Un nodo decisivo: democrazia e corporativismo nella integrazione della Commissione bicamerale

(editoriale di “Le istituzioni del federalismo”, 5/2001)

 

di Roberto Bin

 

In una recente lettera con cui il sen. Mancino, nella qualità di coordinatore del Comitato paritetico costituito dalle Giunte del Regolamento della Camera e del Senato per esaminare i riflessi della riforma costituzionale del Titolo V, invita i rappresentanti delle Regioni ad un’audizione sull’attuazione dell’art. 11 della riforma, che prevede l’integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con i rappresentanti delle Regioni e delle autonomie locali, si indicano correttamente come prioritari due problemi. Il primo è come integrare i rappresentanti delle autonomie nell'espressione dei pareri; il secondo è come selezionare i rappresentanti delle autonomie. Sono due problemi che si rincorrono, perché uno condiziona irrimediabilmente l'altro: per cui la soluzione va ricercata in una prospettiva esterna, e più generale.

Mi sembra che il problema da affrontare prioritariamente sia quale natura e quale funzione abbia l’integrazione della Commissione bicamerale con i rappresentanti delle autonomie. Va stabilito se il senso di questa integrazione sia di inserire e, in qualche modo far valere, nel procedimento legislativo parlamentare l’opinione (poi vedremo come espressa) di una rappresentanza territoriale degli enti autonomi o di una rappresentanza corporativa dei diversi livelli di governo locale. È una scelta di politica istituzionale generale dalle implicazioni decisive non solo per la sorte delle autonomie locali, ma anche per la caratterizzazione delle assemblee parlamentari.

In tutti i sistemi federali (usando l'espressione nel significato più lato e comprensivo), quali siano le forme organizzative prescelte - che, come noto, variano di molto -, la rappresentanza degli enti federati è basata sui territori: ciò è perfettamente coerente con il sistema, perché il confronto che viene ad instaurarsi è tra la rappresentanza generale della "nazione" e la rappresentanza particolare degli interessi localizzati. Non fa eccezione, tra i sistemi regionali, la Spagna, in cui pure il Senato ha una composizione mista, in parte essendo eletto direttamente dal corpo elettorale (ma su base provinciale) e in parte eletto indirettamente dalle assemblee regionali. Persino in Francia, che non è qualificabile certo tra i sistemi federali, il Senato, tutto eletto indirettamente, "assicura la rappresentanza delle collettività territoriali della Repubblica" (art 25 Cost. Fr.). In nessuno dei paesi di riferimento vige invece un sistema di rappresentanza corporativa, "per Stati" (nel senso in cui si usava l’espressione nell’Ancien régime), in cui gli enti autonomi sono presenti nelle Assemblee parlamentari non in ragione delle collettività territoriali che rappresentano, ma in ragione degli interessi di categoria, e perciò corporativi, modellati sul tipo di livello di governo cui appartengono.

Sul piano della selezione dei rappresentanti delle autonomie, questa premessa dovrebbe spingere ad ancorare l'intera rappresentanza degli enti autonomi su base territoriale. Capisco che possano prospettarsi delle difficoltà pratiche: ma, mentre queste sono comunque superabili (ed ora vedremmo come), mi preme sottolineare l’importanza assoluta che investe il principio. Che un organo parlamentare sia integrato da soggetti che non abbiano alcuna legittimazione elettorale, ma sia rappresentati “sindacali” di interessi di categoria sarebbe davvero un vulnus al sistema democratico di gravità eccezionale. Se l’ipotesi e di far nominare i rappresentanti di Comuni e Province dalla Conferenza Stato-autonomie locali (o dalla c.d. “unificata”, per aggiungere la nomina dei rappresentanti delle Regioni), ci troveremo di fronte a questa soluzione: un organismo non parlamentare e non elettivo, i cui membri sono designati da associazioni private “di categoria” (l’Anci e l’Upi) - che per loro natura perseguono fini di tipo corporativo (la difesa del proprio livello di governo e degli interessi che su di esso in astratto si coagulano), e che come tutti i sindacati nazionali, per la loro stessa natura, operano attraverso la logica centralistica della contrattazione nazionale e dell’accordo con gli organi centrali, programmaticamente indifferenti alle varianti degli interessi locali - dovrebbe esprime i rappresentanti delle autonomie che, per loro natura, sono organizzate e differenziate per territorio, rappresentano realtà e interessi locali, talvolta tra loro conflittuali? Una rappresentanza siffatta bene si collocherebbe, semmai, in organi come il CNEL, che ambisce alla rappresentanza degli interessi di categoria, non certo in organi parlamentari. A me tutto ciò sembra di palmare evidenza: oltretutto un organo a composizione corporativa vedrebbe inevitabilmente stemperata la propria funzione nel procedimento deliberativo della Commissione bicamerale.

