicazioni. Il mio timore di allora era che la prospettiva di “declassamento”, che si era già registrata nei consigli comunali a seguito dell’analoga riforma del sistema elettorale, si riproducesse anche nelle regioni, dove le assemblee elettive si sarebbero potute trovare con attenuati poteri di controllo politico sull’esecutivo, rafforzato dalla clausola di scioglimento automatico del Consiglio in caso di crisi, e con attenuati poteri legislativi, data l’attribuzione all’esecutivo del potere regolamentare; e che ciò inducesse i consigli regionali, chiamati a definire le nuove regole statutarie, ad arroccarsi a difesa delle proprie antiche attribuzioni, invece che spronarli nella ricerca di nuove funzioni e nuovi strumenti.

In buona parte le mie preoccupazioni si sono rivelate fondate. I Consigli regionali non hanno ancora prodotto quasi niente, bloccati dall’inutile discussione sulle inutili “norme di principio” degli Statuti (c’è davvero qualcuno convinto che, pieni come siamo di norme di principio costituzionali, europee o internazionali, vi sia ancora lo spazio per dire qualcosa di nuovo che non sia talmente specifico o legato all’attualità da esser destinato ad invecchiamento precoce?) o (più realisticamente) impegnati nel tentativo di restaurare le vecchie regole della dipendenza politica dell’esecutivo dalla fiducia consiliare. Né è stato difficile trovare esperti disposti ad accreditare interpretazioni della legge cost. 1/1999 che sovvertono i canoni tradizionali dell’interpretazione giuridica, svalutando la chiara lettera del testo in nome di “princìpi” estratti dal cilindro del prestigiatore, in modo da aprire la strada ad ipotesi di Statuto che, pur tenendo in piedi l’elezione diretta del Presidente della Regione, svincolassero dalla regola “simul stabunt, simul cadent”. Mi sia consentito intrattenermi su questo punto, per poi ritornare alle preoccupazioni sul ruolo del Consiglio regionale e considerare che cosa oggi è mutato.

 

5. Uno degli argomenti che oggi trova molto ascolto nei Consigli regionali è questo: “il principio di autonomia statutaria, così come costituzionalizzato nel nuovo art. 123, dovrebbe permettere di interpretare sistematicamente gli art. 122, 126 Cost. e 5 legge cost. 1/1999, consentendo di giungere a sostenere che l'elezione diretta del Presidente che comporta quelle drastiche conseguenze di cui all' art. 126 è solo quella delle disposizioni transitorie contenute nell'art. 5, commi 1 e 2,  della legge costituzionale n. 1/1999: la necessità di far partire subito la riforma dell'elezione del Presidente della Regione ha portato alla (transitoria: comma 1) costituzionalizzazione della legge elettorale regionale, e, in quel contesto, alla (transitoria: comma 2, lett. b) radicalizzazione delle conseguenze di sfiducia, morte, impedimento, dimissioni. Nell'esercizio dell'autonomia statutaria nella determinazione della forma di governo, ben potrà il costituente regionale individuare forme parzialmente diverse da quelle previste dal sistema degli articoli 122 e 126 Cost., pur sempre operando nei limiti della derogabilità delle sole disposizioni costituzionali che ammettono una modificazione statutaria ovvero che a queste sono strettamente collegate (per intenderci, sì alla modificabilità della disciplina del secondo e terzo comma dell'art. 126, giacché strettamente legate all' ultimo comma dell'art. 122; no all'introduzione di un Presidente della Regione diverso dal Presidente della Giunta, che richiederebbe una modifica dell'art. 121 Cost., non permessa né direttamente, né indirettamente)[1]”.

Secondo me questo modo di ragionare è sbagliato. Sbagliato anzitutto sotto un profilo di tecnica dell’interpretazione costituzionale, poiché non mi sembra accettabile che in base alla supposta ratio della riforma e del principio generalissimo di autonomia statutaria si faccia perdere di significato regolativo le parole stesse usate dal testo costituzionale. Di questo passo avremmo distrutto il significato stesso della costituzione rigida: il che mi sembra davvero preoccupante, sul piano generale, e destinato a torcersi contro le stesse Regioni, che se ne dorranno il giorno in cui il Governo procederà ad interpretazioni accomodanti contrarie all’autonomia regionale. Sbagliato anche nel cogliere la ratio della riforma.

Si dice: se l’obiettivo della riforma è la stabilità politica, perché collegare la interruzione della legislatura anche in presenza di eventi che nulla hanno a che fare con la politica? Perché non consentire, almeno in questi casi, che subentri un Presidente eletto dal Consiglio o il Vicepresidente (salvo il problema di chi lo nomina o lo elegge?). Conseguenze ipocrite di una premessa sbagliata. Si sa benissimo che se si apre una fessura nella “blindatura” del principio “simul stabunt ecc.”, cade qualsiasi stabilizzazione istituzionale del Presidente eletto. A parte l’ipotesi di morte (non credo che da noi nessuno farebbe karakiri per ragioni politiche), le dimissioni per motivi di salute o per andarsene ad occupare altri incarichi aprirebbero la strada ai ben noti balletti, alle staffette (il Vicepresidente è candidato in pectore alla staffetta), e all’eterno gioco del “tirasgabello”, vera vergogna della politica italiana. È questo che si vuole? È questo che i consiglieri regionali sarebbero intenzionati a proporre ai propri elettori? Se la risposta fosse affermativa, dovrebbero avere il coraggio di dirlo apertamente e restaurare la vecchia forma di governo. Perché – questo deve essere ben chiaro – soluzioni intermedie non ce ne sono: o il Presidente della Repubblica è sottratto al rapporto di fiducia o non lo è: nel primo caso deve esserci una blindatura a copertura totale, nel secondo vi sono solo foglie di fico inutili (la più inutile è forse la c.d. “sfiducia costruttiva”, che non rappresenta nulla di significativo: a parte che molti dubbi si potrebbero opporre all’ipotesi che lo scioglimento “automatico” del Consiglio regionale possa essere previsto anche nell’ipotesi in cui non vi sia l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale, la sfiducia costruttiva sposta semplicemente i tempi della formalizzazione della crisi, senza risolvere alcun problema concreto di stabilità dell’esecutivo e di sua efficienza politica). 

