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Tutte le costituzioni del mondo sono nate guardando al proprio passato prossimo: le loro disposizioni sono state progettate per fissare la soluzione dei problemi e dei contrasti che hanno agitato la storia istituzionale e politica del paese. La nostra storia istituzionale ci indica con chiarezza che nell’area dei rapporti tra stato e regioni problemi e contrasti sono numerosi, ingenti e irrisolti: sono irrisolti perché le soluzioni progettate dalla costituzione del ‘48 si sono dimostrate inefficienti, l’intera regolazione costituzionale dei rapporti stato-regione è saltata. Non è un dato solo Italiano: in tutti i sistemi in cui la regolazione dei rapporti tra autorità centrali e autorità periferiche si sia basata, come in Italia, su linee rigide di separazione delle competenze, sul controllo giurisdizionale del rispetto di queste linee, su regole astratte di concorrenza di livelli diversi di governo nella legislazione e nell’amministrazione, in tutti questi sistemi la realtà si è sviluppata in direzioni diverse dall’astratta regolazione. Il successo della parola ‘sussidiarietà’ sta a dimostrare questo fatto, perché la sussidiarietà è un appello alla flessibilità delle attribuzioni, alla prevalenza della collaborazione sulla separazione delle funzioni, in una parola, alla co-decisione, alle garanzie di un procedimento consensuale di divisione dinamica dei compiti capaci di sostituire le garanzie (dimostratesi inefficienti) di divisione statica e predeterminata delle astratte competenze.
Per questo, come del resto emerge da quasi tutti gli interventi sentiti oggi, il ruolo e, di conseguenza, la funzione del Senato delle regioni si pongono come il problema dei problemi. Tutti siamo sostanzialmente d’accordo nel concepire la presenza delle regioni in Parlamento, e quindi nel procedimento legislativo, come il primo punto di un programma di riforma costituzionale diretto a rimediare alla crisi dell’attuale regolazione costituzionali dei rapporti centro-periferia.
Su un altro punto mi sembra che si registri un ampio consenso, vale a dire sull’accentuato pessimismo in merito alle prospettive di questa riforma. Un pessimismo più che giustificato, mi sembra, se si pensa che, mentre noi siamo tutti d’accordo nell’individuare nella regionalizzazione del senato il primo e decisivo passo da compiere, la commissione bicamerale ha aperto i suoi lavori suddividendosi in quattro sottocomitati di cui uno si occupa del bicameralismo, come se fosse un problema separato e separabile da quelli della forma dello stato (e quindi della presenza delle regioni nella seconda camera) o della forma di governo. La “bicamerale” che si occupa del “bicameralismo” come problema a sé: un bel successo per coloro che, come i senatori del PDS Villone e Salvi, sono dell’idea che le regioni nel senato non ci devono entrare, se non come gentili ospiti dell’ora del tè. Ma pensare di organizzare un meccanismo cruciale come la seconda camera con le stesse logiche con cui si organizza un tè è un errore assai grave. La seconda camera, sia pensata come una sede di rappresentanza delle regioni o, secondo la bizzarra idea che sta emergendo, come la camera delle “garanzie”, deve però funzionare, e per funzionare deve corrispondere a alcune regole della meccanica istituzionale. Invece le proposte, spesso evidentemente assai frettolose, sottoposte alla bicamerale mi sembrano affette da “scoutismo” istituzionale: non c’è troppo da meravigliarsi, dato che tra coloro che hanno firmato i documenti che propongono la riforma del sistema delle autonomie e dell’amministrazione pubblica sono quasi assenti persone che provengano dall’esperienza di governo nelle regioni e negli enti locali o da esperienze di amministrazione.
