Reati elettorali e potestà legislativa delle Regioni speciali (con un breve spunto in tema di violazione dei principi costituzionali)
1. Con uno dei classici provvedimenti legislativi “omnibus” di fine legislatura, la Regione Sicilia ha provveduto a sistemare una serie di situazioni che riguardavano, tra l’altro, il personale regionale e gli enti locali. Il Commissario dello Stato ha impugnato la legge eccependo l’incostituzionalità di ben quattro norme di essa: quella che dispone l’abrogazione “secca” dell’ineggibilità-incompatibilità dei dirigenti nazionali, regionali e provinciali dei partiti nel comitato regionale di controllo sugli atti degli enti locali; quella che consente l’utilizzazione delle graduatorie di precedenti concorsi anche per la copertura di posti reintrodotti negli organici degli enti locali dopo essere stati esclusi in occasione delle determinazione provvisoria delle piante organiche; quella che ha per obiettivo di inquadrare nell’organico regionale un unico dipendente che, distaccato dall’Università di Palermo presso l’Opera universitaria, sarebbe altrimenti rimasto escluso dal passaggio nei ruoli regionali del personale che si trovava in servizio presso l’Opera quando, nel 1985, le funzioni di essa furono trasferite alla Regione; quella, infine, che modifica il regime delle sanzioni penali per i reati elettorali relativi alle elezioni regionali, sostituendo alla norma che richiamava il regime delle elezioni per la Camera un richiamo al regime vigente per l’elezione dei Consigli delle Regioni ordinarie (che è poi lo stesso che si applica alle elezioni comunali).
Delle due questioni centrali la Corte si libera in poche parole, rigettandole. Individua infatti nella particolarità della situazione regolata dal legislatore regionale ragioni sufficienti di differenziazione dai principi invocati dal ricorrente: cioè, dal “principio del pubblico impiego”, che sancisce “il divieto di utilizzare la graduatoria di idonei di un precedente concorso in relazione a posti istituiti o trasformati successivamente alla approvazione della graduatoria stessa” (sent. 266/1993); e dalla regola del concorso pubblico per l’accesso al pubblico impiego.
Anche della quarta questione la Corte si libera in due parole, ritenendo, per come è formulato il ricorso, di dover affrontare soltanto l’ipotesi di contrasto tra la norma della legge e la disposizione dello Statuto siciliano (art. 3) secondo cui la disciplina delle elezioni regionali deve rispettare “i princìpi stabiliti dalla Costituente per le elezioni politiche”. Ma nella breve motivazione data dalla Corte vi sono almeno due spunti che meritano una citazione.
2. Innanzitutto la Corte mostra un inconsueto self restraint: circoscrive il petitum al solo contrasto con la disposizione dello Statuto richiamata nel ricorso, espressamente escludendo dall’ àmbito del suo giudizio la ben più rilevante questione della potestà legislativa regionale in “materia” penale. La posizione “arbitrale” rivendicata dalla Corte in questo caso sorprende un po’, perché contrasta con il rigore e la drammatizzazione con cui in passato sono sempre state trattate le intromissioni del legislatore regionale nel diritto penale. Se è il valore dei beni messi in gioco dalla sanzione penale (la libertà personale in primo luogo) il primo anello della catena di argomentazioni che la Corte usa impiegare per escludere drasticamente la competenza della legge regionale, non può certo essere l’occasionale formulazione del petitum il motivo che inibisce l’intervento della Corte.
Il fatto è che sulla competenza del legislatore siciliano a disciplinare anche i profili penali del diritto elettorale vi è un illustre precedente (citato del resto dalla sentenza in commento) che risale alla sent. 104/1957. In quella occasione, chiamata in via incidentale a pronunciarsi circa la legittimità della norma delle legge elettorale siciliana che rinviava alle sanzioni penali contenute nel testo unico per le elezioni del Parlamento nazionale del 1948, la Corte aveva rigettato la questione affermando che i reati elettorali sono “per ormai antica e non interrotta tradizione legislativa” parte della legislazione elettorale, e che quindi, laddove lo Statuto riconosce alla Regione competenza in materia elettorale, compie una “attribuzione di competenza legislativa di carattere eccezionale, che deroga, per la materia in esame, al principio generale che si ricava dall’art. 25 della Cost.”, cioè alla riserva di legge statale. Un precedente, come si vede, piuttosto impegnativo!
3. Si aggiunga poi - ed è questo il secondo spunto da sottolineare - che nel 1957 la Corte aveva buon gioco a convalidare la legge regionale, poiché questa faceva richiamo proprio a quelle norme che la stessa Costituente aveva dettato per il parlamento nazionale, in perfetta e “letterale” armonia con quanto disposto dalla norma statutaria attributiva della potestà. La questione sollevata oggi, invece, colpisce una norma che si discosta da quella disciplina “storica”, per rinviare invece alla ben più recente legislazione statale sull’elezione dei Consigli regionali[1].
