Diritti e fraintendimenti: il nodo della rappresentanza*

(testo destinato agli Scritti in onore di G.Berti) 

Roberto Bin

Premessa - 1. A che cosa servono le classificazioni dei diritti? - 2. Diritti e rappresentanza politica - 3. Pentole ed ombrelli - 4. Il costo dei diritti - 5. La “pesatura” dei diritti - 6. Il “contenuto essenziale” dei diritti - 7. Un equivoco più recente: i “livelli essenziali” - 8. Diritti e rappresentanza politica: una nuova prospettiva?

 

Premessa

Nel discorso sui “diritti” è usuale procedere per classificazioni; ma è anche utile? Questo saggio muove dalla riflessione critica sulle classificazioni dei diritti per individuare gli equivoci di fondo, la stratificazioni ideologiche che impediscono di vedere il vero nodo che si cela alla base della garanzia dei diritti: il nodo della rappresentanza, la tensione insuperabile tra principio di maggioranza e tutela dei diritti. Un nodo, una tensione che hanno profondamente condizionato la storia costituzionale dei diritti, provocandone la classificazione in categorie concettualmente (e ideologicamente) distinte: e che oggi si ripropongono in una prospettiva per molti versi inedita.

 

1. A che cosa servono le classificazioni dei diritti?

L’utilità delle classificazioni dipende dagli obiettivi. Talvolta le classificazioni sono impiegate con intenti che, almeno prima facie, appaiono di pura scansione temporale delle fasi storiche in cui certe classi di “diritti” sono state oggetto di rivendicazione o, più spesso, di riconoscimento. A ben vedere, quando si parla, per esempio, di diritti di una o dell’altra “generazione”, non sono i “diritti” ad essere classificati, ma l’evento storico del loro riconoscimento giuridico, della loro inclusione tra i “diritti di cittadinanza”. È appena il caso di sottolineare che rivendicazione e riconoscimento di un “tipo” di diritti sono fenomeni storici che si collocano in epoche spesso assai lontane tra loro e che la distanza temporale tra l’uno e l’altro evento segna la tensione che ha caratterizzato la lotta politica di intere fasi della storia costituzionale. Così, per esempio, il riconoscimento moderno dei c.d. “diritti sociali” da parte delle costituzioni del secondo dopoguerra chiude una fase storica che si era aperta già negli anni del dibattito costituzioniale della Francia rivoluzionaria, con la richiesta d’includere tra i diritti fondamentali dei cittadini anche quello ai “soccorsi pubblici” (art. 21 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1793). Il problema della sicurezza sociale, dell’istruzione, della riduzione delle diseguaglianze “nelle fortune” ha tessuto l’intera storia dello Stato di diritto intrecciandosi con i problemi dell’estensione dei diritti politici, della rappresentanza, del rapporto tra stato e società civile. Un intreccio così stretto da dimostrare tutta la sua robustezza quando le costituzioni del ‘900 hanno coniugato lo Stato di diritto con lo Stato sociale, suscitando in parti significative della letteratura giuridica la precisa sensazione dell’inconciliabilità del primo con il riconoscimento costituzionale dei diritti inclusi nel secondo. Con il che si dimostra come le classificazioni dei diritti a “fini storiografici” scivolino sempre verso un piano diverso.

Tutt’altro affare è infatti è classificare i “diritti”, e non più gli “eventi” che li riguardano: classificarli sulla base dei loro presunti caratteri strutturali o delle particolarità di comportamento. L’obiettivo del discorso si fa, in questi casi, marcatamente prescrittivo e mira, più o meno consapevolmente, ad accreditare gerarchie e precedenze tra i “diritti”.

Le considerazioni che seguono intendono contestare non già questa o quella classificazione in uso, ma la legittimità stessa di ogni classificazione dei “diritti” in base alla loro natura. Esse prendono sempre le mosse da due premesse, intimamente intrecciate, che mi appaiono del tutto insostenibili: che i diritti siano “cose” a proposito delle quali sia lecito sviluppare un discorso “astratto”; che i diritti, proprio perché “cose”, presentino caratteristiche loro proprie così specifichecaratteri loro propri così specifici e costanti da poter essere oggetto di classificazioni.

Devo anzitutto chiarire cosa intendo per ‘discorso astratto’. Tale mi sembra ogni discorso sui “diritti” che non tenga conto delle circostanze di fatto e di diritto, cioè delle coordinate tipiche del “caso” giuridico. Se dal piano delle enunciazione dei diritti nelle “dichiarazioni” solenni si passa al piano della “amministrazione” concreta dei diritti, che oggi è essenzialmente giocata tra giudice ordinario e Corte costituzionale, i diritti mutano, per così dire, di “stato fisico”, passando dallo stato di “beni giuridici” definibili con la (relativa) precisione dei concetti giuridici a strutture argomentative fortemente legate ai casi concreti. Non sto semplicemente sostenendo la posizione tradizionale di chi nega che esista un diritto “soggettivo” al di fuori di ciò che è riconosciuto dal diritto “oggettivo”, né intendo rassegnarmi all’ormai non meno tradizionale rights skepticism di chi rinuncia a riconoscere ai “diritti” una consistenza diversa dalla decisione casuale e poco prevedibile di un giudice. Voglio semplicemente contestare l’utilità di un ragionamento che è “astratto” perché condotto per etichette e “figurini”, in cui l’assolutezza dei “valori” etici che si incarnano nei “diritti” mette in totale ombra la complessità della tessitura giuridica di questi ultimi. Niente da dire, è ovvio, sulla legittimità di considerare i “valori” sotto il profilo dell’etica; ma i “diritti”, considerati dal punto prospettico del diritto, sono un’altra cosa. Non è la questione terminologica a preoccuparmi, ovviamente, ma la nefasta conseguenza della confusione tra i due àmbiti: nefasta perché ogni volta che si compie il tragitto dal livello dei “diritti” a quello dei “valori”, si ritorna con qualcosa di più, cioè con un surplus lato sensu normativo. Le precedenze e le gerarchie che si possono accreditare ragionando in astratto (sul piano dell’etica) attorno ai “valori” vengono poi riflesse sul piano (giuridico) dei “diritti”, compromettendo, come vedremo, la stessa comprensione della dimensione giuridica dei “diritti” stessi.

 

2. Diritti e rappresentanza politica

Le vicende delle classificazioni dei diritti sono emblematiche di questa confusione di piani. Per mostrarlo partirò da quella che senz’altro può considerarsi la distinzione più tradizionale e consolidata, la meno discussa insomma: la distinzione tra libertà negative e diritti positivi. Dopo la celebre contrapposizione tracciata da Constant tra le libertà degli antichi e le libertà dei moderni, la distinzione tra libertà negative e diritti positivi è senz’altro quella che ha lasciato tracce più evidenti nella nostra cultura. Oggi probabilmente nessuno considererebbe più come un utile strumento di analisi la celebre contrapposizione inventata da Constant, dimenticando però che la distinzione tra libertà negative e diritti positivi, ancor oggi ben accreditata e frequentemente praticata, non è affatto separabile da essa: anzi, tra i modi in cui i cittadini partecipano alle decisioni pubbliche e i diritti che l’apparato pubblico garantisce loro vi sono intense relazioni. Il problema della rappresentanza politica non è infatti scindibile dal problema della tutela dei diritti: non solo perché, come Constant metteva in evidenza, i diritti si difendono attraverso il controllo del potere politico e della maggioranza che lo detiene (i primi stanno al secondo come il credito alla garanzia, affermò M.me de Staël), ma perché al riconoscimento di determinati diritti corrisponde di necessità l’esistenza di un certo tipo di rappresentanza. Come si può immaginare – per restare nella prospettiva liberale di Constant - di limitare la tutela dei diritti alle sole libertà negative e alla proprietà se si riconoscono il suffragio universale, il principio di maggioranza e la sovranità della legge?