E poi quel modo di ragionare è sbagliato anche nell’individuare la ratio della riforma. La rigidità che la riforma costituzionale propone (ma non impone, essendo gli Statuti liberi di scegliere altre forme di governo) ha una motivazione più ampia e mira a risultati ben più ampi. Le Regioni stanno cercando di uscire da un deficit congenito di autorevolezza politica. In parte ciò è imputabile alla scarsa efficienza dei suoi meccanismi decisionali (e i Consigli regionali ne portano pro quota la responsabilità) e della scarsa stabilità politica; in parte ciò è imputabile alla mancata stabilizzazione di una classe politica regionale. I “ruoli” regionali sono stati sempre considerati un punto di passaggio in un contorto cursus honorum che sposta le persone in su e poi in giù e poi ancora in su, alternando cioè ruoli negli enti locali, nella Regione e a Roma. Che ciò sia un danno secco per la Regione è più che evidente, e lo dimostra la ben diversa autorevolezza di cui i politici regionali godono in quelle regioni, come la Valle d’Aosta e l’Alto Adige, in cui, per programma, i politici locali restano in loco. Uno degli aspetti importanti della “blindatura” è, dunque, la stabilizzazione dei leader politici regionali, ai quali viene di fatto impedita la “mobilità istituzionale”. Può non piacere? Certo, ma ha un senso, una “morale costituzionale”. Quale “morale costituzionale” hanno coloro che puntano alla restaurazione (magari mascherata) delle vecchie prassi?

 

6. C’è un equivoco di fondo che oggi rischia di minare l’atteggiamento dei consigli “statuenti”. L’equivoco è che, per rilanciare il ruolo dell’assemblea elettiva e riequilibrare i rapporti tra Consiglio e Giunta, sia necessario ritornare indietro e ricuperare gli strumenti con cui il Consiglio regionale tradizionalmente ha fatto valere il rapporto fiduciario. Ciò denuncia l’incapacità di ragionare in termini innovativi e la convinzione “passiva” che l’unica strada per ricuperare il ruolo del Consiglio regionale sia tornare al passato.

Non è affatto così. L’autorevolezza di un’assemblea elettiva si misura su vari parametri, nessuno dei quali è legato alla possibilità di sfiduciare l’esecutivo. È una possibilità che il Congresso americano, che il Parlamento inglese non ha mai esercitato, che in Germania esiste solo sulla carta e neppure in Spagna sembra effettiva. Qualcuno dubita della loro autorevolezza? Questa si misura sull’efficienza dei procedimenti per fare le leggi e sulla qualità di queste; sulla capacità di controllare l’esecutivo e di fargli le pulci; sulla capacità di dotarsi di strumenti  conoscitivi e di analisi dei dati; soprattutto sulla capacità di rappresentare gli elettori e di mantenere dei rapporti di comunicazione bidirezionale con essi. Cosa stanno facendo i Consigli regionali “statuenti” per assicurarsi questa autorevolezza?

Le mie preoccupazioni sulla crisi delle istituzioni rappresentative regionali erano purtroppo fondate, salvo che per un aspetto. Paventavo la crisi della funzione della legge, e oggi, dopo la riforma del Titolo V, la situazione risulta ribaltata. Nei prossimi mesi, come ho già sottolineato, i Consigli regionali dovranno mettersi alla testa di un processo di forte innovazione legislativa. Non sarà più lo Stato a preoccuparsi delle riforme, tirandosi dietro le Regioni. Le Regioni, in tutte le materie di loro competenza, dovranno provvedere alle riforme: dovranno rifondare il loro ordinamento, dovranno disciplinare i singoli settori, dovranno ridisegnare i profili dell’autonomia comunale e provinciale, dovranno ripensare ex novo i meccanismi di coordinamento finanziario e di  programmazione.

Un compito immane e complesso su cui ogni Regione giocherà la sua credibilità. Si stanno attrezzando i Consigli per questo compito? Stanno pensando ad inserire negli Statuti e nei regolamenti consiliari meccanismi procedurali efficienti e competitivi? Stanno pensando a come organizzare strutture tecniche che consentano ai consiglieri e alle commissioni di seguire e valutare l’intero arco delle politiche pubbliche regionali, e non solo quel breve segmento che è coperto dalla predisposizione della legge? Perché è attraverso l’efficienza e la competitività (uso questo termine per indicare l’esatto opposto della passività e la vischiosità che spesso le assemblee hanno in passato mostrato nei confronti dell’iniziativa dell’esecutivo) che i Consigli e, tramite loro, le Regioni possono acquisire autorevolezza. Non certo attraverso i virtuosismi del gioco del “tirasgabello”.

 

 



[1] La lunga citazione è tratta dall’intervento di Beniamino Carovita nel dibattito aperto sugli Statuti regionali dal forum di Quaderni costituzionali: lo si può leggere nel seguente sito: http://www.mulino.it/html/riviste/quaderni_costituzionali/