Ci sono le supposte difficoltà pratiche. Ma ci sono davvero? Se si parte dal principio fermo che i rappresentanti delle autonomie devono necessariamente essere soggetti che rappresentano i territori, e non i “livelli” di governo (cosa che non si sarebbe mai vista e che  a me appare inconcepibile), la soluzione che si prospetta è semplice e lineare. Non si pongono problemi per la rappresentanza delle Regioni: il regolamento delle Camere potrebbe prevedere che ogni Regione nomini un rappresentante sulla base del proprio Statuto. Deve essere necessariamente il Presidente della Regione? Non credo e soprattutto non credo che in questo momento sia opportuno fomentare i contrasti tra le assemblee e gli esecutivi regionali, spaccando ulteriormente il fronte delle autonomie: perché comunque è difficile immaginare che i rappresentanti possano essere più di uno per Regione, per cui le minoranze consiliari non troverebbero comunque spazio (il che non può che essere un bene). Sarebbe invece molto consigliabile che si prevedesse, nel regolamento parlamentare, di eleggere, accanto al membro effettivo, anche un membro supplente: soprattutto se ad essere designato sarà il Presidente della Regione, è più che necessario che egli si possa far sostituire in caso di impedimento, e il sostituto deve avere a sua volta le credenziali per sedersi sui banchi di un organismo parlamentare, quindi deve essere eletto.

Per gli enti locali il problema è solo apparentemente più complicato. Mantenendo fermo il principio per cui la rappresentanza degli enti locali deve essere disegnata su base territoriale, la soluzione naturale sarebbe che i regolamenti la demandassero all'unico organismo costituzionale necessario di rappresentanza degli enti locali, ossia il Consiglio delle autonomie locali previsto, dopo la riforma del Titolo V, dall'art. 123 u.c. Cost. Finalmente avremmo realizzato un sistema armonico e coerente: attraverso l’organismo costituzionale e statutario che rappresenta su base regionale gli enti locali territoriali si individua il rappresentante delle realtà locali di quella regione (intesa come dimensione territoriale), che siederà a pieno titolo accanto al rappresentante di quella Regione (intesa come ente politico).

Naturalmente si potrebbe obiettare che gli Statuti regionali ancora non ci sono e che perciò non ci sono né le norme per eleggere i rappresentanti della Regione né i Consigli delle autonomie. Ma la risposta non può essere che, per le difficoltà immediate, si ripiega su soluzioni aberranti: è semplicemente necessaria una disciplina transitoria, che ben può essere prevista dallo stesso regolamento parlamentare. In via transitoria si potrebbe disporre, con norma suppletiva, che in attesa dell'approvazione degli Statuti l'elezione del rappresentante regionale e del suo supplente sia effettuata da parte del Consiglio regionale, nel suo seno; mentre all'elezione dei rappresentati degli enti locali procedano o i consigli delle autonomie già istituiti in molte regioni, o analoghe assemblee da istituire ad hoc.

Il risultato che si potrebbe ottenere è di notevole armonia: una Commissione bicamerale composta per un quarto da senatori, per un quarto da deputati, per un quarto da consiglieri regionali (uno per ciascuna regione), un quarto da rappresentanti degli enti locali (uno per ciascuna regione). Una norma speciale potrebbe essere prevista per il Trentino- Alto Adige, prevedendo che i due rappresentati che spettano a quel territorio siano eletti dai consigli delle Province autonome.

Risolto così il problema strutturale, nulla impedirebbe di affrontare con semplicità la seconda questione. La rappresentanza di Regioni e enti locali potrebbe sedere a pieno titolo nella Commissione bicamerale, così come i rappresentanti regionali partecipano a pieno titolo al Parlamento in seduta comune per l’elezione del Presidente della Repubblica. Il che certo non vuole dire che siano “membri a pieno titolo” della Commissione (non assumono lo status del parlamentare, anche se certamente a loro si estendono le immunità dell’organo, cioè l’art. 68.1 Cost.), non sono indennizzati a carico del bilancio delle Camere ecc. Ma, per esempio, dovranno in qualche modo partecipare all’ufficio di presidenza della Commissione, in modo da concorrere alla programmazione dei lavori.

Soprattutto la Commissione potrebbe procedere votando a maggioranza, come ogni altro organo parlamentare. Tutti i suoi membri potrebbero vantare un “titolo” elettorale di legittimazione, sia pure (quelli di derivazione regionale o locale) di secondo grado. Ma nelle Camere di rappresentanza territoriale l’elezione di secondo grado è assolutamente la regola: era così anche negli Stati uniti prima della riforma costituzionale del 1913 (e i sistema tedesco non è certo un’eccezione, perché il Bundesrat solo impropriamente è indicato come una “seconda Camera”). Mentre nell' ipotesi di un'anomala composizione corporativa della Commissione, si dovrebbe accogliere una non meno anomala ipotesi di votazione "per Stati" che, nella cultura costituzionale occidentale, è stata superata già agli esordi della rivoluzione francese.