Di fronte all’esigenza di difendere in modo intransigente le libertà negative e la proprietà, la risposta di Constant e dei doctrinaires è stata reagire contro la “legge dei numeri” attraverso il suffragio censitario: cioè l’esclusione dalla rappresentanza di tutti coloro che “l’indigenza mantiene in uno stato di eterna dipendenza e condanna al lavoro giornaliero” e che, se ammessi al voto, potrebbero essere tentati di conquistare il riscatto economico non attraverso il lavoro, ma per la scorciatoia dello Stato e delle sue leggi[1]. Intuizione esatta, dato che la rivendicazione del suffragio universale e la richiesta di inclusione dei diritti sociali e di tutela del lavoro si sono incrociati puntualmente in ogni sommossa rivoluzionaria della piazza. “La società favorisce ed incoraggia lo sviluppo del lavoro mercé l’insegnamento primario gratuito, l’educazione professionale, l’eguaglianza di rapporti fra il padrone e l’operaio, gli istituti di previdenza e di credito, gli istituti agricoli, le associazioni volontarie, e stabilendo da parte dello Stato, dei dipartimenti e dei comuni lavori pubblici atti ad impiegare le braccia non occupate; fornisce l’assistenza ai ragazzi abbandonati, agli infermi e ai vecchi senza risorse, e che le loro famiglie non possono soccorrere”, sanciva l’art. 13 della Costituzione della repubblica francese del 1848: e subito dopo aggiungeva che “il suffragio è diretto e universale”. Fu concesso, il suffragio universale, ma subito si cercò di aggirarlo: ristabilito a furor di popolo, fu poi accusato di aver provocato il disastro del 1870 e si cercò in ogni modo di correggerne le implicazioni[2]. Perché la legge dei numeri imposta dal principio di maggioranza, aperta la rappresentanza politica alle masse, avrebbe prodotto risultati ben diversi nella catalogazione dei diritti fondamentali dalla “legge di ragione” che ha sempre ispirato l’èlite borghese. “Trascinati dalla forza espansiva dell’eguaglianza, i diritti… cessano di presentarsi come snodi di un ordine già dato ed esprimono tutta la loro forza ‘destrutturante’, mettono in scacco l’ordine consolidato, ne denunciano le inadempienze[3]. Proiezione sul piano dei diritti politici della forza espansiva dell’eguaglianza, il suffragio universale, come già aveva ammonito Guizot[4], “c’est un pur instrument de démolition”.

Sulla distinzione - tensione tra libertà negative e positive, insomma, si impernia la contrapposizione, mai del tutto superata, tra la visione liberale dello Stato e quella democratica, cioè uno dei temi che da un paio di secoli dominano l’ordine del giorno del dibattito pubblico. Ciò è del tutto ovvio. Meno ovvio è che, come intuiva Constant, la tensione tra le due libertà può essere risolta soltanto agendo sulla rappresentanza: il punto di equilibrio tra esse deve essere preservato da un corrispondente limite posto al potere decisionale della rappresentanza politica. Il suffragio censitario è stata una restrizione “alla fonte”, che ha impedito di introdurre nel circuito della rappresentanza chi avrebbe potuto modificare il riconoscimento legislativo dei diritti: risposta efficiente, benché piuttosto rozza e incapace di “tenere” di fronte alla crescita del proletariato urbano e delle sue organizzazioni politiche, programmaticamente escluse dai diritti politici.

Ulteriori risposte, sempre più sofisticate, sono state fornite e continuano ad essere elaborate. La rigidità della Costituzione è la più visibile (ma non l’unica, come vedremo) delle soluzioni che connotano la nostra attuale esperienza. Mentre il suffragio censitario risolveva il problema escludendo dalla rappresentanza i portatori di istanze di riconoscimento dei diritti “altri” rispetto a quelli del “cittadino-proprietario”, la costituzione rigida incorpora il conflitto nella sua struttura pluralista, affermando la pari dignità di uno e dell’altro catalogo dei diritti. Lo stato liberale di diritto si basava sul principio fondamentale di divisione dello stato dalla società[5], e la rappresentanza censitaria non era che l’accettazione da parte dello stato di un’“elezione” spontanea compiuta dalla società di un élite incaricata della “funzione” di rappresentare la “volontà generale”, eleggendo a sua volta i suoi rappresentanti. Lo stato democratico costituzionale si basa sul principio di rigidità costituzionale e sottrae alla regola di maggioranza entrambi i cataloghi dei diritti. Nello stato liberale di diritto il congegno della riserva di legge era sufficiente a garantire ad un parlamento socialmente omogeneo di preservare la propria visione dei diritti e dell’ordine sociale: la sovranità della legge era perciò predicata. Nello stato costituzionale il principio di legalità è salito di un piano e con esso il controllo giurisdizionale. Che i diritti oggi siano ciò che dice la Corte costituzionale è l’ovvia, ancorché approssimativa, conseguenza. E nel contesto di una costituzione pluralista, che congela tutti i cataloghi dei diritti ponendoli al riparo delle decisioni della maggioranza politica in carica, affidandone la custodia ad un organo – la Corte costituzionale – necessariamente sottratto al circuito della rappresentanza, va valutato cosa residui della vecchia, storica e politica distinzione tra le due categorie di libertà. Come funziona il “congelamento” dei cataloghi dei diritti? Quali spazi restano alla discrezionalità dei rappresentanti dei cittadini e quali invece sono esclusi dal normale circuito politico? Esiste una differenza strutturale nel modo in cui la Corte tratta le libertà negative e i diritti positivi?

 

3. Pentole ed ombrelli

Non mi soffermo a descrivere i termini della distinzione tra le due libertà, che sono sin troppo noti. Mi preme invece anzitutto sottoporre ad analisi critica le due conseguenze prescrittive che da essa vengono regolarmente tratte: la prima riguarda la precedenza logica che è generalmente assegnata alle libertà negative rispetto ai diritti sociali; la seconda riguarda la “naturale” gradualità dei diritti positivi, in quanto implicano “prestazioni” e quindi costi per l’erario pubblico, - di contro alla “naturale” assolutezza delle libertà negative, che comportano solo un atteggiamento di astensione dello Stato. Benché stiano su piani apparentemente lontani, anche queste due conseguenze sono invece strettamente intrecciate: ed entrambe arbitrarie.

Che le libertà negative siano antecedenti (in senso logico, non solo in senso storico, in quanto “eventi”) alle libertà positive è comunemente professato. Chi dubiterebbe, per esempio, che la libertà fisica della persona venga prima del diritto all’istruzione, ne segni quasi una condizione di pensabilità; o che il diritto alla vita sia una condizione preliminare rispetto al diritto alla salute, inteso come diritto alle prestazioni sanitarie? È proprio questo che chiamo ‘ragionare in astratto’, per “figurini”. Le due classi di diritti si affrontano schierando in campo i rispettivi campioni a singolar tenzone: l’errore sta semplicemente nell’aver concepito le due classi di diritti, cioè nella classificazione.