Senza rimettere in discussione l’intero schema del ragionamento sviluppato nel 1957 (la legge regionale, richiamando le norma penali del t.u., non fa che proseguire nella traccia della tradizione del diritto elettorale e nell’attuare l’art. 3 dello Statuto, perciò può validamente derogare al monopolio statale in campo penale posto dall’art. 25 Cost.), la Corte si limita ad affrontare un unico aspetto: se il limite dei “princìpi stabiliti dalla Costituente per le elezioni politiche” comporti una “pietrificazione” della legislazione elettorale voluta dalla Assemblea costituente o debba essere interpretato in senso dinamico o comunque più elastico.
L’opzione che la Corte esprime nella decisione in esame è la seconda: visto che l’elezione dell’Assemblea regionale non è disciplinata direttamente dalla Costituzione, il senso della previsione statutaria va inteso così, che la disciplina legislativa regionale è vincolata “al rispetto dei princìpi ricavabili dalla Costituzione stessa in materia elettorale”. L’argomento portante è di tipo psicologico e storiografico: considerato che lo Statuto preesisteva all’elezione dell’Assemblea costituente, il richiamo alla produzione normativa di questa è rivolto anzitutto al testo della Costituzione, non a quello della legge elettorale nazionale varata in seguito dalla Costituente; eppoi, ragionando ab absurdo, se proprio si volesse ritenere che sia invece la legge elettorale l’oggetto del richiamo, solo i “princìpi ispiratori” di questa, non anche le “specifiche scelte” del legislatore statale, costituirebbero vincolo per il legislatore regionale
Insomma, quanto ad ampiezza ed incidenza del limite nei confronti della legislazione regionale, il risultato pratico non sarebbe molto diverso. Molto diverso è invece il risultato sotto il profilo della qualificazione della potestà legislativa della Regione in materia elettorale. Come è noto, tale qualificazione è alquanto dubbia per alcune Regioni speciali: non per il Friuli-Venezia Giulia, il cui Statuto colloca la disciplina elettorale nell’elenco delle materie su cui la Regione ha potestà concorrente (art. 5); né per la Valle d’Aosta, che riserva la materia alla legge statale. Per le altre Regioni differenziate, gli Statuti non sono affatto espliciti: manca infatti qualsiasi riferimento a limiti individuabili nell’ordinamento statale, mentre i “princìpi” da rispettare (anzitutto il sistema proporzionale ed il suffragio universale e diretto) sono espressi direttamente dallo Statuto[2].
L’opinione prevalente colloca la competenza in materia elettorale al livello della legislazione concorrente[3], soprattutto per l’attrazione del modello costituito dallo Statuto del Friuli-Venezia Giulia e poi per una pretesa esigenza di omogeneità dei meccanismi elettorali; mentre nella giurisprudenza costituzionale si possono trovare le soluzioni più diverse.
In un primo tempo, a proposito del Trentino-Alto Adige, la Corte, ragionando a partire dall’esigenza dell’unità politica dello Stato, ha qualificato la competenza regionale in materia elettorale come competenza concorrente[4]: ma con affermazioni meno nette ed esplicite di come le abbia interpretate la dottrina[5], perché dichiarò la legge regionale illegittima per contrasto “con i princìpi della legge dello Stato”, ma dopo aver sottolineato che “non si vede come potrebbe ritenersi salvaguardata l’unità politica dello Stato in presenza di leggi regionali regolanti, in modo diverso da quanto il legislatore statale ha stabilito, una materia che... incide sulla garanzia della libertà democratica del Paese”.
In effetti, la successiva sent. 90/1974, in sede di qualificazione della potestà legislativa regionale (anche in questo caso del Trentino-Alto Adige), affermò che l’esercizio del voto è regolato, per i princìpi fondamentali, direttamente dallo Statuto, e poi “esaurientemente” dalle norme di attuazione dello Statuto: aggiungendo però che ciò “non esclude tuttavia la potestà della Regione di stabilire norme ulteriori, di carattere integrativo”. E’ però vero che in questo caso la Corte motiva il rigetto della questione sollevata contro la legge regionale, e talvolta la tattica argomentativa che adotta è di muovere dalle posizioni meno favorevoli alla conclusione cui vuole arrivare.