Le proposte presentate riflettono la mentalità del politico puro, che parte dalla necessità della mediazione politica: le proposte partono già “mediate”, più attente alle esigenze della mediazione che a quelle della meccanica istituzionale. Un esempio: recentemente D’Alema ha detto di optare, come soluzione elettorale capace di risolvere il problema della “governabilità”, per un sistema maggioritario a doppio turno; ma poi ha aggiunto: naturalmente con una correzione proporzionale. Sarebbe come se il meccanico dicesse: per far correre bene la ruota ci mettiamo un cuscinetto a sfera; ma, per esigenze commerciali, lo facciamo ovale! Un altro esempio: siccome si trasforma il senato, i senatori a vita non ci possono più stare; ma politicamente non si possono sopprimere, e allora li trasformiamo in deputati a vita, senza badare al fatto che in una camera rigorosamente maggioritaria la maggioranza, come capita in Inghilterra, può reggere su un unico voto. Questa è pura follia!
Per chi ha ancora a cuore il regionalismo, le alleanze in vista delle riforme sono davvero difficili. La spaccatura creata un po’ ad arte in periferia tra regioni e comuni ha reso le alleanze ancora più difficili, mentre i partiti nazionali stanno trionfalmente persuadendo la gente che il vero problema delle riforme è la forma di governo, il centro. Ricreare un’alleanza delle forze politiche della periferia, delle autonomie, diventa indispensabile: ma su quale terreno? Proporre un cuscinetto ovalizzato quale il senato delle autonomie, il grosso CNEL in cui regioni, comuni e province passano i giorni a litigare e mediare, non mi sembra un risultato possibile. I comuni non vogliono un senato delle regioni, perché vogliono anch’essi essere rappresentati in parlamento? Bene, perché le regioni non propongono un referendum abrogativo delle norme ordinarie che fissano l’ineleggibilità dei sindaci alla camera dei deputati e, se dovesse passare l’elezione diretta di questo, anche al senato? Si metta, la classe politica locale, sul piano di un’aperta concorrenza con quella nazionale. Contro l’arroccamento corporativo della classe politica nazionale (dimentica di essere anch’essa eletta in periferia), non sarebbe male che anche la classe politica periferica si istituisse in un gruppo d’interesse combattivo. Il naturale momento di scontro potrebbe essere il referendum, quel referendum che forse incautamente i partiti nazionali hanno voluto prevedere come necessario coronamento del processo di riforma iniziato dalla bicamerale. Se, come tutto fa pensare, nulla di buono per il sistema delle autonomie c’è da aspettarsi dalla bicamerale, se i politici locali tanto poco possono influenzare le decisioni delle segreterie nazionali, lo scontro è necessario: sarebbe l’occasione per verificare se davvero, come in tanti avvertiamo, in periferia la politica ha subito un profondo rinnovamento, e se i “nuovi sindaci”, quelli che purtroppo hanno intrapreso la strada sbagliata della lotta contro le regioni, sono davvero i soggetti politici che godono oggi in Italia della maggior legittimazione politica.
Due flash finali. Primo, la forma di governo regionale: non mi convince la soluzione dell’imposizione dal centro di una forma di governo eguale per tutte le regioni. Mi sembra l’esatto contrario dell’autonomia, della sussidiarietà ecc. Ma siccome so bene quale difficoltà si opponga all’autoriforma del sistema politico (e non solo di quello regionale, purtroppo!), trovo sensata la soluzione proposta dai Verdi: la costituzione fissa un assetto istituzionale eguale per tutti, ma le regioni possono poi modificarlo. E’ una sorta di inversione dell’onere della riforma.
Secondo, la Corte dei conti: tutti i progetti scrivono versi stupendi sulla riforma dell’art. 81, cioè sulla copertura delle spese e sulla salvaguardia del pareggio di bilancio. Ma sono quasi sempre poesie (dimentiche, per lo più, dei vincoli che derivano dal trattato di Maastricht), perché quei versi non sono tradotti in meccanismi. Dire che le leggi devono avere la copertura finanziaria e non prevedere un canale di impugnazione delle leggi che ne sono prive, per rendere giustiziabile questo limite, significa scrivere versi, non norme giuridiche. Proprio nella impugnazione diretta delle leggi può scorgersi un primo tratto del ruolo della Corte dei conti. Ma al tema dovrebbe essere dedicato un seminario intero, perché la Corte dei conti è uno dei perni di qualsiasi sistema federale, le cui regole fiscali e finanziarie non possono reggere senza un efficiente organo che garantisca la regolarità dei conti.