Parlare in “astratto” della libertà personale, come appena si è fatto, ricade nel peccato, denunciato in premessa, di entificazione del diritto, nel trasformarlo in una “cosa”. Infatti l’etichetta ‘libertà personale’ si applica ad una varietà di fenomeni piuttosto differenziata. Non è solo l’arresto (arbitrario), la coercizione fisica, la perquisizione invasiva della persona; rientrano infatti nel nostro concetto di habeas corpus: una variata gamma di ispezioni e perquisizioni, non solo sulla persona ma anche sulle cose che la persona ha con sé; una ricca tipologia di obblighi cui la persona è soggetta (per esempio, presentarsi alla stazione di polizia ogni volta che la propria squadra di calcio scende in campo, come è previsto dalla legge contro la violenza negli stadi); forme di costrizione morale che comportano assoggettamento della persona alla volontà altrui ecc. La Corte costituzionale italiana ha dovuto individuare elementi utili per una definizione generale del “diritto”, e gli ha riconosciuti nel concetto di degradazione e di mortificazione della dignità e del prestigio della persona: sulla base di questa definizione ha poi iniziato un’opera di suddivisione tra situazioni ricadenti nella protezione della libertà personale e situazioni escluse da essa. Alla fine il risultato può apparire sorprendente: interventi sulla “persona” intesa in senso fisico, come l’assunzione delle impronte digitali, possono risultare estranei alla tutela dell’habeas corpus, perché non degradanti, mentre un ammonimento rivolto dall’autorità all’individuo può risultare in essa compreso.

Il fatto è che la definizione del “diritto” non è come una pentola, rispetto alla quale un determinato fenomeno sta dentro o fuori, tertium non datur. Si comporta piuttosto come un ombrello durante un forte acquazzone: vi è un punto in cui la protezione è massima, e poi, via via che ci si allontana da esso, la tenuta diviene sempre meno efficiente; è persino difficile dire in che punto si è totalmente fuori dall’ombrello, anche perché in buona parte dipende dal vento.

Ma queste, si potrebbe ribattere, sono scelte interpretative della Corte costituzionale italiana, che non impediscono affatto di considerare la libertà personale, o qualsiasi altro diritto, nel loro nucleo forte e più tipico. Però non è così: gli stessi problemi interpretativi sono stati affrontati, per questa libertà come per qualsiasi altro diritto, dalla Corte suprema americana, dal Tribunale costituzionale tedesco o dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il che fa pensare che si tratti di problemi strutturali, per chi deve affrontare la tematica dei diritti.

Il problema strutturale sta forse proprio nella definizione dei contenuti dei diritti, nella loro particolare struttura ad ombrello: sono delle non-definizioni, se ‘definizione’ l’assumiamo nel suo significato etimologico. Verrebbe da dire che non c’è nulla di definitivo in queste definizioni.

 Prendiamo il caso della libertà di espressione, l’altro grande pilastro del sistema dei diritti (ma, ovviamente, la libertà personale viene prima della libertà di espressione!). La libertà di esprimere liberamente il proprio pensiero potrebbe sembrare difficilmente condizionata da problemi definitori. Ma non è affatto così, anzi. È già un grosso problema distinguere il pensiero da altro: una bestemmia, per esempio, non è certo considerata un pensiero (anche se spesso limpide forme di pensiero sono state denunciate e condannate come bestemmie!), né lo è l’esclamazione oltraggiosa; è molto dubbio se la pubblicità commerciale sia “pensiero” o meno; vi è poi il singolare fenomeno per cui, per certe circostanze di tempo luogo e modalità, un determinato discorso può perdere il suo significato di “pensiero” e divenire invece un principio di “azione”.

Questi problemi definitori, che hanno tormentato i giudici di tutti i sistemi costituzionali del mondo, non sono ovviamente problemi che concernono la definizione del termine ‘pensiero’, ma la definizione della tutela giuridica connessa ad un certo bene, un certo interesse. La definizione del contenuto di questo interesse (nel caso, di ‘pensiero’) non è mai disgiunta dalla definizione della tutela: mentre la definizione di un termine è sempre sviluppabile nella logica si-no (“l’insulto non è mai ‘pensiero’”), la tutela dell’interesse che è designato con quel termine sfugge da quella logica, è infatti graduabile. È graduabile sulla base della minor o maggior distanza dalla zona di massima protezione dell’ombrello.

Un esempio evidente di questa modulazione della garanzia del diritto la si ha con la libertà di domicilio. Nella nostra costituzione essa è concepita come protezione di un bene che sta sùbito accanto alla libertà personale, in rapporto di continuità con la tutela di quest’ultima. Quando l’oggetto incomincia ad essere fisicamente troppo lontano dalla persona, la sua tutela si trasferisce, senza soluzione di continuità, dalla libertà personale a quella domiciliare. Ma i nuclei della rispettiva tutela sono lontani: la libertà personale ha come suo nucleo forte la protezione della persona fisica da atti di coercizione fisica che ne impediscano il movimento (la libertà di circolazione è dunque la continuazione della libertà personale in questa direzione) nonché da atti di intrusione che ne offendano la sfera intima; la libertà di domicilio bada, nella sua essenza originaria, alla protezione della sfera intima della persona nell’àmbito spaziale della sua proiezione (sto procedendo per definizioni del tutto comuni nei manuali così come in giurisprudenza). Questo àmbito si estende dalla propria abitazione al luogo di lavoro, alla stanza d’albergo, alla cabina della barca, alla roulotte alla tenda, allo scaffale del circolo sportivo, sino al bagagliaio dell’autovettura (così almeno ha affermato la nostra Corte costituzionale). Ma in tutto questo tragitto è rimasta sempre eguale, della stessa intensità, o ha perso qualcosa?

La stessa costituzione italiana si è posta questo problema. Infatti l’art. 14.3 ammette che “sconti” sull’intensità della tutela della libertà “negativa” di domicilio possano essere previsti dalla legge per le forme meno invasive di intrusione (“accertamenti” e “ispezioni”, con esclusione dunque delle “perquisizioni” e dei “sequestri”, elencati nel comma precedente) e solo se esse sono finalizzate al soddisfacimento di interessi generali appositamente enumerati, di cui oltretutto alcuni (i “fini economici e fiscali”) non sono usualmente giudicati (in astratto) comparabili con i diritti fondamentali negativi. Le leggi fiscali, inoltre, attuano la previsione costituzionale introducendo un’ulteriore modulazione della tutela della libertà ratione loci, ammettendo che la guardia di finanza esegua i suoi accertamenti in forma più semplice se si tratta del luogo in cui si svolgono le attività economiche e in forma più “garantita” se si tratta invece dell’abitazione privata[6].

Come si vede già da questi pochi esempi, se si guarda ai “diritti” non ragionando sul piano astratto dei modelli, ma seguendo alcuni fili della complessa tessitura giuridica in cui essi sono organizzati, diviene impossibile insistere nel tentativo di costruire gerarchie e precedenze logiche. È vero che ogni regola giuridica (sia essa costituzionale, legislativa oppure elaborata dalla giurisprudenza) fissa un ordine di precedenze: ma è un ordine relativo a specifiche circostanze di fatto (la fattispecie, appunto) ed è condizionato dalla clausola rebus sic stantibus[7]. Si può forse pensare di ricostruire, dall’insieme di tutte le regole di preferenza, un compendio generale, un sistema delle precedenze tra i diritti? No: la ragione di una risposta negativa così perentoria non è la difficoltà “di calcolo”, la difficoltà di tracciare un sistema che tenga conto di tutte le variabili. L’equazione è impossibile perché la prima incognita è il numero stesso delle variabili! Infatti il vero ostacolo insormontabile è che le regole di preferenza non sono fissate una volta per sempre: la clausola rebus sic stantibus, di cui sono corredate, rende mobile il punto di equilibrio tra gli interessi che la regola ha faticosamente fissato, e che ogni variazione delle condizioni fattuali può spostare. Come il vento con l’ombrello.

Ciò che si può elaborare è tutt’al più un sistema di criteri sulla cui base giudicare se un determinato assetto degli interessi è razionalmente giustificabile o meno. Bisogna elaborarlo, perché serve una metodologia per la giustificazione della regola  di prevalenza: serve soprattutto quando la regola sia posta dai giudici (talvolta infatti è la stessa legge a porla). Ma serve proprio perché non esistono gerarchie preconfezionate.