Al contrario, la sent. 20/1985 è esplicita nel qualificare come “potestà legislativa primaria” la competenza legislativa riconosciuta alle Regioni speciali dai loro Statuti - si badi, di tutte le Regioni speciali (inclusi dunque il Friuli-Venezia Giulia e la Valle d’Aosta, dunque), anche se la questione posta (e respinta) dalla Corte verteva su una legge della Sicilia. Anche in questo caso la Corte fa salva la legge locale, ma forse la portata delle affermazioni citate è tanto leggera, quanto avventata era l’impugnazione promossa in via incidentale[6]. In altri casi ancora la Corte si è astenuta invece da qualificare la potestà legislativa regionale in materia[7], oppure ha dato qualificazioni ancora più ambigue di quelle sin qui ricordate[8].
4. Un accenno merita dedicarlo anche al primo dei quesiti affrontati dalla Corte in questa sentenza: è legittima l’abrogazione “secca” della norma regionale che, sulla falsariga di quanto dispone la legge 142/1990, fissa l’ineggibilità-incompatibilità dei dirigenti nazionali, regionali e provinciali dei partiti nel comitato regionale di controllo sugli atti degli enti locali? In materia la Regione Sicilia gode di potestà primaria: ma qui non entra in discussione il tipo di condizionamenti che ad essa possono derivare dalla legge 142. Il Commissario dello Stato lamenta infatti la violazione diretta del principio costituzionale di imparzialità dell’amministrazione, sancito dall’art. 97 Cost.
Interessante è l’argomentazione della Corte per motivare l’accoglimento della questione. La ratio della norma (di quella statale come di quella regionale abrogata) è di mantenere distinti il piano dell’indirizzo politico da quello dell’amministrazione. La soluzione tracciata dalla legge 142 (e mutuata dalla disposizione regionale) non è “l’unico modo di dare attuazione ... al principio costituzionale”: per esempio, il legislatore regionale avrebbe potuto limitare i casi di incompatibilità ai soli “politici” in carica, non estendendoli a quelli ormai usciti di scena. Quello che il legislatore regionale non può invece fare è di abrogare “puramente e semplicemente” le ipotesi di incompatibilità, perché così facendo lascerebbe il principio costituzionale senza la necessaria strumentazione. Un motivo riecheggia in questa argomentazione della Corte: quello che essa, sin dalla sent. 16/1978, ha introdotto nel giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo a proposito delle leggi “costituzionalmente necessarie”. Anche per l’attuazione dei princìpi costituzionali il legislatore regionale può scegliere “una fra le tante soluzioni astrattamente possibili per attuare la Costituzione”, ma non lasciare quest’ultima senza strumenti normativi adeguati.
Roberto Bin
[1] Merita ricordare che una questione eguale e inversa era stata sollevata in via incidentale contro la legge del Trentino-Alto Adige che richiama per i reati elettorali la legge elettorale della Camera, anziché quella per le elezioni regionali: essendo le sanzioni previste da quest’ultima per la fattispecie de qua più gravi di quelle previste per l’elezione della Camera, la Corte si è liberata della questione dichiarandola manifestamente inammissibile (ord. 132/1995, in questa Rivista 1995, 1185 - solo massima).
[2] Art. 19, 1 dello Statuto del Trentino-Alto Adige;
[3] In questo senso si esprimono per esempio manuali accreditati come MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico9 II, Padova 1976, 896; PALADIN, Diritto regionale5, Padova 1992, 317; MARTINES-RUGGERI, Lineamenti di diritto regionale2, Milano 1987, 43 s. Che si tratti invece di potesà piena o esclusiva lo sostiene per es. PINNA, Commento alla L.cost. n. 3/1948, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma 1995, 377 s.
[4] Sent. 26/1965, in Giur.cost. 1965, 252 ss.
[5] Cfr. PALADIN, “Cittadinanza regionale” ed elezioni consiliari, in Giur.cost. 1965, 254 ss.
[6] Cfr. infatti il commento di BETTINELLI, Storia di un dubbio impossibile, in questa Rivista 1985, 541 ss.
[7] Si vedano, per esempio, le sent. 113/1993, 233/1994
[8] Per esempio, nella sent. 171/1984 (in questa Rivista 1984, 1247 ss., con nota di G. Mor), a proposito dei casi di ineleggibilità previsti dalla legislazione siciliana, la Corte ha affermato che la potestà legislativa di tutte le Regioni speciali “deve essere strettamente limitata dai princìpi della legislazione statale”, ammettendosi deroghe soltanto per situazioni specifiche che connotino la Regione stessa. Ma questa è un’affermazione ricorrente nella giurisprudenza costituzionale quando si tratti della disciplina dei casi di ineleggibilità, ripetuta anche a proposito della disciplina delle elezioni provinciali e comunali, per la quale la Regione vanta una sicura competenza esclusiva (cfr. sent. 84/1994, 463/1992, 539/1990... 189/1971, 108/1969, 60/1966, 26/1965, 105/1957).