 

4. Il costo dei diritti

Ogni discorso sui “diritti” che voglia discostarsi dal ragionamento astratto giunge così al bilanciamento degli interessi, suo approdo necessitato[8]. Ma il bilanciamento minaccia di riportarci subito alle classificazioni dei diritti, ed in primo luogo alla contrapposizione tra libertà “negative” e diritti “positivi”. Una delle caratteristiche differenziali essenziali su cui si baserebbe questa distinzione, infatti, è di regola traslata sul terreno del bilanciamento, viene cioè tradotta in un canone che vorrebbe segnare una differenza fondamentale anche per ciò che riguarda i modi con cui le due categorie di “diritti” devono (perché il discorso si fa immancabilmente prescrittivo) essere trattate nel giudizio di bilanciamento.

Questa supposta caratteristica differenziale è il costo. È quasi un assioma che le libertà “negative” non “costino”, perché si esprimono essenzialmente in una richiesta di astensione dello Stato e delle pubbliche autorità: al contrario, i diritti “positivi” costano sempre, perché si esprimono in una richiesta di prestazioni pubbliche. Siccome il “costo” si riferisce all’erario pubblico, e questo è alimentato dal sistema fiscale, ecco che le due categorie di “diritti” si accendono nuovamente di colori politici sfavillanti. Le due visioni del mondo, quella liberale, negativa e minimalista – poche tasse e poca spesa – e quella sociale, solidaristica e interventista – ridistribuzione della ricchezza attraverso tasse progressive e servizi sociali – tornano ad animare la nostra contrapposizione.

L’assioma ha poi due corollari.

Il primo è che le libertà “negative” hanno una valenza “erga omnes”, ossia sono dotate di un caratteristico “effetto orizzontale” (Drittwirkung) che i diritti “positivi” non hanno. La nostra pretesa di astensione da ogni intromissione nella nostra sfera personale, nella proprietà, nel domicilio è rivolta a tutti, persone private e autorità pubbliche. Il codice penale è in larga parte fatto di regole che tipizzano comportamenti dei privati lesivi dei “beni” che le libertà “negative” tutelano: significativamente le fattispecie di reato iniziano di norma con un “chiunque” che cancella qualsiasi differenziazione nella qualificazione dell’agente (anche se in alcuni casi la qualità di “pubblico ufficiale” dell’agente comporta un sensibile aggravamento della pena). Al contrario, i diritti “sociali” sono pretese rivolte agli apparati pubblici, istituiscono una duplice relazione bilaterale tra privato e pubblico fatta di imposte, da un lato, e di servizi, dall’altro. In altre parole, i doveri di solidarietà sociale – la “fraternità” della trilogia rivoluzionaria[9] – non si esprimono nei rapporti diretti, orizzontali, se non nel caso delle relazioni interne alla famiglia (l’art. 570 c.p. che sanziona la violazione degli obblighi di assistenza familiare) o di omissione di soccorso (art. 593 c.p.): di norma necessitano della intermediazione degli apparati pubblici, anche quando si tratta semplicemente di promuovere e organizzare la “sussidiarietà orizzontale”.

Il secondo corollario riguarda invece il bilanciamento. La diversa rilevanza del “costo”, infatti, fa sì che la distinzione tra le due classi di “diritti” abbia una ricaduta (ovviamente prescrittiva) quanto alla legittimazione degli interessi antagonisti, quelli cioè che possono essere ammessi al bilanciamento. Sembrerebbe conseguente, infatti, indicare nelle esigenze di bilancio, e quindi nelle ragioni della politica economica, il tipico controlimite ai diritti sociali, per loro natura destinati a piegarsi di fronte alle esigenze funzionali connesse all’erogazione dei servizi; mentre limiti di questo tipo non sarebbero mai opponibili alle libertà “negative”, di cui, si dice spesso, è ammesso il bilanciamento solo con interessi di pari rango costituzionale. Ecco dunque che l’ordine prende finalmente forma: se le libertà “negative” prevalgono sulle esigenze economiche e funzionali, e se queste prevalgono sui diritti di prestazione, si deve concludere che, per la proprietà transitiva, le libertà “negative” prevalgono sui diritti “positivi”.

Ma è proprio vero che vi sono libertà e diritti che “costano” e altre che “non costano”? Insomma, è fondato l’assioma di partenza? A me sembra di no.

L’aspetto “negativo” (la richiesta di non essere costretto) e l’aspetto “positivo(la richiesta di strumenti per realizzare i propri obiettivi) sono sempre presenti e strettamente legati in ogni “libertà” e in ogni “diritto” sanciti dalla costituzione. Così, per esempio, il “diritto” alla salute, come pretesa di ricevere dal potere pubblico prestazioni sanitarie adeguate, ha un immediato risvolto “negativo” nella “libertà” da trattamenti sanitari obbligatori; mentre la libertà, classicamente negativa, di poter esprimere il proprio pensiero ha un riflesso “positivo” nella richiesta allo Stato di garantire il più ampio accesso ai mezzi di comunicazione. Sono cose note e certo non determinanti. Diventeranno molto più rilevanti in seguito, quando ci troveremo di fronte al problema del “contenuto minimo” dei diritti: certe radicate convinzioni, come quella del carattere “programmatico” dei diritti positivi, contrapposto alla natura “precettiva”, e perciò pienamente giuridica, delle libertà negative, subiranno un duro e salutare colpo.

Ma ora va considerato un secondo aspetto, su cui spesso si accumulano gli equivoci: il problema dell’intervento dell’autorità pubblica. Gli equivoci nascono dalla convinzione, assai diffusa, che per le libertà ciò che si chiede allo stato è essenzialmente l’astensione da qualsiasi intervento, e quindi la loro tutela non abbia “costi” per la finanza pubblica, mentre per i diritti sia indispensabile invece l’intervento pubblico, e quindi essi siano “costosi”. Questa convinzione è aprioristica e priva di serio fondamento, come spesso è stato sottolineato dalla dottrina[10]. Se prendiamo le tipiche libertà “negative” - per esempio la libertà personale, la libertà di domicilio o la proprietà privata – vediamo che esse implicano ingenti interventi e “costi” pubblici. Quale garanzia avrebbe infatti l’integrità fisica degli individui senza un ingente (e costoso) apparato di pubblica sicurezza posto a protezione di essa o senza il complesso (e costoso) apparato giudiziario? Si noti che il concetto stesso di sovranità dello stato e consustanziale con il monopolio pubblico degli strumenti repressivi attraverso i quali si può e si devono compiere prevenzione e repressione della violazione del diritto all’integrità fisica. E cosa sarebbe la proprietà senza un apparato di protezione che tuteli, non solo attraverso strumenti di polizia, ma anche attraverso il servizio antincendi, la sistemazione delle acque, la protezione civile e la “garanzia” pubblica per le calamità naturali?

Che esistano diritti del tutto “negativi”, ossia che consistono in una pura richiesta di astensione rivolta agli altri soggetti pubblici o privati, è dunque un mito[11]: tutti i diritti e le libertà hanno bisogno di un’organizzazione pubblica e dunque sono “costosi”. In fin dei conti è sempre una questione di scelta tra “politiche pubbliche” decidere se rafforzare le garanzie (e i costi) delle “libertà” o quella dei “diritti”. Sono gli organi pubblici a dover scegliere come impiegare le risorse finanziarie: si può decidere, per esempio, di migliorare le prestazioni pubbliche nella garanzia della incolumità fisica delle persone e della protezione della proprietà, destinando maggiori risorse all’organizzazione degli apparati della polizia, migliorando il trattamento dei proprietari espropriati, rafforzando le garanzie processuali per chi subisce limitazioni alla libertà personale (il che però potrebbe significare anche un aumento delle difficoltà di giungere ad una rapida punizione di chi si macchia di crimini contro l’integrità fisica o la proprietà); oppure si può decidere di rafforzare la protezione dei diritti sociali, migliorare le prestazioni sanitari o il sistema pensionistico, potenziare l’istruzione pubblica o il gratuito patrocinio. Il bilancio degli enti pubblici riproduce queste scelte con contabile fredda evidenza.

Possiamo ragionare anche movendo lungo l’altro asse dell’intervento pubblico, l’altro corso della relazione pubblico-privato: le tasse. I meccanismi di esenzione fiscale sono equivalenti ai meccanismi di intervento diretto che operano tramite l’erogazione di danaro o di servizi. Allora, se il nostro sistema consente di detrarre, almeno in parte, le spese sostenute per acquisire certi servizi sociali – le spese mediche e quelle previdenziali; le spese assicurative pro quota; dopo la legge 62/2000 anche le spese educative – oppure i contributi a favore dei soggetti che a loro volta erogano servizi pubblici (le confessioni religiose, gli enti di beneficenza), mentre non sono concepiti meccanismi di esenzione per le spese sostenute al fine di garantire i diritti “negativi”, questa è una scelta politica, non una conseguenza del fatto che questi diritti non “costano”. Perché lo Stato non consente di detrarre, per esempio, le spese per la difesa legale (almeno quando siano in gioco le libertà fondamentali), oppure le spese per rafforzare, ricorrendo ad operatori privati, la “vigilanza” sui beni e la persona, od ancora le spese sostenute per reintegrare i beni che sono stati rubati (visto che il furto è stato possibile per una difettosa funzionalità del servizio pubblico di vigilanza, nonostante tutto quello che costa)? Lo Stato – si badi bene – non lo consente al privato cittadino, mentre lo consente all’operatore economico: questi, infatti, può computare tutte queste spese come “costi”, il privato cittadino invece no. Come regge allora l’immagine del diritto fondamentale “negativo” dell’individuo, che vale erga omnes, non comprimibile in nome di esigenze funzionali e economiche? Semplicemente non regge.

 

5. La “pesatura” dei diritti

Nessuno dubita che le libertà individuali “negative” vengano prima di quelle “sociali”. Ma su quale piano poggia questa intuitiva certezza? Sul piano dei discorsi astratti e delle affermazioni di principio. Cosa accadrebbe infatti se un privato chiedesse che siano incluse nelle esenzioni fiscali anche le spese conseguenti a furti, danneggiamenti ecc.; oppure proponesse la parificazione delle assicurazioni contro i furti (o per le spese legali) alle assicurazioni sulla vita o per le spese mediche e previdenziali. Potrebbe sostenere davanti alla Corte costituzionale l’illegittimità della legge fiscale “nella parte in cui” non consente di detrarli: se la prima obbligazione dello Stato è garantire la sicurezza delle persone e dei loro beni,beni - potrebbe argomentare - non è giusto che lo Stato “guadagni” sulle spese che il privato deve sostenere per ripristinare ciò che ha perso a causa della carenza dei mezzi impegnati dalla Stato per ottemperare a quell’obbligazione.

Il ragionamento sarebbe ineccepibile sul piano astratto dei princìpi: ma la Corte risponderebbe, come ha sempre fatto, che le esenzioni fiscali sono norme eccezionali che non sono soggette ad interpretazione estensiva. “Le disposizioni legislative concernenti esenzioni o agevolazioni tributarie, quali che ne siano le finalità, costituiscono il risultato di scelte discrezionali del legislatore[12] - classificazioniscelte non censurabili se non quando “trasmodino in palese irragionevolezza[13].. L’espressione è “doc”, ma ci riporta al classico self restraint che la Corte applica quando si tratta di valutare l’adeguatezza delle prestazioni pubbliche rivolte ad assicurare i diritti “positivi”: la Corte sosterrebbe che spetta al legislatore contemperare le esigenze contrapposte di tutela dei diritti dei privati e di contenimento della spesa pubblica. Ecco che la precedenza “intuitiva” delle libertà negative rispetto ai diritti di prestazione viene smentita non appena si cerchi di applicarla in concreto. Tutto è chiaro quando si parla dei “diritti” in astratto, per figurini:“figurini”: poi, man mano il discorso plana sul terreno giuridico, i figurini si sono sfaldati.

“figurini” si sono sfaldati. E alla fine risulta che la Corte costituzionale non muterebbe affatto strategia argomentativa per il solo fatto che ad essere invocate siano le libertà “negative” o i diritti “positivi”. Non desta meraviglia, perciò, che una delle rare pronunce di illegittimità costituzionale con effetto “additivo” in materia di esenzioni fiscali sia stata data dalla Corte proprio in relazione al profilo “positivo” del diritto di difesa, cioè a proposito del gratuito patrocinio[14].

Ancora una volta, si badi, non siamo di fronte alle perversioni di un singolo giudice costituzionale: sono temi e strategie argomentative, questi, che accomunano tutti i giudici che si occupano delle difesa dei diritti costituzionali. Il giudice che “tratta” questioni connesse ai diritti si muove di necessità all’interno delle coordinate fattuali e giuridiche tipiche del “caso”. È in relazione al caso concreto che deve decidere la “regola di prevalenza”, l’assetto gerarchico dei diritti. Lo può fare soltanto “pesandoli”, e li può pesare soltanto calcolando in che modo i due “diritti” si sovrappongano, in che punto ciò avvenga, cosa residui per il godimento dell’uno e dell’altro. Insomma, sviluppando tutti quei ragionamenti e quelle argomentazioni attraverso i quali si snoda il giudizio di bilanciamento. Ma la premessa di tutto ciò è che non vi sono assetti di interessi pre-giudicati, gerarchie assolute, diritti di precedenza consolidati, classificazioni che precostituiscano un ordine generale.

Però è diffusa l’idea che un “bilanciamento” possa aversi solo tra diritti sostanzialmente omogenei: nessuno si turba se, per esempio, la libertà di espressione viene compressa in nome del diritto alla privacy o all’onore, oppure se al diritto di proprietà s’oppongono limiti collegati al diritto (altrui) alla salute. Molto meno accettata è un’altra linea di conflitto, quella che oppone i diritti fondamentali (e, naturalmente, in prima fila quelli “negativi”) con esigenze del tutto disomogenee, come possono essere quelle connesse alla funzionalità degli apparati pubblici o, ancora, all’equilibrio della spesa collettiva. È diffusa la convinzione che questo accostamento tra “insiemi” disomogenei sia un vulnus alla ragione matematica, equivalga a voler sommare cavoli e mele. Ma ovviamente non è così.

Cavoli e mele non possono essere sommati o sottratti, ma si può benissimo determinare il peso di un cestino di mele ponendo sull’altro piatto della bilancia un cestino di cavoli. Il prezzo e il peso sono realtà esterne agli insiemi, che consentono il raffronto tra insiemi disomogenei e proprio perciò sono stati inventati. Il vero fondamento di questa critica non è matematico, dunque, ma ideologico: e in parte formalistico.

Una certa dose di formalismo sta nel denunciare la mancanza di copertura costituzionale degli interessi che si oppongono ai “diritti”. È un discorso doppiamente stonato.

Da un lato perché il catalogo dei diritti costituzionali non è certo esaustivo. Manca una citazione del diritto alla privacy, l’onore non è menzionato, nulla si dice sulla libertà di coscienza e neppure del “diritto alla vita”, nell’ombra restano diritti di recente “generazione” come l’identità sessuale per non parlare dell’ambiente. Per creare uno status costituzionale a questi “diritti” è necessario compiere operazioni spericolate d’interpretazione estensiva ed evolutiva del testo costituzionale, oppure scoprire la natura generativa di nuovi, infiniti diritti dell’art. 2 Cost. (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo…”). La stonatura è evidente: la vendita dei titoli nobiliari prelude alla perdita del loro significato sociale, e così è pure per lo status costituzionale dei “diritti”. Elargire lo status di diritto costituzionalmente riconosciuto ad interessi che filtrano per la porticina di un’interpretazione spregiudicata, rende assai poco credibile poi il tentativo di spendere questo status per rintuzzare altri interessi antagonisti, privi di titolo nobiliare.

Dall’altro lato questo discorso è stonato perché dimentica che la costituzione non è fatta solo di “diritti”, e che la stessa tutela dei diritti passa per l’efficienza degli apparati organizzativi. Tutto l’ineffabile dibattito italiano attorno alla giustizia si snoda, con l’inconsapevolezza tipica dei dibattiti politici italiani, lungo questa trama: esiste un diritto di difesa efficiente senza una macchina giudiziale (organizzativa e procedurale) efficiente? Se è vero – e che lo sia lo si affermava poc’anzi – che non c’è effettiva garanzia di un diritto individuale, negativo o positivo che sia, senza un’efficiente apparato giudiziario (e perché non anche sanitario, scolastico, antifortunistico ecc.?), diritto ed efficienza si rivelano termini, sì disomogenei, ma inseparabili.

 

6. Il “contenuto essenziale” dei diritti

Naturalmente vi potrebbe essere un’altra linea di attacco: distinguere tra il diritto, il suo contenuto essenziale, e le modalità con cui esso può essere esercitato, in modo da potere imputare le concorrenti ragioni dell’efficienza e dei costi non al “diritto” in sé, ma alle modalità del suo esercizio. Questo è un approccio da tempo proposto in Italia e assai frequente nella teoria tedesca dei Grundrechte[15]. La stessa giurisprudenza costituzionale è già giunta, in Italia come in Germania, a indicare l’esistenza di un Wesensgehalt, un contenuto essenziale dei diritti, non comprimibile: un limite di resistenza al bilanciamento. È probabile che esso sia in qualche modo collegabile a quei “princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale” che la Corte costituzionale ha ripetutamente posto a riparo da erosioni causate dall’ingresso di norme non nazionali e persino da revisione costituzionale. È possibile allora avvalorare la tesi di coloro che hanno indicato l’opportunità di distinguere il nucleo forte di protezione del diritto dal suo àmbito di applicazione e dalle modalità di esercizio? Abbiamo forse trovato persino un appiglio per edificare un ordine gerarchico?

Lo sforzo concettuale che tale linea di analisi e di elaborazione richiede è del tutto sproporzionato ai risultati, che sono demoralizzanti. La giurisprudenza costituzionale ci indica con chiarezza che il Wesensgehalt è un argomento interno alla strategia del bilanciamento degli interessi: è impiegato per indicare che un certo assetto degli interessi è squilibrato perché uno degli interessi in gioco è di fatto negato. Di solito è negato proprio perché le modalità del suo esercizio sono eccessivamente penalizzanti. Per esempio, se i termini per ricorrere contro un provvedimento sono troppo restrittivi, essi violeranno il “contenuto minimo” (ossia la ”minima praticabilità”) di quel diritto; se non è previsto che siano indennizzati i danni prodotti dalla vaccinazione obbligatoria, si lede il “contenuto minimo” del diritto alla salute (sent. 307/1990); altrettanto avviene di fronte ad indennizzi insufficienti della proprietà privata espropriata (sentt. 91/1963, 470/1990…) o se non viene esclusa la punibilità nel caso in cui si è agito in stato di bisogno (sent. 102/1975); e poi, come ovvio, la violazione del Wesensgehalt scatta di fronte ad ogni eccessiva compressione delle prestazioni pubbliche.

Il contenuto del diritto e le modalità del suo esercizio non sono dunque profili distinguibili. Anzi, siccome le modalità di esercizio di un diritto devono fare i conti con infiniti profili funzionali – esigenze organizzative, funzionamento delle macchine e delle procedure pubbliche, costi finanziari[16] - una volta di più viene corroborato quanto sin qui si è sostenuto: che tra i “diritti” costituzionalmente protetti e gli interessi funzionali non vi è gerarchia, ma concorrenza. Inoltre, la questione del “contenuto minimo” ci conferma anche un altro punto importante: che, alla fine, ciò che in un diritto rappresenta la parte più dura, quella che sta al centro della cupola dell’ombrello, si comporta egualmente tanto per le libertà negative che per i diritti positivi. Il Wesensgehalt del diritto di difesa, della libertà di domicilio, della libertà di espressione o del diritto alla salute e alla sicurezza sociale, ha sempre e comunque una natura immediatamente precettiva, è efficace erga omnes, si mostra indisponibile ad ulteriore compressione e limitazione di esercizio. È una tautologia, in fondo, perché questi sono i connotati tipici che concorrono a definire il “contenuto minimo”: è allora, una volta di più, che senso ha tracciare differenze e classificazioni tra “diritti” che hanno gli stessi connotati?

 Ancora una volta dobbiamo concludere riconoscendo che tutti questi tentativi definitori e classificatori sono ispirati da un forte pregiudizio ideologico, ma sono strumenti d’analisi spuntati. Anche se forse non è male che il giudice muova da un pregiudizio ideologico attorno alla precedenza dei “diritti” sugli interessi funzionali e dei “diritti negativi” rispetto ai “diritti positivi”: perché ciò appartiene, in fondo, all’ideologia dello Stato liberale ed avrà la conseguenza – positiva, se letta in termini ideologici – di spingerlo a sottoporre le leggi che comprimono i diritti, e le libertà negative in particolare, ad uno strict scrutiny. I “figurini” dei diritti a questo servono. Basta ricordare che sono pura ideologia.

 

7. Un equivoco più recente: i “livelli essenziali”

Da quando la riforma del Titolo V ha introdotto in costituzione, nell’enumerazione delle competenze legislative esclusive dello stato, la nozione di “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” già utilizzata dalle leggi di settore[17], un ulteriore equivoco serpeggia: che i “livelli essenziali” siano in qualche modo avvicinabili al “contenuto essenziale” dei singoli diritti. Ma di un equivoco appunto si tratta.

Il contenuto essenziale dei diritti, come si è appena sottolineato, è una figura argomentativi tipica della giurisprudenza costituzionale applicata nel bilanciamento degli interessi. Perciò il contenuto essenziale non è suscettibile di definizione preventiva e generale, ma è individuabile in relazione al caso specifico, esattamente per lo stesso motivo per cui il bilanciamento degli interessi non può essere “definitional”, ossia fissato in termini generali e astratti che prescindono dal variabile atteggiarsi del “caso”[18]. Ogni “caso” nasce in relazione ad uno specifico problema di esercizio del diritto, in presenza di limitazioni derivanti da esigenze di esercizio del diritto di altri, di tutela di altri diritti, dal soddisfacimento di interessi di diversa natura; in ogni “caso” muta il punto di scontro tra diritti e interessi coinvolti ed ognuno è deciso in base ad una apposita “regola di prevalenza” (secondo la nota terminologia di Alexy[19]) nella cui elaborazione il “contenuto essenziale” del diritto interviene come limite oltre al quale la compressione del diritto equivarrebbe alla sua espropriazione. Ogni giudizio sui limiti all’esercizio di un diritto può quindi fissare un punto oltre al quale il “contenuto essenziale” del diritto stesso verrebbe inciso.

I “livelli essenziali” stanno su tutt’altro piano. Essi sono oggetto di una decisione politica, e non di un giudizio di legittimità: esprimono in forma normativa le prestazioni a carico degli apparati pubblici che devono essere garantite su tutto il territorio nazionale e quantificano le risorse finanziarie corrispondenti. Gli ingredienti sono forse gli stessi del giudizio sul contenuto essenziale (si tratta di prestazioni pubbliche che strumentano i diritti costituzionali, dei limiti al loro riconoscimento in relazione alle risorse disponibili, di esigenze di parità di trattamento), ma diversi sono il cuoco, la preparazione e la pietanza. I livelli essenziali sono fissati con atto di tipo lato sensu normativo[20], sono frutto di una contrattazione tra diversi livelli di governo (almeno così s’è fatto sinora), hanno lo scopo di fissare le prestazioni che devono essere assicurate all’intera collettività nazionale a fronte di un determinato ammontare di risorse finanziarie: “prestazioni e risorse si condizionano, dunque, a vicenda, perché la decisione sulle prestazioni da garantire e la decisione sulle risorse da allocare vengono prese contestualmente[21].

In che relazione può venire a trovarsi la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni attinenti ai diritti con il giudizio sul contenuto essenziale dei diritti stessi? A me pare che la relazione sia debole, proprio perché le due nozioni stanno su piani molto diversi. I “livelli essenziali” saranno affrontati essenzialmente in questioni che possono arrivare alla Corte costituzionale in via diretta (o in sede di conflitto di attribuzioni), in quanto attinenti ai rapporti tra Stato e Regioni; mentre le questioni che i privati riusciranno a far sollevare in via incidentale avranno sempre ad oggetto il “contenuto essenziale” dei diritti. Il privato, cui gli apparati pubblici negassero una determinata prestazione attinente ai suoi diritti, impugnerà la legge sulla cui base si fonda il diniego, “nella parte in cui” l’esclusione di quella specifica prestazione lede il suo diritto, comprimendolo oltre il limite segnato dal contenuto essenziale: esattamente come avveniva prima della riforma del Titolo V, dunque. Né certo la Corte potrà evitare di scendere nel merito della specifica questione sottopostale per il solo fatto che il legislatore ha preventivamente definito quali “livelli essenziali” devono essere garantiti.

Tuttavia, che nel nuovo assetto dei poteri regionali e locali venga introdotto un meccanismo di individuazione normativa dei livelli essenziali delle prestazioni pubbliche che strumentano i diritti civili e sociali, non è affatto privo di significato sulla visione d’insieme, sull’ideologia dei diritti fondamentali, né sul sottostante nodo dei rapporti tra diritti fondamentali e rappresentanza. A questo nuovo modo di riproporsi del vecchio nodo merita dunque dedicare qualche considerazione finale.

 

8. Diritti e rappresentanza politica: una nuova prospettiva?

Per molti anni si è creduto che il catalogo dei diritti contemplati dalla costituzione del 1948 costituisse il punto di partenza per un processo lineare di espansione dei diritti stessi. La concretizzazione dei princìpi costituzionali da parte della legislazione ordinaria sembrava incorporare nella protezione costituzionale la “concreta sostanza” definita dal legislatore, consentendo così “una difesa efficace nei confronti di incisioni, comunque configurate, ed in particolare concretantesi in modificazioni limitative o abrogative della strumentazione giuridica predisposta alla realizzazione dell’interesse costituzionale protetto[22]. L’intero sistema di protezione giurisdizionale dei diritti – dall’interesse ad agire davanti al giudice ordinario o amministrativo, al requisito della rilevanza per adire in via incidentale la Corte costituzionale - sembrava operare in una strada a senso unico, nella direzione nell’espansione “per addizione” delle prestazioni pubbliche. A ciò si aggiungeva, da un diverso punto di vista, la convinzione che “in uno stato democratico non può riuscire il tentativo di eliminare dai compiti essenziali dello Stato le prestazioni di servizi sociali[23], per la semplice ragione che la rappresentanza democratica avrebbe impedito il “ritorno ai princìpi di funzionamento di una Stato ‘introverso’, ossia prevalentemente governato da regole formali di coerenza interna[24].

Le due linee prospettiche sono convergenti. La seconda pone in evidenza la ovvia tendenza dei regimi democratici ad allargare le prestazioni pubbliche legate ai diritti, perché a ciò spingono gli stessi meccanismi della rappresentanza e della legittimazione popolare. La prima guarda invece a come i diritti fondamentali,  riconosciuti dalla costituzione rigida e strumentati dalla legislazione ordinaria, siano “amministrati” da parte del giudice costituzionale e sottolinea la forza espansiva che il principio di eguaglianza esercita nel senso del continuo ampliamento dei diritti concretamente riconosciuti e garantiti dal legislatore ordinario. Però, nel momento stesso in cui individuano la direzione inequivoca in cui i sistemi democratici sono “costretti” a procedere, queste considerazioni svelano il lato debole della costruzione dei diritti attraverso la costituzione rigida. Se la rigidità, come si ipotizzava all’inizio, costituisce uno strumento per “congelare” la tutela dei diritti e sottrarre il delicato equilibrio tra essi al potere discrezionale della legge ordinaria, e quindi della maggioranza politica; se dunque è uno strumento che prosegue con tecnologie diverse lo stesso obiettivo a cui era servito in passato il suffragio censitario, ma in un sistema in cui l’eguaglianza si applica in pieno ai diritti politici e non pone più in discussione il principio del suffragio universale: allora l’inesorabile espansione legislativa e giurisprudenziale delle prestazioni pubbliche segna, sotto questo particolare profilo, il fallimento delle costituzioni rigide. Il sistema, evolvendo in un’unica direzione (espansione continua delle prestazioni pubbliche e conseguente scarnificazione del diritto di proprietà attraverso la necessaria pressione fiscale), tende a spostare in modo irrimediabile il punto di equilibrio tra i due cataloghi di diritti, che la costituzione rigida ha voluto invece “congelare”. Avrebbero dunque visto bene Schmitt, Forsthoff e gli altri critici dello Sozialstaat, nel riconoscere in esso i germi della corruzione irrimediabile del Rechtsstaat.

Tuttavia la previsione dell’espansione lineare dei diritti, e dei “diritti sociali” in particolare, si è poi rivelata sbagliata. Da anni assistiamo ad un processo di segno contrario e il ridimensionamento delle prestazioni pubbliche connesse ai diritti è costantemente all’ordine del giorno. La stessa previsione di una definizione legislativa dei “livelli essenziali” delle prestazioni pubbliche ne è un segno inequivocabile: la scarsità delle risorse finanziarie disponibili impone di selezionare gli obiettivi, ossia il livello delle prestazioni che non possono non essere assicurate in tutta la nazione. Livelli più elevati di prestazioni sono condizionati ad improbabili maggiori risorse finanziarie rastrellate a livello locale.

Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti; meno evidenti, forse, sono le sue premesse. La riduzione del livello delle prestazioni pubbliche legate ai diritti fondamentali, a cui oggi si assiste, non è affatto una scelta del popolo sovrano, divenuto – come ipotizzava non senza scetticismo Guizot – evoluto e consapevole al punto di scegliere di delimitare i propri diritti in modo da non turbare l’ordine naturale della società, del mercato e dell’equilibrio finanziario. Sono scelte imposte dall’esterno del sistema rappresentativo. Dietro vi è semmai il Patto di stabilità europeo, l’esigenza di preservare i parametri fissati in sede comunitaria, le condizioni poste dal Fondo monetario internazionale, le regole del commercio internazionale ecc. Il popolo sovrano ha conquistato il suffragio universale, ma ha nuovamente perso la piena disponibilità dei propri diritti: proprio come Achille con la tartaruga.

Non è più la costituzione rigida a imbrigliarlo congelando i cataloghi dei diritti, contrapponendo ad ogni diritto un groviglio indefinibile di interessi antagonistici e affidando l’amministrazione dei limiti ad un soggetto per definizione sottratto al circuito della rappresentanza, la Corte costituzionale. Come i liberali prima, durante e dopo la Rivoluzione francese ritenevano, vi è nuovamente un ordine razionale che la rappresentanza politica non può sovvertire, ma deve rispettare e rispecchiare nelle leggi che produce. Oggi questo ordine è costituito dal mercato e dalle “leggi” del libero commercio, dalle esigenze di equilibrio indotte dall’unificazione monetaria, dai princìpi di libera circolazione delle merci e dei capitali, dagli accordi internazionali sulla proprietà intellettuale e così via. È un ordine esterno al circuito politico-rappresentativo, su cui le istituzioni rappresentative poco, pochissimo e in certi casi per nulla possono incidere, ma da cui le loro scelte sono profondamente incise. Le istituzioni che hanno in cura questi interessi “esterni” non rispondono invece alle regola della rappresentanza. Se debole è il legame che con i princìpi della rappresentanza politica hanno le istituzioni comunitarie (ed il problema è troppo noto per essere qui tematizzato), inesistente è quello che intrattengono le istituzioni economiche internazionali (WTO, FMI, Banca mondiale ecc.). Estendere i princìpi della sovranità popolare alle une è difficile, alle altre impensabile. Due secoli fa era impensabile farlo per i grandi stati nazionali, mentre ben diverso poteva essere l’assetto rappresentativo negli enti locali. Oggi il suffragio elettorale e la sovranità popolare devono arrestarsi, per ragioni in fondo non diversamente “oggettive”, ai confini nazionali. Altrove sono decisi i limiti entro i quali i legislatori nazionali possono concretizzare nel proprio territorio la tutela dei diritti fondamentali.

Tutto ciò porta a riconsiderare le classificazioni dei diritti? All’opposto, sembrerebbe ritrovare un fondamento positivo l’antica contrapposizione tra “libertà negative” e “diritti positivi”. La proprietà si è smaterializzata e i proprietari depersonalizzati, ma i relativi diritti vengono (o forse restano) sottratti al potere politico, al circuito della rappresentanza: le “vecchie” libertà riassumono il loro antico statuto, fondato sul divieto di interferenza da parte degli apparati pubblici (compresi quelli comunitari, nonostante la resistenza della Corte di giustizia[25]) e sulla prevalenza rispetto alle leggi che garantiscono le libertà “positive”. È nel loro nome che le istituzioni economiche internazionali premono sugli stati perché rompano il “contratto sociale” che lega “i cittadini, la loro società e il loro governo” e che prevede “che vengano assicurate le tutele sociali ed economiche fondamentali[26]. Questo sembra l’effetto che la globalizzazione sta esercitando sulle democrazie, “sostituire le vecchie dittature delle élite nazionali con le nuove dittature della finanza internazionale[27]. Se, come è probabile, i “valori” propugnati dalla finanza e dal commercio internazionali riusciranno ad imporsi come “argomenti oggettivi”, esigenze naturali e razionali, e dopo essersi eretti a parametro di perenne confronto per i legislatori nazionali (e comunitari), si infiltreranno anche nel modo di ragionare e di argomentare dei giudici e delle corti costituzionali, buona parte dei diritti che le costituzioni rigide del ‘900 hanno deciso di preservare attraverso “congelazione” subiranno un rapido processo di sbrinamento.



* Questo scritto rielabora le idee già espresse in Diritti e fraintendimenti, pubblicato in "Ragion pratica" 2000, 15 ss., tessendole con un tema nuovo, quello della rappresentanza. Rispetto al testo già pubblicato, questo contributo presenta molte modifiche: inoltre i paragrafi 2, 7 e 8 sono del tutto nuovi.

[1] B. CONSTANT, Cours de politique constitutionnelle, Bruxelles 1851, 143-145.

[2] Cfr. P. ROSANVALLON, Le sacre du citoyen, Parigi 1992, 299 ss.

[3] P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 2. L’età delle rivoluzioni, Roma-Bari 2000, 643.

[4] Citato da P. ROSANVALLON, Le moment Guizot, Parigi 1985, 135 e da P. COSTA, Civitas cit., 247.

[5] Secondo la nota teorizzazione di C. SCHMITT, Verfassungslehre, tr. it. Dottrina della costituzione, Milano, 1984, 173.

[6] È quanto prevede il decreto delegato che disciplina l’I.V.A. (d.P.R. 633/1972), all’art. 52.

[7] Secondo la formulazione della regola di preferenza elaborata da R. ALEXY, Theorie der Grundrechte, Baden Baden 1985,  83 ss.

[8] Al bilanciamento dei diritti, con particolare attenzione alla giurisprudenza costituzionale italiana, ho dedicato Diritti e argomenti, Milano 1988; al rapporto tra la regola di prevalenza e le circostanze fattuali sono rivolte inoltre alcune considerazioni in L’ultima fortezza, Milano 1996, 70-76.

[9] Sul rapporto tra freternità e solidarietà cfr. F.PIZZOLATO, Appunti sul principio di fraternità nell’ordinamento giuridico italiano, in “Rivista internazionale dei diritti dell’uomo” 2001, 745 ss.

[10] Per un accenno cfr. M. MAZZIOTTI, Diritti sociali, in Encicl.dir. XII, 802 ss., 806; M. LUCIANI, Sui diritti sociali, in Studi in onore di Manlio Mazziotti di Celso, II, Padova 1995, 97 ss., 121.

[11] Questa la tesi di fondo del pamphlet di S.HOLMES e C.R.SUNSTEIN, The Costs of Rights – Why Liberty Depends on Taxes, New York – London 1999, tr. it. Il costo dei diritti, Bologna 2000.

[12] La massima, assolutamente costante nella giurisprudenza costituzionale, è tratta dall’ord. 27/2001.

[13] Per un’estensione dei privilegi fiscali operata in base al canone di ragionevolezza si veda, da ultimo, la sent. 202/2003.

[14] Sent. 194/1992.

[15] Per una recente e chiara ricostruzione del dibattito tedesco cfr. M. BOROWSKI, Grundrechte als Prinzipien, Baden Baden 1998.

[16] Una attenta e assai pregevole ricostruzione della giurisprudenza costituzionale in argomento è offerta da G.M.SALERNO, L’efficienza dei poteri pubblici nei princìpi dell’ordinamento costituzionale, Torino 1999.

[17] Cfr. C. PINELLI, Sui “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, co.2, lett. m, Cost.), in Dir.pubbl. 2002, 881 ss., 883 ss.

[18] Sul definitional approach cfr. R. BIN, Diritti e argomenti, cit., 65-71.

[19] Theorie der Grundrechte, Baden-Baden 1985, 75 ss.

[20] La Corte costituzionale, nella recente sent. 88/2003, sottolinea che la costituzione impone che “queste scelte, almeno nelle loro linee generali, siano operate dallo Stato con legge, che dovrà inoltre determinare adeguate procedure e precisi atti formali per procedere alle specificazioni ed articolazioni ulteriori che si rendano necessarie nei vari settori”.

[21] L. TORCHIA, Sistemi di welfare e federalismo, in Quad. cost. 2002, 713 ss., 735.

[22] M. VILLONE, Interessi costituzionalmente protetti e giudizio sulle leggi, I, Milano 1974, 267 s.

[23] B. CARAVITA, Oltre l’eguaglianza formale, Padova 1984, 75.

[24] A. BALDASSARRE, Lo Stato sociale: una formula in evoluzione, in Critica dello Stato sociale, a cura di A. Baldassarre e A. Cervati, Bari 1982, 48.

[25] Mi riferisco in particolare alla resistenza che la Corte di Lussemburgo oppone al riconoscimento dell’accordo WTO come parametro di valutazione di legittimità degli atti comunitari (per es., sent. C-149/96, Portogallo/Consiglio).

[26] J. E. STIGLITZ, Globalization and Its Discontents, tr. it. La globalizzazione e i suoi oppositori2, Torino 2003, 212.

[27] Ibidem, 251.